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La guida alla notte elettorale Usa ora per ora

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La maratona elettorale dell’Election Day del 5 novembre negli Stati Uniti inizia domattina quando in Italia sarà già mezzogiorno con l’apertura dei primi seggi sulla East Coast (ma in alcune municipalità del Maine le urne aprono alle 11 italiane) e attraversa sei fusi orari, dall’Atlantico al Pacifico, con la reale possibilità che siano necessari giorni – forse più dei quattro del 2020 – per decretare il prossimo presidente americano. A meno ovviamente che non si verifichi una (inaspettata) onda rossa o blu che consegni un vincitore chiaro sin da subito: in questo caso il risultato potrebbe arrivare già tra le 2 e le 3 del mattino di mercoledì 6 novembre in Italia. Ecco gli orari italiani della chiusura dei seggi nei vari Stati, dalla East Coast alle Hawaii.

* 1.00 DI MERCOLEDÌ 6 NOVEMBRE – Chiudono i seggi in sei Stati, incluso quello chiave della Georgia (che assegna 16 grandi elettori), oltre a Indiana, Kentucky, South Carolina, Vermont e Virginia. * 1.30 – Chiudono i seggi in North Carolina (uno degli Stati in bilico con 16 grandi elettori), ma anche in West Virginia e in Ohio. * 2.00 – Sono complessivamente 17 gli Stati Usa in cui chiudono i seggi, inclusa la cruciale Pennsylvania, che mette in palio 19 grandi elettori, il premio più ambito tra gli ‘swing states’. Tra gli altri ci sono Oklahoma, Missouri, Tennessee, Mississippi, Alabama, Florida, Maine, New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New Jersey, Delaware, Maryland e la capitale Washington. Se Trump si aggiudicasse anche la Pennsylvania dopo Georgia e N. Carolina con ogni probabilità avrebbe vinto, altrimenti si dovrà aspettare ancora un’ora. * 3.00 – E’ la possibile ora della verità. Chiudono i seggi in 15 Stati, dal Texas, roccaforte repubblicana, a tre Stati chiave: Arizona, Wisconsin e Michigan. E ancora Wyoming, North Dakota, South Dakota, Nebraska, Iowa, Kansas, Louisiana, New Mexico, Colorado, Minnesota e New York. * 4.00-5.00 – Alle 4 ora italiana urne chiuse in altri tre Stati, tra cui Utah, Montana e soprattutto l’ultimo in bilico, il Nevada. Alle 5 invece chiudono California, Oregon, Washington e Idaho. * 6.00-7.00 – Alle 6 del mattino chiudono le Hawaii, alle 7 l’Alaska, l’ultimo Stato americano.

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Raid di Israele, distrutti principali siti militari siriani anche vicino Damasco

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Forti esplosioni sono state udite a Damasco, riporta un giornalista dell’agenzia di stampa Afp. Le esplosioni a Damasco sono state udite poco dopo che la ong Osservatorio siriano per i diritti umani aveva riferito di circa 250 raid israeliani in Siria dalla caduta del presidente Bashar al-Assad, domenica. Secondo la ong, da domenica Israele ha preso di mira le principali installazioni militari siriane in tutto il Paese con l’obiettivo di distruggerle. Israele “ha distrutto i principali siti militari in Siria” lanciando circa 250 attacchi dalla caduta del presidente Bashar al-Assad: lo riporta la ong Osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo la ong – che ha sede nel Regno Unito e si avvale di una vasta rete di fonti in tutta la Siria – Israele ha bombardato aeroporti, radar, depositi di armi e munizioni e centri di ricerca militare, e ha danneggiato le navi della Marina siriana attaccando un’unità di difesa aerea vicino al grande porto di Latakia, nel nord-ovest del Paese.

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Putin non vede Assad e tratta per salvare le basi

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La bandiera del deposto regime è stata sostituita da quella degli ex oppositori anche sull’ambasciata siriana a Mosca, e la sede diplomatica ha detto di essere ora in attesa di “istruzioni” da parte del nuovo governo. Non ci poteva essere segnale più chiaro di come il vento sia cambiato ma anche dell’incertezza che regna sul futuro, mentre il Cremlino cammina sul filo del rasoio cercando di non voltare completamente le spalle all’ex presidente ma anche di salvare il salvabile, a partire dalle sue basi sul Mediterraneo. E’ stato Vladimir Putin a prendere personalmente la decisione di concedere asilo “per motivi umanitari” ad Assad e alla sua famiglia, ha detto il portavoce Dmitry Peskov.

Una decisione fatta filtrare nella serata di domenica da “una fonte” all’agenzia Tass. Nessun annuncio ufficiale, insomma, e nessun incontro previsto, almeno pubblico, tra Putin e il suo ex protetto. “Non c’è alcun colloquio del genere nell’agenda ufficiale del presidente”, ha sottolineato Peskov, rifiutando anche di precisare quando sia stato l’ultimo incontro tra i due, anche se i media siriani avevano parlato di una visita segreta di Assad a Mosca alla fine di novembre. Il copione rispecchia la necessità della leadership russa di cercare di creare o mantenere contatti con i nuovi padroni a Damasco, con l’obiettivo primario di salvare la base navale di Tartus – l’unica di Mosca sul Mediterraneo – e quella aerea di Hmeimim, nella vicina Latakia. “E’ troppo presto per parlarne, in ogni caso questo sarà argomento di discussione con coloro che saranno al potere in Siria”, ha osservato il portavoce.

Ma per capire chi saranno costoro anche Mosca dovrà aspettare la formazione del governo, soppesare il ruolo e l’importanza delle varie figure e le influenze esercitate da potenze regionali e mondiali. Per questo, ha affermato Peskov, mentre la Siria si avvia ad attraversare “un periodo molto difficile a causa dell’instabilità”, è “molto importante mantenere il dialogo con tutti i Paesi della regione”. Compresa la Turchia, il principale sostenitore dei ribelli e jihadisti che hanno rovesciato Assad. La Russia cerca dunque di riprendersi dallo shock per lo smacco subito. “Quello che è successo probabilmente ha sorpreso il mondo intero, e noi non facciamo eccezione”, ha ammesso Peskov.

Mentre il segretario generale della Nato, Mark Rutte, non ha resistito alla tentazione di punzecchiare Mosca, insieme con Teheran, accusandole di essersi dimostrate “partner inaffidabili” di Assad. I media e i blogger militari russi si sono mostrati quasi altrettanto impietosi nell’analisi di quanto successo, e dei costi che Mosca potrebbe essere chiamata a pagare. Emblematico il titolo dell’autorevole giornale del mondo imprenditoriale Kommersant: ‘La Russia ha perso il principale alleato in Medio Oriente’. Mentre il canale Telegram Rybar, che vanta legami con il ministero della Difesa, mette in guardia dalle conseguenze di una possibile perdita delle due basi. Sia quella di Tartus sia quella di Hmeimim “hanno svolto un ruolo logistico importante per le operazioni della Russia in Libia e nel Sahel”, sottolinea il blog. Un rimedio efficace potrebbe essere l’apertura di una nuova base a Port Sudan, sul Mar Rosso. “Ma la guerra civile in Sudan non è ancora finita, il che complica i negoziati in corso”, valuta Rybar. Mentre un porto sulla costa libica della Cirenaica, di cui si parla da tempo, sarebbe troppo lontano per garantire i rifornimenti regolari con aerei da trasporto a pieno carico.

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Tv, Jolani sceglie premier di Hts per governo transitorio

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Sarà Muhammad Bashir, e non l’esiliato ex premier siriano Riad Hijab o l’attuale primo ministro Muhammad Jalali, il capo del governo di transizione a Damasco. Lo riferisce la tv al Jazira nella capitale siriana secondo cui Muhammad Bashir è il premier del “governo di salvezza”, che da anni amministra nel nord-ovest siriano le aree sotto controllo di Hayat Tahrir ash Sham (Hts), guidata da Abu Muhammad Jolani (Ahmad Sharaa). La scelta di Muhammad Bashir sarebbe stata imposta, afferma la tv, dallo stesso Jolani.

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