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Cronache

La Consulta sentenzia: niente sospensione pena per ladri appartamento

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E’ legittima la norma che vieta al giudice di sospendere l’esecuzione della pena per i ladri di appartamento. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza 216 depositata ieri, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’articolo 656 del codice di procedura penale. A rivolgersi alla Consulta era stato il Tribunale di Agrigento in funzione di giudice dell’esecuzione, a luglio dello scorso anno, in seguito al ricorso di un uomo condannato a otto mesi di reclusione e a 300 euro di multa per furto in abitazione, che chiedeva di poter presentare la domanda per accedere alle misure alternative al carcere. Una domanda che non poteva essere presentata proprio per via della norma contenuta al comma 9 dell’articolo 656. Il tribunale sollevava dunque una questione di legittimita’ in base al primo comma dell’articolo 3 (tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge) e al terzo comma dell’articolo 27 (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita’ e devono tendere alla rieducazione del condannato) della Costituzione. Non concedere la sospensione della pena, in sostanza, avrebbe determinato “da un lato un ingiustificato deteriore trattamento per il furto in abitazione” rispetto ad altre tipologie di furti e, dall’altro, un “ingiustificato trattamento deteriore del furto in abitazione rispetto ai piu’ gravi delitti di rapina ed estorsione…non abbracciati, nelle forme non aggravate, dal divieto in esame”. Senza contare che la norma si fonderebbe su una “aprioristica presunzione di pericolosità” ed andrebbe a violare proprio “il principio rieducativo” della pena al centro dell’articolo 27. Secondo la Consulta, pero’, le questioni non sono fondate. “Il divieto di sospensione dell’ordine dell’esecuzione – si legge tra l’altro nella sentenza – trova la propria ratio nella discrezionale, e non irragionevole, presunzione del legislatore relativa alla particolare gravita’ del fatto di chi, per commettere il furto, entri in un’abitazione altrui, ovvero in altro luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, e dalla speciale pericolosita’ soggettiva manifestata dall’autore di un simile reato”. Ne’ puo’ essere ravvisato un “aprioristico” automatismo legislativo in quanto il legislatore ha ritenuto che la “pericolosita’…evidenziata dalla violazione dell’altrui domicilio rappresenti ragione sufficiente per negare in via generale” la sospensione, in attesa “caso per caso della valutazione del tribunale di sorveglianza”. Quanto alla presunta violazione del principio rieducativo della pena, dicono ancora i giudici, “che postulerebbe sempre, secondo il giudice a quo, una ‘valutazione individualizzata del prevenuto’ in relazione alla possibilita’ di concedergli i benefici”, va sottolineato che la norma prevista dal codice penale “non esclude affatto tale valutazione” rimandando al tribunale di sorveglianza “in sede di esame dell’istanza di concessione dei benefici, che il condannato puo’ comunque presentare una volta passata in giudicato la sentenza”. Archiviata le questioni di legittimita’, la Corte segnala pero’ al Parlamento “per ogni sua opportuna valutazione”, l'”incongruenza” della procedura processuale – stabilita con l’articolo 656, e la “vigente disciplina sostanziale” che, invece, “riconosce la possibilita’ di accedere a talune misure alternative si dall’inizio dell’esecuzione della pena”. E questo anche per il rischio che la decisione del tribunale di sorveglianza arrivi dopo che il condannato abbia scontato buona parte o addirittura tutta la pena.

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Sangue infetto, la famiglia di un militare napoletano morto nel 2005 sarà risarcita con un milione di euro

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Dopo quasi vent’anni di battaglie legali, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per i familiari di un militare napoletano, deceduto nel 2005 a seguito di complicazioni derivanti da una trasfusione di sangue infetto. La sentenza storica condanna l’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina, stabilendo un risarcimento di oltre un milione di euro ai familiari del defunto.

Il militare, trasferitosi da Napoli a Sicilia per lavoro, subì un grave incidente durante il servizio che necessitò un intervento chirurgico d’urgenza e la trasfusione di quattro sacche di sangue. Anni dopo l’intervento, si scoprì che il sangue trasfuso era infetto dall’epatite C, portando alla morte del militare per cirrosi epatica. La complicazione si manifestò vent’anni dopo la trasfusione, rendendo il caso particolarmente complesso a livello legale.

In primo e secondo grado, i tribunali di Palermo e la Corte d’Appello avevano respinto le richieste di risarcimento della famiglia, giudicando prescritto il diritto al risarcimento. Tuttavia, la decisione della Corte di Cassazione ha ribaltato questi verdetti, affermando che la prescrizione del diritto al risarcimento non decorre dal momento del fatto lesivo ma dal momento in cui si manifesta la patologia collegata al fatto illecito.

Questa sentenza non solo porta giustizia alla vittima e ai suoi cari ma stabilisce anche un importante precedente per la tutela dei diritti dei pazienti e la responsabilizzazione delle strutture sanitarie. Gli avvocati della famiglia hanno sottolineato l’importanza della decisione, che apre nuove prospettive nel campo della giustizia sanitaria e sottolinea l’obbligo delle strutture ospedaliere di rispettare protocolli medici dettagliati, anche in situazioni di urgenza.

Il caso di Antonio (nome di fantasia) sottolinea la necessità di garantire la sicurezza nelle procedure mediche e di monitorare con rigore le condizioni di sicurezza del sangue donato, indipendentemente dalle circostanze. La sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore giustizia e sicurezza nel sistema sanitario italiano, ribadendo che nessuna circostanza può esimere dal rispetto delle norme di sicurezza e prudenza necessarie per proteggere la salute dei pazienti.

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Addio a Italo Ormanni, magistrato e gentiluomo napoletano

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Italo Ormanni, magistrato, è scomparso all’età di 88 anni. Dopo una vita dedicata alla giustizia e alla lotta contro la criminalità organizzata, Ormanni ci lascia ricordi indelebili di un uomo che ha saputo coniugare serietà professionale e un vivace senso dell’umorismo. È deceduto ieri a Roma, nella clinica Quisisana, dove era ricoverato e aveva subito un’angioplastica.

La carriera di Ormanni, iniziata nella magistratura nel 1961, è stata lunga e fruttuosa, con servizio attivo fino al 2010. Tra i casi più noti che ha seguito, ci sono stati quelli che hanno toccato i vertici della camorra a Napoli, sua città natale, e importanti inchieste su eventi di cronaca nazionale, come il rapimento di Emanuela Orlandi e l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Anche nel suo ruolo di procuratore aggiunto a Roma, Ormanni ha gestito casi di grande risonanza, contribuendo significativamente alla sicurezza e alla giustizia in Italia.

Oltre al suo impegno nel campo giudiziario, Ormanni ha avuto anche una breve ma memorabile carriera televisiva come giudice-arbitro nella trasmissione “Forum”, dove ha lasciato il segno con la sua capacità di gestire le controversie con saggezza e empatia.

Amante delle arti e della cultura, Ormanni ha sempre cercato di bilanciare la durezza del suo lavoro con le sue passioni personali, dimostrando che dietro la toga c’era un uomo completo e poliedrico. I suoi funerali si terranno a Roma, nel primo pomeriggio di lunedì, dove amici, familiari e colleghi avranno l’occasione di rendere omaggio a una delle figure più influenti e rispettate del panorama giudiziario italiano.

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Falso terapista accusato di stupro, vittima minorenne

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Accoglieva le sue pazienti all’interno di un finto studio allestito in una palestra di Fondi e, una volta solo con loro nelle stanze della struttura, le molestava nel corso di presunti trattamenti di fisioterapia, crioterapia e pressoterapia, facendo leva sulle loro fragilità psicologiche e fisiche affinché non raccontassero nulla. Dolori e piccoli problemi fisici che spingevano ciascuna delle vittime, tra cui anche una minorenne, a recarsi da lui per sottoporsi alle sedute, completamente all’oscuro del fatto che l’uomo non possedesse alcun titolo di studio professionale, né tanto meno la prevista abilitazione, e che non fosse neanche iscritto all’albo. È finito agli arresti domiciliari il finto fisioterapista trentenne di Fondi, per il quale è scattato anche il braccialetto elettronico, accusato di aver commesso atti di violenza sessuale su diverse donne, tra cui una ragazza di neanche 18 anni, e di aver esercitato abusivamente la professione.

Un’ordinanza, quella emessa dal giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Latina ed eseguita nella giornata di oggi dagli agenti del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, arrivata al termine di un’indagine di polizia giudiziaria svolta su delega della Procura di Latina. Durata all’incirca un anno, quest’ultima ha permesso di svelare, attraverso le indagini condotte anche con accertamenti tecnici, acquisizioni di dichiarazioni ed esami documentali, i numerosi atti di violenza da parte dell’uomo nei confronti delle pazienti del finto studio da lui gestito. Tutto accadeva all’interno di un'”Associazione sportiva dilettantistica” adibita a palestra nella città di Fondi, nel sud della provincia di Latina: quella che il trentenne spacciava per il suo studio, sequestrata in queste ore dalle fiamme gialle quale soggetto giuridico formale nella cui veste è stata esercitata l’attività professionale, in assenza dei prescritti titoli di studio, della prevista abilitazione e della necessaria iscrizione all’albo, nonché dei locali, attrezzature e impianti utilizzati. Un’altra storia di abusi a Lodi.

Vittima una ragazza siriana di 17 anni arrivata in Italia per sfuggire alla guerra e al sisma del 2023: finita nelle mani dei trafficanti è stata sottoposta a violenze e maltrattamenti e poi abbandonata. La Polizia, coordinata dalla Procura di Lodi e dalla Procura presso la Direzione distrettuale antimafia di Bologna, ha arrestato i due aguzzini.

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