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La ministra della Difesa Trenta: “Italia via dall’Afghanistan nei prossimi 12 mesi”

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“Via i militari italiani dall’Afghanistan”. Diciassette anni dopo l’arrivo dei primi scarponi a Kabul e sulle montagne di Khost, l’annuncio della Difesa di voler chiudere la storica missione “entro 12 mesi” ha creato un nuovo caso nel Governo, cogliendo molti di sorpresa. A cominciare dal ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi – “lo apprendo ora” – mentre la Lega derubrica la questione a una mera valutazione della Trenta: “Nessuna decisione è stata presa”. In serata, pero’, Palazzo Chigi precisa: l’iniziativa del ministro della Difesa “è stata condivisa dalla presidenza del Consiglio”. Frena la Nato: “Non lasceremo l’Afghanistan prima di avere una situazione che ci permetterà di ridurre il numero di truppe, il nostro obiettivo è quello di impedire che il Paese torni ad essere un paradiso sicuro per il terrorismo internazionale”, dice il segretario generale Stoltenberg. “E’ troppo presto per speculare sul ritiro”. Tutto comincia nel primo pomeriggio.

“Il ministro Trenta ha dato disposizioni al Coi, il Comando operativo di vertice interforze, di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan”, fanno sapere fonti della Difesa, aggiungendo che “l’orizzonte temporale” per il rimpatrio dei circa 800 uomini oggi schierati tra Herat e Kabul “potrebbe essere quello di 12 mesi”. Una decisione, precisano le stesse fonti, discussa con gli alleati americani, con la Nato e con le autorità afgane, e collegata all’annuncio dell’amministrazione Trump, dato a fine dicembre, di voler dimezzare la presenza di truppe Usa in Afghanistan, da circa 14mila a 7mila. Intenzione che sarebbe stata ribadita e rafforzata, nel numero dei soldati pronti a tornare a casa, nei colloqui Usa-talebani di questi giorni a Doha. Di ridimensionamento del contingente il ministro Trenta parla da mesi, ma mai era stata ipotizzata la completa chiusura della missione, di fatto avviata nel 2002, trasformatasi negli anni da ‘combat’ a operazione di mero addestramento e costata la vita a 54 italiani. In particolare, a fronte di un dimezzamento del contingente in Iraq, con l’annunciata chiusura nel primo trimestre di quest’anno della task force Praesidium (i 470 militari a protezione della diga di Mosul), per quanto riguarda l’Afghanistan era previsto solo il rimpatrio di un centinaio di uomini e la prosecuzione “a tempo indeterminato” della missione ‘Resolute support’, di addestramento delle forze di sicurezza locali. Un alleggerimento ritenuto necessario per consentire un maggior impegno in Africa, dove sono concentrati gli interessi nazionali e dove la Difesa guarda soprattutto alla missione in Niger, alla Libia e al possibile invio di un contingente in Tunisia nell’ambito di un’operazione Nato.

L’annuncio di Trump, pero’, avrebbe scombinato i programmi e la Difesa si e’ messa al lavoro per pianificare una veloce exit strategy da Kabul. Si tratta di riportare a casa una forza ancora molto consistente – il Parlamento ha autorizzato, per i primi 9 mesi del 2019, fino a 900 militari, 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei – che ha la responsabilita’ di un’area grande quanto il Nord Italia e che e’ fondamentale per la missione di addestramento della Coalizione internazionale, di cui siamo uno dei paesi piu’ importanti. Insomma, una decisione ‘pesante’, che pero’ ha lasciato di stucco il responsabile della Farnesina, in visita a Gerusalemme: il ministro Trenta “non ne ha parlato con me”, ha detto Moavero. Gelo dal Carroccio: “solo una valutazione del ministro Trenta, nessuna decisione e’ stata presa”. Ma da Palazzo Chigi fanno quadrato sulla Trenta: “La richiesta di valutare una pianificazione del ritiro del contingente italiano avviata dal ministro della Difesa e’ stata condivisa con la presidenza del consiglio”. E mentre il Movimento 5 stelle esulta – “una splendida notizia”, dice ad esempio Di Battista – dall’opposizione attaccano: Pd, FI, FdI criticano a vario titolo l’annuncio del ritiro dato “a mezzo stampa e non in Parlamento”, dove il ministro della Difesa viene invitata a riferire “con urgenza” per chiarire il “cambio repentino di politica estera”, oggetto di “indiscrezioni e smentite che sono irresponsabili e vanno oltre il surreale”. “L’Italia si ritira dall’Afghanistan ma mezzo governo non lo sa. Annuncio improvvido sulla pelle dei nostri soldati”, sintetizza Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato, con un tweet.

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Troupe Tg3 aggredita in Libano, autista muore d’infarto

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Una troupe del Tg3 è stata aggredita verbalmente e a spintoni nel mezzo di un villaggio del Libano da poco bombardato. Gli aggressori non avevano insegne, non erano armati, ma la paura fa presto a salire in zona di guerra e, prima che venisse alla luce che si trattava solo di uno sfogo disperato, l’autista libanese Ahmad Akil Hamzeh si è accasciato a terra, stroncato da un infarto.

Per l’inviata Lucia Goracci, l’operatore Marco Nicois e la fixer Kinda Mahaluf, rimasti incolumi, sono stati minuti da incubo, con il fiato sospeso anche ai piani alti della Rai. Tutto è cominciato questa mattina intorno alle 9 nella città di Jiyeh, a metà strada tra Beirut e Sidone. Nel diluvio di fuoco che si sta abbattendo sul Libano, un bombardamento ha colpito e abbattuto giorni fa alcune case, le serre e gli orti.

Il Tg3 vuole documentare, a distanza di sicurezza e tutti i permessi necessari, l’avanzata israeliana. In tutte le zone costiere l’Idf ha diramato un’allerta e i residenti, in gran parte pescatori, si allontanano con le loro cose. Qualcuno cerca di risistemare le serre di ortaggi abbattute dai caccia, altri riassestano una facciata.

L’inviata fa qualche domanda a un’anziana di passaggio. E’ in quel momento che un gruppo di persone si avvicina alla troupe con fare aggressivo, gridando parole confuse. Nell’immediato scatta la paura di avere a che fare con bande armate dai connotati politici: la troupe si rifugia in macchina mentre uno degli aggressori, trattenuto da alcune persone e aizzato da altre, tenta di rompere la telecamera con un sasso attraverso il finestrino. Ahmad è un autista esperto, di solida fede sciita, sa controllare i nervi: mette in moto e si dirige verso Beirut, inseguito dall’aggressore in sella a uno scooter.

A un certo punto, forse per ricondurlo alla ragione o accusando già un malore, Ahmad si ferma ad una stazione di servizio. Scende, parla con l’uomo che gli prende le chiavi e poi, rabbonito, le restituisce. Ma, sopraffatto da una cardiopatia già accertata e dalla paura di quegli istanti, l’autista si accascia a terra, tra lo sconforto dei suoi compagni di viaggio. A chiamare l’ambulanza, ha raccontato Lucia Goracci, è stato lo stesso aggressore, poi dileguatosi mentre sul posto si raccoglievano un po’ di persone che hanno tentato invano di soccorrere Ahmad.

“Hezbollah non c’entra nulla – ha precisato ancora Goracci raggiunta telefonicamente -, è stato uno sfogo senza alcun risvolto politico, frutto della tensione diffusa tra la popolazione delle aree sotto attacco”. Si è trattato, ha confermato riferendo parole della fixer Kinda Mahaluf, di un gesto di collera da parte dei familiari di due donne uccise nei raid, che solo casualmente ha trovato sfogo nell’aggressione alla troupe Rai. “Tutto si è svolto nel giro di 15-20 minuti”, ha proseguito l’inviata, tra il dolore e la commozione per la morte del compagno di lavoro. Ancora in ospedale, in attesa del figlio di Ahmad, Goracci ne ha ricordato la “profondità e grande dolcezza”.

La Rai ha espresso “condanna e sdegno” per l’aggressione e “vicinanza e sostegno” alla famiglia di Ahmad, in forza alla Rai da molti anni a fianco degli inviati di guerra. Dai politici sono arrivate manifestazioni di solidarietà bipartisan, a partire dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha parlato di “un inaccettabile attacco alla libertà di informazione”, fino a Elly Schlein e Giuseppe Conte. Il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha ringraziato “chi è impegnato a fare informazione in teatri di crisi, realizzando, a costo del rischio personale, un servizio prezioso e fondamentale”. “L’impegno dei giornalisti va sempre difeso – ha ricordato da parte sua il ministro degli Esteri Antonio Tajani – anche in luoghi di conflitto. Il diritto all’informazione è un cardine delle democrazie”.

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Esplode la batteria di un cellulare, intera famiglia brucia tra le fiamme causate dall’incendio: 4 morti

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E’ stato un telefono cellulare che si stava caricando su un divano a scatenare l’incendio in cui è rimasta uccisa una famiglia composta da padre, madre e due figli di 16 e 20 anni, domenica a Guillena, in provincia di Siviglia. La Guardia Civil è giunta a questa conclusione dopo aver completato l’ispezione tecnica oculare all’interno della casa, riferisce il Diario di Siviglia. In un primo momento si pensava che a provocare il rogo fosse stato un monopattino elettrico che era in carica ma poi questa ipotesi è stata scartata. La batteria del cellulare è esplosa mentre questo era in carica su un divano che ha preso fuoco. Le fiamme si sono propagate molto rapidamente in tutta la casa di due piani.

L’incendio è scoppiato intorno alle otto di domenica mattina. La prima chiamata ricevuta dai vigili del fuoco è stata alle otto e sei minuti, riferisce il Diario di Siviglia, ma quando i pompieri sono arrivati il rogo già avvolgeva la casa con le fiamme che uscivano dalle finestre e una grande quantità di fumo. Diversi residenti avevano provato a salvare la famiglia rimasta intrappolata ma non ci sono riusciti. I vigili del fuoco hanno poi trovato i corpi dei coniugi José Antonio Rendón, 47 anni, e Antonia Hidalgo, 52 anni, al primo piano. Al piano terra c’erano i figli, Adrián, 16 anni, e José Antonio, 20. Secondo un vicino, il 20enne sarebbe arrivato a casa mentre l’incendio era in corso e avrebbe deciso di entrare per cercare di salvare i genitori e il fratello. L’intera famiglia è morta per l’inalazione di fumo. E

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Kim minaccia uso di armi nucleari in caso d’attacco nemico

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Il leader nordcoreano Kim Jong-un ha assicurato che “tutta la potenza militare” del Paese “sarà usata senza esitazione se i nemici tentassero di usare la forza contro di noi, e l’uso di armi nucleari non sarà escluso”. In un discorso tenuto lunedì durante la visita alla Kim Jong-un National Defense University, il leader ha detto che la Costituzione del Paese “darà un ordine severo all’esercito” di agire, se provocato, senza fornire dettagli, nel resoconto della Kcna. La minaccia è maturata nel giorno in cui il Nord dovrebbe aver aperto la sessione parlamentare per rivedere la Costituzione e consolidare Seul come “nemico primario”.

L’avvertimento di Kim, per altro verso, è arrivato sei giorni dopo che il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha messo in guardia il Nord che si troverebbe ad affrontare “la fine del suo regime” se tenterà di usare armi nucleari con una risposta “risoluta e schiacciante” da parte dell’alleanza Corea del Sud-Usa. Kim, inoltre, ha definito Yoon un “uomo anormale” per aver parlato di azioni militari contro il Nord che è dotato di armi nucleari, assicurando che accelererà le mosse per trasformare il Paese “in una superpotenza militare e nucleare”. In un momento in cui l’alleanza Seul-Washington “è stata completamente trasformata in un’alleanza nucleare, come pubblicizzato, la postura di risposta nucleare della nostra nazione deve essere completata a un’altezza che non ha limiti”.

Nel suo discorso, il leader ha anche ribadito la sua posizione secondo cui la Corea del Sud e la Corea del Nord sono “due Stati ostili l’uno all’altro”. In passato, “abbiamo parlato di liberazione del lato meridionale o di unificazione con la forza. Ma adesso non ci interessa poiché abbiamo dichiarato la posizione di due Stati separati. Non abbiamo intenzione di attaccare la Repubblica di Corea ed è inquietante anche solo essere consapevoli di quel Paese”, ha aggiunto Kim. La Corea del Nord ha rivelato a settembre per la prima volta l’esistenza di un impianto di arricchimento dell’uranio, in un apparente tentativo di dimostrare che Pyongyang non ha intenzione di rinunciare al suo arsenale atomico.

 

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