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Kim sfida Seul e fa esplodere le strade tra le due Coree

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Kim Jong-un ha fatto saltare in aria parti dei collegamenti via terra intercoreani sul suo lato di confine, mandando in frantumi ciò che restava dei periodi di riavvicinamento tra le due Coree, incluso un summit del 2018 tra i rispettivi leader in cui dichiararono che non ci sarebbe stata più guerra grazie all’apertura di una nuova era di pace. “Le forze del Nord hanno attivato intorno a mezzogiorno le detonazioni per bloccare” i collegamenti di strade e ferrovie a Gyeongui e Donghae, hanno annunciato i capi di stato maggiore congiunti di Seul.

L’esercito sudcoreano, con una mossa ad alta tensione, ha risposto sparando colpi di avvertimento a sud della linea di demarcazione militare. Più tardi, l’emittente pubblica sudcoreana Kbs ha riferito, citando un funzionario governativo, che Kim ha visitato il sito per ispezionare di persona i preparativi. E’ arrivato a bordo di una Lexus, marchio di lusso di Toyota, formalmente al bando nello Stato eremita per le sanzioni delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu decise in risposta ai suoi test nucleari e di missili balistici.

Preso atto del legittimo disappunto di Seul per aver visto polverizzare i lavori costati ai suoi contribuenti 132 milioni di dollari, secondo le stime dell’agenzia Yonhap, è necessario riavvolgere il nastro per capire le ragioni di un’impennata della crisi che ha spinto la Cina a mettere in guardia da “un’ulteriore esclation”. Dalla scorsa settimana c’è stata una crescente guerra di parole tra le Coree dopo che il Nord ha accusato Seul di aver inviato droni sulla capitale Pyongyang e lanciato un “numero enorme” di volantini anti-Kim, parte di “una provocazione politica e militare che potrebbe portare a un conflitto armato”. Si tratta del cuore della propaganda degli attivisti, in gran parte nordcoreani rifugiatisi al Sud, che punta a denunciare opulenza e lusso di leadership e famiglia Kim soprattutto quando la popolazione è costretta a tirare la cinghia per la crisi economica cronica ed è piegata dalla fame. Il leader, ad esempio, è ritratto con al polso un orologio, rigorosamente svizzero: un IWC Schaffhausen da 13.400 dollari.

Ancora più beffarda è poi la conversione dei beni di lusso incriminati in chili di riso e grano equivalenti, in base ai magri salari nordcoreani. Insomma, un duro colpo potenziale alla fede assoluta richiesta nei confronti del giovane maresciallo che ha spinto la potente sorella Kim Yo-jong, in base a presunte “prove evidenti” sul coinvolgimento dei militari sudcoreani nella vicenda, a dire che Seul “pagherà a caro prezzo le incursioni” e “pesantissimi conseguenze” in caso di nuovi invii. La Corea del Sud ha rifiutato di confermare se i droni siano stati o meno inviati dai suoi militari o da organizzazioni civili. Mentre Kim Jong-un, per tutta risposta, ha convocato lunedì un inedito vertice sulla sicurezza nazionale per esaminare e dirigere un piano di “azione militare immediata” nella disputa sui droni. Tutto lascia pensare quindi che il caso sia ben lontano dalla conclusione: tra gli analisti militari si è diffusa la convinzione di nuove provocazioni in arrivo, anche per testare la postura degli Usa, chiamati a difendere l’alleato sudcoreano in caso di attacco.

Il leader comunista si sente forte, spalleggiato dalla Russia di Vladimir Putin. Lo Zar ha mandato lunedì alla Duma per la ratifica, secondo diversi media, il Trattato sulla partnership strategica globale firmato a giugno dai due leader. Stabilisce che Russia e Corea del Nord si debbano sostenere a vicenda qualora uno dei due partner subisse un attacco esterno, anche con l’invio di militari. E Putin ha bisogno di uomini e armi per la sua guerra contro l’Ucraina.

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Mar Nero, il fronte navale dimenticato: perché la Russia ha accettato il cessate il fuoco

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Dalla pretesa del controllo totale sul Mar Nero all’ammissione di un cessate il fuoco imposto dai fatti. La Russia, che nel febbraio 2022 aveva avviato una delle campagne militari più ambiziose del conflitto, si trova oggi costretta a ridimensionare le sue ambizioni navali. La guerra sul mare è stata una disfatta strategica per Mosca, che ha perso almeno il 20% della propria flotta militare. Ed è proprio questo insuccesso a spingere Vladimir Putin ad accettare la tregua discussa ai negoziati in Arabia Saudita.

L’ambizione: dominare il Mar Nero

Il piano iniziale era chiaro: occupare tutti i porti e le coste dell’Ucraina meridionale, escludere Kiev da una delle sue principali arterie economiche e imporre un monopolio russo sulla navigazione nel Mar Nero. Già il primo giorno di guerra, Mosca dichiarava la sospensione della navigazione a nord del 45° parallelo e nel Mar d’Azov. Il porto storico di Sebastopoli diventava il fulcro di operazioni “antiterrorismo”. L’obiettivo era Odessa, da raggiungere anche con operazioni anfibie, mai realmente decollate.

La svolta: l’affondamento della “Moskva”

Il punto di rottura arriva il 13 aprile 2022, quando l’incrociatore Moskva, fiore all’occhiello della Flotta del Mar Nero, viene colpito e affondato da un drone marino ucraino Neptune. È l’inizio della fine: a oggi almeno trenta unità navali russe sono state distrutte o rese inutilizzabili. Il grosso della flotta è stato ritirato verso est, a Novorossiysk, abbandonando di fatto il controllo attivo delle coste ucraine.

L’Ucraina resiste e reagisce

Kiev ha costruito un sistema difensivo sofisticato lungo le acque territoriali, proteggendo le rotte commerciali con droni marini e aerei. L’isola dei Serpenti, simbolo della resistenza, è stata riconquistata. I russi hanno reagito con attacchi mirati, ma non sono riusciti a ristabilire la superiorità marittima. L’Ucraina ha così riaperto i suoi corridoi navali, e nonostante le continue minacce, le esportazioni sono riprese.

Il blocco e il “corridoio del grano”

Nel 2022, con mediazione di Onu e Turchia, nasce il cosiddetto “corridoio del grano”. Funziona, inizialmente: 331 navi partite in pochi mesi. Ma nel 2023 Mosca inizia a ostacolare i controlli e infine impone di nuovo il blocco. Nel frattempo Kiev forza la mano, e tra ottobre 2023 e dicembre 2024 transita un volume record: 3.500 navi e oltre 93 milioni di tonnellate di prodotti esportati.

Gli attacchi di Mosca e l’alto costo della guerra

Nel solo bimestre gennaio-febbraio 2025, la Russia ha colpito Odessa almeno 21 volte, distruggendo parte delle infrastrutture portuali ed energetiche. Il prezzo umano è alto: il caso più tragico l’11 marzo, quando quattro marinai siriani muoiono a bordo di un cargo battente bandiera delle Barbados.

La mediazione possibile: il ruolo della Turchia

La tregua proposta oggi ai tavoli sauditi prevede una sospensione delle ostilità navali, ma resta fragile. Il monitoraggio potrebbe tornare nelle mani della Turchia, come nel 2022. Ma Erdoğan è oggi troppo impegnato nella crisi interna per giocare lo stesso ruolo. E così, mentre le truppe russe avanzano lentamente nel Donbass, il Cremlino ammette di aver perso il controllo di uno dei fronti che più avrebbe voluto dominare.

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L’Europa si prepara a guerra e altre emergenze: arriva la strategia Ue per resistere 72 ore in autonomia

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Una “borsa della resilienza” per ogni cittadino europeo, un piano comune per affrontare guerre, disastri naturali e pandemie, una piattaforma informativa e un comitato speciale di crisi. È questo il cuore della strategia che la Commissione europea presenta oggi per rafforzare la preparazione civile e militare dell’Ue, seguendo la traccia della relazione consegnata lo scorso ottobre dall’ex presidente finlandese Sauli Niinistö.

Trenta azioni chiave per affrontare le crisi

Il documento, intitolato “EU Preparedness Union Strategy”, prevede trenta azioni operative per migliorare la resilienza del continente, dai conflitti ai blackout, dagli attacchi informatici alle emergenze sanitarie. Una delle misure simboliche — ma anche pratiche — è la creazione di un kit di sopravvivenza per ogni cittadino, che dovrà contenere acqua, cibo, medicinali, documenti, fiammiferi e torce: l’obiettivo è garantire almeno 72 ore di autonomia in caso di crisi.

Una giornata per imparare la resilienza

La strategia prevede anche una “giornata nazionale di preparazione” da istituire in ogni Stato membro per sensibilizzare la popolazione sulla necessità di essere pronti a ogni tipo di catastrofe. Particolare attenzione sarà rivolta anche alle scuole, con programmi didattici dedicati alla cultura della prevenzione e della gestione dell’emergenza.

Verso un comitato di crisi europeo

La bozza visionata da El País prevede la creazione di un comitato di crisi Ue che includa la Commissione europea, l’Alto rappresentante per la politica estera e i rappresentanti dei 27 Paesi membri. Questo organismo sarà supportato da tutte le agenzie europee competenti e avrà il compito di coordinare le risposte rapide e condivise a livello continentale.

Riserve strategiche e piattaforma digitale

Bruxelles punta anche a coordinare le riserve strategiche di medicinali, materie prime, energia e generi alimentari, per evitare frammentazioni e ritardi. Sarà inoltre lanciata una piattaforma digitale per informare i cittadini sui rischi in tempo reale, sulle opzioni di rifugio e sulle risorse disponibili in caso di emergenza.

Intelligence e sicurezza: potenziare l’analisi Ue

Infine, la Commissione vuole rafforzare il proprio Centro unico di analisi dell’intelligence, che riceve dati da tutte le agenzie di spionaggio civili e militari dei Paesi membri. Lo scopo è identificare precocemente le minacce e ridurre l’impatto di eventi critici prima che diventino ingovernabili.

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Nel cuore di Mosca, la mostra sull’Arbat racconta che la pace è ancora lontana

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Nel mezzo della vecchia Arbat, la storica via pedonale simbolo della capitale russa, una mostra fotografica rende evidente quanto sia difficile parlare oggi di pace tra Russia e Ucraina. L’installazione, dal titolo provocatorio “L’Europa ringrazia” — subito ribaltato dal grande “Niet” rosso che lo sormonta — trasmette un messaggio preciso: la Russia si sente tradita da chi avrebbe dovuto esserle grato.

Due facce della stessa guerra

Ogni pannello ha due lati: da un lato, immagini di monumenti vandalizzati dedicati all’Armata Rossa, spesso imbrattati di vernice gialla e azzurra, i colori della bandiera ucraina; dall’altro, foto d’epoca che mostrano l’accoglienza delle truppe sovietiche nel dopoguerra in varie capitali europee. In calce, la celebre frase del maresciallo Zhukov: “Li abbiamo liberati, e loro non ce lo perdoneranno mai”.

Il messaggio è chiaro: Mosca si sente oltraggiata non solo dalle bombe e dalle sanzioni, ma anche dalla rilettura occidentale della memoria storica.

Shopping e geopolitica

Sull’Arbat si passeggia tra boutique e souvenir, ma anche tra simboli di propaganda. Una signora elegante si ferma davanti a uno dei pannelli, ascolta distrattamente una canzone di Celentano proveniente da un bar, poi scuote la testa: «Trump crede davvero che Putin chiuderà tutto con un brindisi?», dice con sarcasmo.

A Mosca il sentimento dominante non è la speranza, ma lo scetticismo. A confermarlo anche le parole del ministro degli Esteri Sergey Lavrov, che in tv ribadisce: nessuna tregua sarà possibile senza “garanzie dirette da Washington” e senza un “ordine chiaro a Zelensky”.

Psicosi diplomatica

I giornali russi, pur con toni più sottili, sembrano allinearsi. Il quotidiano Komsomolskaya Pravda fa analizzare da uno psicologo i gesti della delegazione russa al termine dei colloqui a Riad: «Volti stanchi, posture tese: nessun progresso». Kommersant scherza amaramente: “Usa e Russia vanno al mare”, frase che può valere sia per la discussione sulla sicurezza nel Mar Nero, sia per l’apparente inconcludenza dei negoziati.

Il clima è quello di una tregua fragile, imposta più dalla pressione internazionale che da una volontà reale.

“Prima via le sanzioni”

La linea russa, ribadita dai falchi del Cremlino, è chiara: “Prima via le sanzioni, poi l’armistizio”. Le divergenze su agricoltura, porti, logistica, energia sono profonde, e parlano “tre lingue diverse”, come ha detto il politologo Sergey Markov. Nessuno sembra credere davvero che basti un accordo tecnico per fermare le ostilità.

E se c’è bisogno di un altro segnale simbolico, basta tornare sempre sull’Arbat: lì, appena pochi giorni fa, è stata inaugurata un’altra mostra, questa volta dedicata ai “progressi sociali ed economici della Crimea riunificata”. Nelle foto, ponti e scuole, ma anche militari abbracciati dai bambini.

Immagini pensate per raccontare una vittoria. Ma che, viste oggi, parlano più di un conflitto che ancora non vuole finire.

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