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Cinema

“La conversione”, Giovanni Meola premiato al Rome Independent Film Festival col suo cinema del reale

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Giovanni Meola è talento multiforme e da anni propone opere di spessore in differenti campi. Dal teatro alla scrittura, dal cinema alla formazione, i suoi lavori hanno sempre un impatto forte, per tematiche e stili. Solo in relazione agli ultimi anni si potrebbe parlare di lui attraverso le rassegne ideate e dirette (‘Teatro alla Deriva’ e ‘Teatro Deconfiscato’), il cortometraggio di animazione ‘The Flying Hands’, attualmente selezionato (e a volte premiato) in concorsi internazionali, la sua apparizione in qualità di attore in ‘Io So e Ho Le Prove’ (di cui firma anche regia e drammaturgia) a teatro e in una puntata de ‘I Bastardi di Pizzofalcone’ con la regia di Alessandro D’Alatri, la regia del suo ultimo spettacolo ‘Il Bambino con la Bicicletta Rossa’ su testo perlopiù in versi liberamente tratto dal ‘caso-Lavorini’, l’Honorary Fellowship di cui è stato insignito per meriti artistici dallo IAB (Institute of Arts of Barcelona), oppure ancora grazie a ‘Teatro’, sua prima raccolta di testi teatrali con la prefazione di Elena Bucci.

Insomma, un campionario ricco e vario, e soprattutto mai banale e scontato.

Ma oggi, con lui, vogliamo parlare de ‘La Conversione’, il suo primo documentario lungometraggio che, appena uscito, selezionato alla XIX ed. del Riff (Rome Independent Film Festival), concorso assai prestigioso del circuito nazionale ed internazionale, ha ottenuto il premio principale, quello del pubblico, vincendo quindi la categoria ‘National Documentary Competition’.

Giovanni, ti aspettavi questo premio?  

Concorrere significa sempre mettere in conto vittoria e sconfitta. Il Riff è una competizione ambita e molto conosciuta e mentirei se affermassi che non mi interessavo della sorte del film. Allo stesso tempo, posso dire che sono rimasto colpito e sorpreso dal successo perché decretato da un pubblico che ha visto e votato il nostro lavoro tra altri dieci, tutti al debutto internazionale. Quando si vince qualcosa grazie al voto di un pubblico pagante la soddisfazione è davvero enorme.

 

Parliamo del documentario. ‘La Conversione’ racconta in parallelo le storie di vita di due uomini molto diversi ma accomunati, in qualche modo, da traiettorie simili.

Erano anni che volevo affrontare il cinema del reale e questo documentario me lo ha permesso. Vincenzo Imperatore è stato manager bancario di una delle banche più importanti d’Europa per quasi 25 anni. Peppe De Vincentis ha passato 30 anni in galera per reati vari (ma mai per reati di sangue). Entrambi arrivati ad un bivio decisivo, oltrepassato il quale non avrebbero potuto più ritrovare loro stessi, hanno fatto una vera conversione, laica, a ‘U’. Io li ho conosciuti entrambi, per caso e separatamente, dopo poco che quel bivio si era presentato nelle loro vite. Ed è stato per me esaltante poterli incrociare proprio in questo tipo di frangente ma, ancor di più, avere l’intuizione che mi ha portato a realizzare, dopo anni, questo film documentario.

Di che tipo di intuizione si è trattato?

L’ex-manager, nato in un quartiere popolare e da famiglia modestissima, ha studiato, ha lottato, si è messo in gioco e poi ha fatto rapidissimamente carriera ma al servizio di un mostro, gli istituti bancari durante il periodo della privatizzazione selvaggia che ha fatto tanti danni al paese. Peppe, allo stesso modo, per evadere da un’infanzia e un’adolescenza passate per strada o in riformatorio, e a causa di ignoranza e mancanza di mezzi e studio non ha saputo far altro che cominciare a rubare, rapinare e truffare. Entrambi, quindi, sentivano il bisogno di allontanarsi da ciò che erano per nascita e fare la propria fortuna, seppure in modi illegali o para-legali. Entrambi volevano prendere un ascensore sociale che li ha spinti a fare cose che in altre circostanze molto difficilmente avrebbero fatto. Ecco, questa è stata l’intuizione: quei due erano due facce della stessa medaglia e quella medaglia aveva, perdipiù, il volto della nostra odiosamata Napoli.

Come hai impostato stilisticamente e narrativamente il film?

R-Facendo oscillare continuamente il racconto tra l’oggi, lo ieri e l’altro ieri. Chi sono loro oggi (Peppe, drammaturgo e attore; Enzo consulente di imprenditori contro gli abusi delle banche), da dove sono partiti (l’altro ieri) e cosa sono stati fino a quel fatidico bivio (lo ieri del carcere per uno e della banca per l’altro). Il film ha poi il suo cuore narrativo in una cena tra i due nella poverissima abitazione di Peppe che, come una sorta di fiume carsico, appare e si inabissa di continuo, favorendo l’entrata nei vari capitoli delle loro vicende e vite. Cena nella quale i due si fanno domande sulle rispettive vite e attività passate. La particolarità di questa cena è che io ho chiesto loro solo una cosa, ovvero di essere davvero curiosi e interessati l’uno all’altro (del resto i due davvero non si conoscevano se non superficialmente perché presentati da me prima di realizzare il film). Con mia felice sorpresa lo sono stati fino in fondo e credo che chi ha visto o vedrà il film potrà constatarlo. Per il resto, stilisticamente ho scelto di seguirli da vicino, quasi braccandoli, nei momenti in cui tornavano in luoghi importanti della loro vita, dai quali mancavano da decenni e grazie ai quali ho potuto catturare e fissare momenti di alto impatto emotivo, oppure li ho ripresi attraverso una distanza formale ed esteticamente straniante per raccontare altri momenti dei loro ieri, le loro vite di manager o carcerato. Il tutto accompagnato da una colonna sonora molto evocativa, solo fisarmonica e vocalizzi, scritta ed eseguita da Daniela Esposito, mia partner di scena per l’adattamento teatrale del primo libro di Imperatore.

 

Ecco, facciamo un passo indietro. Tu, di Imperatore, avevi già portato a teatro il suo ‘Io So e Ho Le Prove’. Raccontaci com’è nato quel progetto.

Un altro punto di contatto tra i due è che entrambi hanno realizzato questa conversione a ‘U’ scrivendo un libro, un’autobiografia o memoriale che dir si voglia, come a certificare che le loro vite precedenti erano finite e da quel momento in poi sarebbero state altre persone. Peppe lo ha fatto con ‘Il campo del Male’, sponsorizzato niente di meno che da Ugo Gregoretti. Enzo ha invece scritto ‘Io So e Ho Le Prove’, caso editoriale del 2015, nel quale ha svelato tanti dei trucchi che le banche hanno usato per fare profitti enormi a scapito di correntisti e imprenditori, danneggiando in maniera clamorosa l’economia reale di questo paese. Senza peraltro mai scaricare su altri quelle che erano anche sue responsabilità, divenendo di fatto la prima ‘gola profonda’ del mondo finanziario italiano. Ed è così che ho conosciuto entrambi, leggendo prima i loro libri. In particolare, quello sulle banche l’ho incontrato proprio mentre stavo elaborando un soggetto sullo stesso argomento, da portare a teatro. Una volta letto il libro, però, mi sono detto che era già tutto lì dentro e che sarebbe stato notevole poterlo adattare e portare sulla scena. Lo spettacolo ha debuttato 4 anni fa circa e in tre anni (non conto chiaramente l’ultimo, devastato dal covid) ha quasi fatto 50 repliche che per una compagnia indipendente come Virus Teatrali, la compagnia che dirigo dal 2003, è un grande risultato. Lo spettacolo tornerà in scena appena i teatri riapriranno.

Oltre ‘Io So e Ho Le Prove’ quali altri progetti ha Virus Teatrali?

Il Bambino con la Bicicletta Rossa’, un testo quasi completamente in versi liberamente ispirato al ‘caso-Lavorini’, primo rapimento con uccisione di un minore in Italia, ad inizio 1969, con un bravissimo Antimo Casertano ad interpretare ben nove personaggi. Lo spettacolo è peraltro arrivato in semifinale a In-Box 2020 e ha vinto il bando nazionale Politai Visionari 2020 del festival Polis di Ravenna.  ‘Tre. Le Sorelle Prozorov’, libera riscrittura da ‘Tre Sorelle’ di Cechov (con tre magnifiche attrici che collaborano con me da anni, Sara Missaglia, Roberta Astuti e Chiara Vitiello) e, in preparazione, un ‘Amleto’ con soli tre attori (Vincenzo Coppola, Solene Bresciani e Sara Missaglia), anche questo frutto di un’imponente riscrittura scenica. Sempre in attesa, nel frattempo, che teatri istituzionali si accorgano del gran lavoro che io e la mia compagnia facciamo da anni e ci consentano di poterci misurare anche con platee diverse. Perché, si sa, essere indipendenti è una cosa bellissima ma rende la vita assai difficile.

Tu fai anche molto formazione.

Sì, è una parte davvero importante del mio fare teatro. Al momento, sono docente di due scuole di teatro, una a Napoli e una in provincia di Napoli, poi conduco due laboratori di lettura e interpretazione in scuole superiori e ho finito poche settimane prima del lockdown un percorso di diversi mesi con i detenuti del carcere di Poggioreale, una delle esperienze più forti e importanti degli ultimi anni. A questo proposito, aggiungo che sto attualmente lavorando al mio secondo docufilm, un video-diario lungometraggio che racconta appunto questa esperienza. Il film, in collaborazione con Cinema&Diritti, che organizza il Festival di Cinema dei Diritti Umani di Napoli, si intitolerà ‘Art. 27, comma 3’, come l’articolo della Costituzione dove si parla di rieducazione del condannato. Non vorrei però si pensasse che il film sarà solo il pesante resoconto di un percorso di tentata redenzione e così via. No, il film sarà un racconto di vita, dove si piange, si ride, si scherza, ci si arrabbia, si capiscono delle cose e si vivono delle emozioni. Un percorso fatto dal vivo, e ora sullo schermo, anche da me assieme ai detenuti. Il documentario uscirà nella primavera del 2021.

Documentari, spettacoli, premi, docenze, rassegne. A cos’altro di importante stai lavorando in questo periodo?

Innanzitutto ad un adattamento cinematografico proprio da ‘Io So e Ho Le Prove’, di cui ho preso i diritti, perché dopo la versione teatrale, e il suo autore co-protagonista del mio documentario, volevo portare a compimento il racconto di questa trasformazione antropologica nefasta che è costata risparmi e vita a tantissime persone nel nostro paese. Assieme ad un bravo collega sceneggiatore stiamo lavorando sul soggetto cinematografico, al quale dare un taglio alla ‘Wolf of Wall Street’, e anche ad un soggetto di serie. Poi, sto cercando di rendere stabile e permanente una delle rassegne teatrali da me ideate e dirette, ovvero ‘Teatro Deconfiscato’, col quale portare il teatro nei beni confiscati alle mafie. Ne ho fatto già tre edizioni, l’ultima delle quali al Castello di Ottaviano, l’ex-dimora del boss Cutolo, e il desiderio è di renderlo un format di ampio respiro, anche perché potrebbe fare da apripista ad altri progetti a livello nazionale. Infine, ci prepariamo all’edizione del decennale, in estate, dell’altra rassegna di cui sono direttore artistico, ‘Teatro alla Deriva’, anche questa un’eccellenza e un unicum, dato che attori e performer si esibiscono su di una zattera galleggiante all’interno del laghetto circolare delle Terme-Stufe di Nerone.


Prima di chiudere, un’ultima cosa: come pensi si uscirà dalla situazione ingenerata dal blocco delle attività a causa della pandemia?

La situazione è molto delicata, a tutti i livelli. Per il teatro lo è ancora di più: non c’è solo da recuperare spettacoli, lavori, compagnie, teatri, ma la cosa più difficile sarà ritrovare la fiducia di un pubblico già non numeroso. Dato, però, che l’essere umano è un essere sociale a prescindere e che il teatro, seppur non richiami folle oceaniche, è un’esperienza che chi vive bene una volta vuol riprovare di nuovo, sono certo che con un po’ di pazienza e tanto impegno i teatri si riempiranno di nuovo già dalla prossima stagione. In quanto al cinema, riaprire le sale, dopo la sbornia di piattaforme e visioni online, sarà un momento bellissimo perché il cinema in sala manca a tantissima gente. E anche a chi non ci andava più con frequenza tornerà la voglia di questo rito pagano da vivere in condivisione nel buio di una sala.

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Oppenheimer sbanca agli Oscar, il film su papà della bomba atomica fa incetta di premi

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‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan sbanca gli Oscar: la pellicola porta a casa 7 statuette su 13 candidature, ma tutte le piu’ importanti – film, regia, attori maschili protagonista e non protagonista – e aggiunge premi prestigiosi a quello gia’ assegnato dal pubblico. Basato sul libro vincitore del premio Pulitzer ‘American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer’ di Kai Bird e Martin J. Sherwin, frutto di due decenni di ricerche, il film di Christopher Nolan parla di una delle figure piu’ geniali e controverse del XX secolo considerato il padre della bomba atomica.

In ‘Oppenheimer’ Nolan racconta in un film di tre ore, per meta’ in bianco e nero che ha incassato quasi un miliardo di dollari (958 milioni), la parabola e i dilemmi morali del grande fisico che fu a capo del Progetto Manhattan, attivato in gran segreto dagli Usa nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, mentre le sorti del conflitto sembravano ancora favorire al Germania nazista. Il governo americano scelse il brillante scienziato, nato nel 1904 da genitori tedeschi di origini ebraiche, a capo del team riunito nei laboratori di Los Alamos, nel deserto del New Mexico. Un grande organizzatore, carismatico e competente, che paradossalmente fu ‘perseguitato’ fin dall’inizio della sua missione da sospetti di tradimento per le sue simpatie per il comunismo.

Nel suo team il regista inglese ha voluto alcuni collaboratori storici che, come lui, tornano a casa con l’Oscar: i produttori Emma Thomas e Charles Roven, il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, con cui gia’ aveva girato ‘Interstellar’, ‘Dunkirk’ e ‘Tenet’. E Jennifer Lame per il montaggio e il compositore Ludwig Goransson (gia’ Oscar per ‘Black Panther’).
Oltre al neo premio Oscar Cillian Murphy, ‘Oppenheimer’ ha un grande cast, a partire da Robert Downey Jr. (anche lui premiato con l’Oscar) nei panni del capo della Atomic Energy Commission, Lewis Strauss.

Poi Emily Blunt nella parte della moglie del fisico, Matt Damon in quelli del generale che diresse il Progetto Manhattan, Leslie Groves, e Florence Pugh nei panni di Jean Tatlock, l’amante dello scienziato, oltre a Gary Oldman nel ruolo del presidente Harry Truman (poco piu’ di un cameo, ma davvero magnifico) e Kenneth Branagh in quello di Niels Bohr, il padre della fisica quantistica.

Nel suo film, Christopher Nolan traccia un ritratto a volte un po’ didascalico e non privo di qualche inesattezza o omissione (il rapporto con Albert Einstein un po’ esagerato e quello con Enrico Fermi troppo sottovalutato) di Robert Oppenheimer, unica persona, il solo scienziato, in grado secondo il generale di brigata Leslie Groves che lo scelse come direttore del laboratorio della bomba di motivare gli scienziati di Los Alamos e di farsi seguire nel progetto forte del suo carisma e della sua tenacia. Oppenheimer colpi’ il generale per l’ampiezza delle sue conoscenze e, soprattutto, per quella che Groves considerava la sua praticita’. Piu’ di ogni altro scienziato con cui il generale aveva parlato, Oppenheimer sembrava capire cosa bisognava fare per passare da teorie astratte ed esperimenti di laboratorio alla realizzazione di una bomba nucleare.

Una cosa che tra tutti aveva capito forse il solo generale Groves che difese sempre Oppenheimer dagli attacchi di Fbi, servizi segreti e fanatici anticomunisti che ne chiedevano la sostituzione. Groves sapeva bene che Oppenheimer era un uomo eccezionale perfette per guidare il laboratorio. Non si trattava solo di un problema di fisica, infatti, bisognava realizzare un’impresa ingegneristica senza precedenti, che doveva progredire mentre si stavano ancora risolvendo i problemi teorici di base.

 

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Addio a Paolo Taviani, con Vittorio rigore e impegno civile

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Rigore e impegno civile: questa la cifra dei Taviani, la coppia più affiatata di tutte, quei fratelli toscani che scesero a Roma negli anni ’50 per cambiare il mondo e riuscirono a cambiare il cinema italiano. Dopo la scomparsa di Vittorio, il 15 aprile 2018, se ne va oggi a 92 anni, nella clinica villa Pia di Roma, dopo una breve malattia, anche Paolo. Lunedì 4 marzo la cerimonia laica funebre alla Promototeca del Campidoglio, dalle 10 alle 13. Il suo ultimo film, in solitario, “Leonora addio”, presentato in concorso a Berlino nel 2022, segue il rocambolesco viaggio delle ceneri di Pirandello, da Roma ad Agrigento, a quindici anni dalla sua morte: “Siamo cresciuti insieme io e Vittorio e sempre lavorando”, ha raccontato Paolo in quella occasione.

“Sento ancora dietro di me il suo fiato. Anche a lui piaceva molto il set e mi ricordo ci litigavamo le scene, quando toccava a me e avevo finito di girare cercavo la sua approvazione e confesso l’ho fatto anche adesso in questo primo film senza di lui”. Quel suo ultimo film lo ha voluto in bianco e nero, come in un ideale ritorno agli esordi di quel cinema, firmato Paolo & Vittorio Taviani, che fin dagli anni ’50 ha tracciato un’ideale linea di confine tra il magistero del Neorealismo e un nuovo cinema realista, volutamente ideologico e poetico insieme. Nati a San Miniato, vicino a Pisa, da una famiglia borghese, con padre avvocato e antifascista, i Fratelli Taviani arrivano a Roma con un’idea ben chiara nella testa: fare il cinema, suggestionati dalla scoperta di “Paisà” (Rossellini è il maestro dichiarato), emozionati da “Ladri di biciclette”.

“Quando il film uscì – ha raccontato Paolo – fu un altro innamoramento, e come in ogni innamoramento la fidanzata la si vuole vicina. Ma in provincia i film appaiono e si dileguano, i film italiani in particolare in quegli anni. E noi due l’abbiamo inseguito, quel film, in bicicletta, in treno, da Pisa a Pontedera a Livorno a Lucca. L’abbiamo visto e rivisto perché avevamo deciso di riscrivere a memoria la sceneggiatura, con i dialoghi, i carrelli, gli stacchi: volevamo possedere quel linguaggio”.

Ma sono modelli che poi si sono trasformati in consapevolezza interiore, tanto che i due fratelli hanno sempre negato di avere un solo riferimento e di amare soprattutto il confronto con la letteratura; anche la collaborazione con Valentino Orsini (al loro fianco all’esordio) e con il produttore più fedele (l’ex partigiano Giuliani De Negri) è sempre stato più un confronto ideologico che una guida estetica. Dal sodalizio sono nati film che hanno segnato la storia del cinema come il profetico “Sovversivi” sulla fine della fiducia cieca nel comunismo reale e il visionario “Sotto il segno dello scorpione” a cavallo con la repressione in Cecoslovacchia; hanno anticipato il fallimento dell’utopia rivoluzionaria attingendo alla storia del Risorgimento con “San Michele aveva un gallo” e “Allosanfan”. Nel 1977 hanno vinto la Palma d’oro con “Padre padrone” e otto anni dopo trionfano ancora a Cannes con il loro più grande successo, “La notte di San Lorenzo” (Premio speciale della giuria). È dell’84 il loro incontro con Pirandello e le novelle di “Kaos” seguito nel ’98 da “Tu ridi”; nel 2012 dopo una lunga parentesi che li ha visti confrontarsi con il racconto televisivo, hanno vinto il Festival di Berlino con “Cesare deve morire”.

L’ultima collaborazione è del 2017 con “Una questione privata” che Paolo dirige da solo, mentre il fratello Vittorio è costretto a rimanere a casa per la malattia che lo avrebbe portato via pochi mesi dopo. Da allora Paolo Taviani si è definito “un mezzo regista” perché metà di lui non c’era più sul set, si sentiva “un impiegato del cinema perché in fondo – spiegava – Vittorio ed io lavoriamo da sempre con certe regole e un certo ritmo, magari nel tempo rallentato dall’età che avanza ma sempre guidato da un rigore di fondo come quello degli impiegati di una volta. I film cambiano, io molto meno e continuo a pensare che facciamo questo mestiere perché se il cinema ha questa forza, di rivelare a noi stessi una nostra stessa verità, allora vale la pena di metterci alla prova”. Con oltre venti film alle spalle (senza contare documentari, pubblicità e qualche corto disperso come l’ultimo episodio di “Tu ridi”) altrettanti premi maggiori e un Leone d’oro alla carriera (nel 1986), i due fratelli hanno dimostrato che passione, costanza, rigore e fedeltà al reale possono essere premiati.

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Alessandro Magno è gay? La Grecia contro Netflix

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La Grecia è scesa in campo contro Netflix per un docudrama britannico su Alessandro Magno che suscita controversie sulla rappresentazione della relazione tra il grande condottiero macedone e il suo generale Efestione come un amore omosessuale. Lina Mendoni, ministra della Cultura del governo di Atene, ha bollato la serie televisiva “Alexander, the making of a god” (Alessandro, la creazione di un dio) come “una fiction di qualità estremamente bassa e pessimo contenuto, piena di inesattezze storiche”. Riguardo alla descrizione dei due protagonisti come gay, Mendoni ha sottolineato che “non c’è alcuna menzione nelle fonti dell’epoca di un rapporto che vada oltre l’amicizia”.

La questione è giunta al dibattito in Parlamento, dove Dimitris Natsiou, presidente di Niki, un partito cristiano ortodosso greco di estrema destra, ha condannato il serial come “deplorevole, inaccettabile, antistorico”, sostenendo che “l’obiettivo subliminale è dare un’idea dell’omosessualità come perfettamente accettabile nei tempi antichi, una tesi priva di basi”.

Sulle questioni sollevate dalle rappresentazioni storiche e sessuali della serie, gli specialisti offrono opinioni divergenti. Il professor Lloyd Llewellyn-Jones, docente di storia antica all’università di Cardiff, sostiene che “le relazioni fra persone dello stesso sesso erano decisamente la norma attraverso tutto il mondo greco”. Viceversa, Thomas Martin, docente di storia greco-romana al College of the Holy Cross, Massachusetts, nota che Omero non ha mai identificato Alessandro ed Efestione come amanti nell’Iliade, benché tale interpretazione sia stata avanzata successivamente.

Mentre alcuni esperti, come Martin e Christopher Blackwell della Furman University, ritengono che i rapporti omosessuali non fossero diffusi al tempo di Alessandro il Macedone, altri come Robin Lane Fox di Oxford sostengono che l’amore tra uomini non fosse fuori dalla norma. Tuttavia, tutti concordano sul forte legame tra Alessandro e il generale, testimoniato dalla testimonianza dei contemporanei.

La ministra Mendoni riconosce la complessità del concetto di amore nell’antichità ma respinge l’idea di intraprendere azioni contro Netflix, affermando che “non è compito del governo censurare, sull’arte ognuno può avere diverse opinioni”.

Questa controversia non è isolata: l’anno scorso, il ministro delle antichità egiziano criticò Netflix per la scelta di far interpretare Cleopatra da un’attrice nera nella serie “Queen Cleopatra”. Inoltre, la serie “The Crown” è stata oggetto di polemiche per presunte distorsioni storiche nella rappresentazione della famiglia reale inglese.

La discussione su come rappresentare accuratamente la storia attraverso i mezzi di intrattenimento continua a sollevare domande complesse sulla verità storica, l’interpretazione artistica e le sensibilità moderne.

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