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Economia

La spesa per Natale supera i 25 miliardi

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Non sarà un Natale all’insegna dell’austerità, e complici il recente Black Friday, il caro-prezzi e una generalizzata miglior propensione alla spesa da parte dei consumatori, il giro d’affari della festività sarà in crescita rispetto al passato. I dati arrivano dal Codacons, le cui stime preliminari confermano le previsioni delle organizzazioni dei commercianti e il clima di ottimismo che si respira sul Natale 2024.

“La spesa degli italiani raggiungerà quest’anno i 25,6 miliardi tra alimentari, viaggi, regali e ristorazione, con una spesa media da 992 euro a famiglia. La prima voce a salire è quella relativa ai regali con circa 9,5 miliardi. Ad influire su tale dato è il Black Friday, con ben un acquisto su due effettuato durante il periodo di sconti. In testa alla classifica dei beni che saranno più regalati si trovano, dopo gli immancabili giocattoli ai bambini, abbigliamento e accessori, seguiti da elettronica e alimentari, ma prende sempre più piede la tendenza a regalare esperienze come biglietti per concerti ed eventi, trattamenti estetici, servizi termali, massaggi, viaggi, degustazioni enogastronomiche, corsi di cucina. Nella scelta dei doni irrompe poi l’Intelligenza Artificiale, già usata da circa un giovane su due come aiuto per individuare il regalo più adatto da acquistare. Per il cenone della Vigilia e pranzo di Natale si spenderanno oltre 3 miliardi, ma sulle tavole degli italiani peserà il caro-prezzi: il comparto alimentare registra infatti listini in crescita in media del +3,2% rispetto allo scorso anno, con punte di oltre l’11% per olio d’oliva, verdura, cacao, mentre il burro rincara del 20% su anno, +8,4% il cioccolato, +13,1% il caffè”.

Milioni di italiani si metteranno poi in viaggio generando un giro d’affari stimato dal Codacons in 12,7 miliardi di euro (+10,4% sul 2023): anche in questo caso a pesare sulla spesa finale sono i pesanti incrementi di prezzi e tariffe che stanno interessando il comparto turistico e dei trasporti, con i pacchetti vacanza che costano oggi in media il 13,4% in più rispetto allo scorso Natale, mentre per dormire in hotel si spende il 5,9% in più; +3,9% le tariffe dei treni. Per i voli nazionali la spesa è più alta in media del 4,2% in rispetto allo stesso periodo del 2023. Infine, sarà di circa 420 milioni di euro la spesa riservata a pranzo di Natale o cenone della Vigilia al ristorante (+5% sul 2023). Più spese, più consumi, ma anche più inquinamento: questo l’altro lato della medaglia denunciato dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima).

“Nel periodo che va dall’8 dicembre al 6 gennaio sia gli interni che gli esterni delle abitazioni sono decorati con illuminazioni natalizie che rimangono accese diverse ore al giorno. Una invasione di fili luminosi e di lampadine che determina un incremento dei consumi energetici di circa il +30% rispetto al resto dell’anno, pari a 1.600 MWh al giorno ossia 46.400 MWh di energia consumata solo nel periodo che va dall’8 dicembre all’Epifania. Consumi che equivalgono a 650 tonnellate di CO2 immesse ogni giorno in atmosfera, tra le 18mila e le 20mila tonnellate di CO2 durante l’intero periodo delle festività” – spiega il presidente Sima, Alessandro Miani. Ad aumentare è anche la produzione di rifiuti: “in media 80mila tonnellate di rifiuti in carta e cartone, pari in media a oltre 3 kg a famiglia, mentre circa 500mila tonnellate di cibo, soprattutto prodotti freschi soggetti a deterioramento come frutta, pasta e verdura, finiscono nella spazzatura”, avvisa Sima. La nota più dolente, tuttavia, è quella dei trasporti: “Nel periodo delle festività di fine anno i maggiori spostamenti dei cittadini attraverso vetture private e mezzi di trasporto pubblici (treni, aerei, bus), unitamente all’incremento delle attività logistiche connesse al commercio e alla spedizione delle merci, produce un aumento delle emissioni inquinanti rilasciate in atmosfera (CO2, ossidi di azoto, ecc.) di circa il +130%”, conclude Miani.

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Economia

Nel 2023 1,46 lavoratori per pensionato: il sistema regge

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Con un’occupazione in ripresa benché distante dai livelli europei, sale il rapporto tra attivi e pensionati, fondamentale indicatore di tenuta della previdenza italiana: nel 2023 si attesta a quota 1,4636, miglior valore della serie storica tracciata dal rapporto: a indicarlo è il dodicesimo rapporto del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, in cui si sottolinea pertanto che non ci sono allarmismi: il sistema è sostenibile, “regge e continuerà a farlo, a patto di compiere, in un Paese che invecchia, scelte più oculate su politiche attive per il lavoro, anticipi ed età di pensionamento”.

Per prima cosa, afferma il presidente Alberto Brambilla, “occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema”, tra cui “l’adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita”. Ma non dei contributi per la pensione anticipata.

Il rapporto di Itinerari previdenziali descrive quindi un sistema sì in equilibrio ma “la cui stabilità nei prossimi anni dipenderà sia dalla capacità di porre un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza cui si è assistito negli ultimi anni, sia da quella di affrontare adeguatamente la transizione demografica in atto”.

Il rapporto tra lavoratori e pensionati dunque sale, benché ancora al di sotto dell’1,5 già indicata come soglia minima necessaria per la stabilità di medio-lungo termine della previdenza obbligatoria. In particolare, nel 2023 aumenta, ancora una volta, il numero di pensionati, che salgono dai 16,131 milioni del 2022 a 16,230 milioni (+98.743). Al contempo, dopo la forte crisi causata dal Covid, prosegue la netta risalita del tasso di occupazione, che a fine 2023 sfiora il 62%, pur restando tra i più bassi d’Europa.

“Volendo trarre qualche conclusione, malgrado i molti catastrofisti che parlano di un sistema insostenibile all’interno dell’attuale quadro demografico, i conti della nostra previdenza reggono, e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, nel 2035-40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980 – coorti molto significative in termini pensionistici, in termini previdenziali assai significative data la loro numerosità – si sarà pensionata”, spiega il presidente Alberto Brambilla. Servono comunque delle scelte coerenti con la demografia.

“Per prima cosa – afferma – occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema, vale a dire adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita, limitando da una parte le numerose forme di anticipazione oggi previste dall’ordinamento, e, dall’altra, premiando in termini di flessibilità i nastri contributivi più lunghi”. Ribadita pertanto nel rapporto la necessità di bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età.

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Economia

Il debito pubblico sfonda il muro dei 3.000 miliardi

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Il debito pubblico italiano supera per la prima volta la soglia psicologica dei 3.000 miliardi, ma questo non aumenta di molto i timori dei mercati, delle istituzioni e del governo che guardano maggiormente al suo andamento e alla politica di disciplina di bilancio, riconosciuta anche da uno spread che si mantiene sui livelli del 2021. Il valore (3.005,2 miliardi), come naturale, fa impressione ed è comunque ben superiore al pil, consolidando il nostro Paese nella fascia alta della poco invidiabile classifica dei Paesi a maggior debito. Una montagna che ci è costata 78 miliardi di euro di interessi nel 2023 (per fortuna in diminuzione anche nei prossimi anni) e che riduce – come lamentano tutti i ministri dell’economia fra cui anche l’attuale, Giancarlo Giorgetti – lo spazio di manovra nel varare politiche di riduzione del debito e della crescita economica.

“Quello che ci conforta – ha sottolineato il ministro  – è che l’Italia è uno dei pochi Paesi che ha fatto tempestivamente un piano strutturale di rientro del debito che è stato accettato e condiviso dall’Ue, ci conforta che siamo sulla strada giusta. Avremmo probabilmente dovuto fare negli anni in cui si sono formati tutti questi debiti lo stesso lavoro, lo stesso comportamento che stiamo facendo noi”. E proprio sul rapporto rispetto alla grandezza dell’economia ha insistito la nota esplicativa, che la Banca d’Italia inserisce per la prima volta (forse già prevedendo le reazioni mediatiche e politiche) nel suo comunicato sui dati. “Dal punto di vista economico – sottolinea Via Nazionale – ciò che rileva per valutare lo stato di salute delle finanze pubbliche di un Paese non è tanto il debito pubblico in termini nominali, quanto il suo andamento in relazione alla capacità del Paese di fare fronte ad esso”.

La banca centrale quindi argomenta che “il debito pubblico in termini nominali presenta variazioni del suo valore da un mese all’altro solitamente al rialzo nel corso dell’anno; le riduzioni sono più rare, di solito in mesi dove si concentrano le principali scadenze tributarie”. E così Bankitalia invita a “contestualizzare” il valore e a guardare a un orizzonte maggiore. E prende a esempio il percorso del debito italiano nel post pandemia: nel triennio post-pandemico 2021-23 il debito nominale è aumentato di quasi 292 miliardi, da 2.678 miliardi a 2.868 miliardi, ma “in rapporto al Pil è sceso di oltre 19 punti percentuali” da 154,3% al 134,8″. Valore che, almeno secondo le stime del Mef, dovrebbe andare al 135,8 nel 2024 e del 135,9 nel 2025 con un calo dell’indebitamento netto. Sul dato di novembre ci sono poi degli elementi specifici. In particolare le disponibilità liquide del Tesoro che sono salite di 20,9 miliardi, a 63,9.

Un elemento senza il quale il debito sarebbe diminuito. Vi sono poi i numeri delle entrate fiscali: lo scorso novembre quelle contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 51,7 miliardi, in diminuzione dello 0,1 per cento (0,1 miliardi) rispetto al corrispondente mese del 2023. “Nei primi undici mesi dell’anno scorso le entrate tributarie sono state pari a 504,3 miliardi, in aumento del 5,0 per cento (24,2 miliardi) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente” Oltre al controllo della spesa e una politica favorevole ai mercati quindi, la vera sfida è quella della crescita. Senza di essa, sottolineano da sempre gli economisti e gli osservatori più attenti, qualsiasi debito non è sostenibile. Per il 2024 le stime Istat indicano un aumento del Pil dello 0,5%, con deficit inferiore alle precedenti stime, e, per il 2025, allo 0,8%.

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Economia

Germania in recessione per il secondo anno consecutivo

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Il secondo anno di recessione, con una crescita sottozero che si ferma a -0,2% del pil: la Germania, una volta considerayta ‘locomotiva d’Europa’, non andava così male da almeno vent’anni. Ed è l’immagine di un Paese preoccupato quella che arriva dai dati snocciolati dall’istituto federale di statistica. Da un lato le imprese in difficoltà: colpiti soprattutto il settore automobilistico, penalizzato dalla concorrenza cinese e da scelte altalenanti della politica che ha ritirato gli incentivi per le auto elettriche, e quello delle costruzioni, dove interessi elevati e alti costi di materie prime hanno paralizzato il settore (meno 3,8 per cento nel 2024). Per le imprese il timore è reale: una fuga dall’industria della Germania.

Dall’altro lato ci sono le famiglie, che restano in atteggiamento guardingo. Nonostante i buoni numeri dell’occupazione (oltre 46 milioni gli occupati) e i salari in aumento, i tedeschi sono attenti a spendere, preoccupati per il posto di lavoro e preferiscono risparmiare. Poco importa che le stime non fossero ottimiste: mentre la Germania fa i conti con il secondo anno di recessione – secondo alcuni si tratta della peggiore stagnazione dal dopoguerra – nel resto della zona euro la media si attesta su una crescita dell’uno per cento. E, dunque, la crisi ha per buona parte ragioni domestiche.

Come venir fuori da questa situazione è il vero interrogativo che a questo punto diventa politico ed enfatizza ulteriormente le prossime elezioni del 23 febbraio. Leggendo bene i numeri, gli esperti invitano a tener presente alcuni problemi strutturali del Paese: la perdita di competitività delle imprese, una burocrazia divenuta un costo insostenibile, prezzi dell’energia ancora troppo cari. Certo, ci sono anche fattori esogeni: l’incertezza della presidenza Trump e dei suoi minacciati dazi.

Un altro studio riporta che i posti di lavoro in Germania a rischio per le sanzioni americane sarebbero trecentomila. È probabile che i dati di oggi diano altro materiale per discutere: alla voce disavanzo il bilancio tedesco fa registrare un piccolo aumento del debito ma comunque ben sotto la soglia europea del 3%. Si discuterà su quali investimenti introdurre, su dove trovare le risorse e a cosa rinunciare. Nelle ultime settimane è stata anche ventilata l’ipotesi di non pagare il primo giorno di malattia ai lavoratori per dare ossigeno alle imprese. Ma i tempi della politica sono lenti: si vota a febbraio, poi dovranno iniziare le non facili trattative per formare un governo. La ripresa potrebbe arrivare solo nel 2026.

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