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Kiev, ‘siamo ancora a Bakhmut’. Putin ringrazia i Wagner

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L’Ucraina combatte per difendere Bakhmut anche a suon di dichiarazioni, all’indomani dell’annuncio del capo dei Wagner, Yevgeny Prigozhin, che la città teatro della più lunga e sanguinosa guerra dell’invasione è capitolata ed è nelle mani dei russi. Il presidente russo Vladimir Putin si è congratulato con le sue truppe e con i mercenari per la “liberazione di Artyomovsk”, denominazione sovietica mai abbandonata da Mosca in questi mesi di assalto. Da Hiroshima, Volodymyr Zelensky ha replicato che “no, ad oggi Bakhmut non è occupata dalla Federazione Russa” e che gli ucraini “restano” impegnati nella difesa della città. Ma per quanto siano chiari gli sforzi di dissimulare, gli stessi ucraini hanno mostrato incertezza sulle sorti della città. Primo tra tutti Zelensky, che in un primo commento ai giornalisti al G7 ha dichiarato di “non pensare” che la città fosse in mano ai russi, e che in ogni caso dei suoi edifici “non è rimasto più nulla”: ormai Bakhmut “resta solo nei nostri cuori”. Parole interpretate da molti come una conferma di capitolazione, costringendo il suo portavoce Sergii Nykyforov a precisare che quella del presidente ucraino era una “negazione” della conquista russa, arrivata poi chiara nella conferenza stampa successiva.

Ma sul terreno la situazione è ben più complessa: se da una parte la viceministra della Difesa ucraina Hanna Malyar ha spinto sul fatto che le forze di Kiev hanno “semi-circondato” Bakhmut, il comandante delle forze terrestri Oleksandr Syrsky ha riconosciuto che le sue truppe controllano solo una porzione “insignificante” della città, ma ne mantengono la periferia e continuano “ad avanzare sui fianchi”. “L’importanza della difesa di Bakhmut non perde di significato. In futuro, questo ci darà l’opportunità di entrare in città quando cambierà la situazione operativa al fronte”, ha aggiunto Syrsky che ha visitato di persona le truppe impegnate in quella direzione. Al contrario, Prigozhin ha delineato un quadro totalmente diverso, sostenendo che a Bakhmut “non c’è un solo soldato ucraino, perché abbiamo smesso di fare prigionieri”, e che “c’è un numero enorme di cadaveri di soldati” di Kiev. Commentando poi le dichiarazioni di Zelensky, Prigozhin ha sostenuto che il leader ucraino mente o, “come molti dei nostri capi militari, semplicemente non sa cosa sta succedendo sul campo”.

La confusione di annunci e smentite non cancella il dato che la caduta di Bakhmut rappresenta un duro colpo per Kiev, alla vigilia della tanto attesa controffensiva e dopo mesi di battaglia feroce nella quale ha speso un’enorme quantità di risorse e decine di migliaia di vite. Per lo stesso motivo, la cattura dell’insediamento del Donetsk rappresenta per i russi una vittoria di Pirro: il secondo esercito del mondo ha mostrato un’enorme fatica e pagato anch’esso con la vita di decine di migliaia di soldati, 100 mila tra morti e feriti secondo il presidente Usa Biden. Un risultato concreto dopo un lungo digiuno da un evento positivo sul campo, ma più simbolico che strategico. Prigozhin ha poi voluto precisare – non lasciandosi sfuggire l’ennesima polemica con lo Stato maggiore russo – che non si tratta di una vittoria dell’esercito di Mosca. A suo dire, nessuna delle truppe regolari ha infatti aiutato i suoi mercenari nella conquista della città. Gli esperti sostengono poi da tempo come Bakhmut non possa rappresentare una svolta nelle sorti del conflitto. Il think tank statunitense Isw ha sottolineato come la presa della città non permetterà alle forze esauste di Mosca di creare una testa di ponte per ulteriori operazioni offensive, e che i continui contrattacchi ucraini a nord, ovest e sud-ovest complicheranno qualsiasi ulteriore avanzata delle truppe russe oltre la città nel breve termine. Intanto, un dato resta drammaticamente chiaro: a guardare quella che ormai è una distesa fumante di macerie e morte, si fa fatica a riconoscere in Bakhmut una città dimora un tempo dimora di 70.000 persone, importante centro industriale circondato da miniere di sale e gesso. L’ennesima vittima dell’implacabile ferocia dell’invasione.

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La strage dei neonati, si allarga l’inchiesta dopo la condanna della infermiera

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Si allargano anche alle possibili negligenze dei vertici della struttura sanitaria locale le indagini idella polizia britannica sulla “strage di neonati” del Countess of Chester Hospital: l’ospedale del nord dell’Inghilterra in cui un’infermiera addetta al reparto maternità fece morire – deliberatamente secondo le accuse – 7 neonati fra il 2015 e il 2016, esponendo a sovradosaggi di farmaci almeno altri 6, per motivi deliranti che in parte restano oscuri. Il primo capitolo della vicenda si è chiuso nell’agosto scorso con la condanna all’ergastolo dell’ex infermiera 33enne Lucy Letby, ribattezzata dai tabloid “la nurse killer del Chestershire”. Mentre è di oggi l’ufficializzazione della notizia dell’apertura formale di un secondo fascicolo parallelo da parte della polizia della contea sull’ipotesi di reato di complicità in omicidio colposo plurimo a carico di responsabili dell’ospedale o di figure addette sulla carta alla sorveglianza in seno al servizio sanitario nazionale (Nhs). Figure al momento non identificate. Il sovrintendente detective Simon Blackwell ha sottolineato che le verifiche riguarderanno anche i massimi vertici dell’epoca della struttura, precisando che esse sono tuttavia “a uno stadio iniziale”. E che quindi non vi sono per ora specifici individui nel registro degli indagati.

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Ricatto di Saied, l’arma dell’invasione per i fondi

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Saied presidente Tunisia

Un gioco al rialzo o rivendicazioni a uso e consumo interno? Il presidente tunisino Kais Saied ha rifiutato un primo assegno da 127 milioni dell’Unione europea, bollandolo come “elemosina”, con un rigurgito – almeno all’apparenza – di anticolonialismo. O, piuttosto, per alzare la posta, brandendo la minaccia dell’invasione di migliaia di migranti pronti a salpare da Sfax verso le coste italiane. Con un duplice obiettivo: ricevere una somma più alta, sul modello dell’accordo da 6 miliardi di euro raggiunto dall’Ue con la Turchia di Erdogan nel 2016 per chiudere i rubinetti della rotta balcanica; e riuscire ad ottenere i 900 milioni di assistenza macrofinanziaria previsti dal memorandum del luglio scorso, sganciandoli dai quasi 2 miliardi che l’Fmi tiene bloccati in attesa di riforme. Riforme che Saied – che dal 2021 si presenta come nuovo autocrate del Nord Africa – non sembra intenzionato nemmeno ad avviare.

La Commissione europea aveva annunciato nei giorni scorsi di aver stanziato i 127 milioni da versare “rapidamente” a Tunisi. Bruxelles aveva precisato che si trattava di 67 milioni per combattere l’immigrazione illegale (i primi 42 milioni dei 105 milioni di aiuti previsti dal memorandum firmato due mesi fa e altri 24,7 milioni nell’ambito di programmi già in corso) e 60 milioni legati al sostegno del bilancio tunisino. Ma Saied ha bloccato tutto: “La Tunisia accetta la cooperazione, ma non accetta nulla che somigli a carità o favore, quando questo è senza rispetto”, ha dichiarato il presidente dopo aver rinviato e sospeso nei giorni scorsi anche le visite delle delegazioni europee, prima parlamentare e poi della Commissione. Questo rifiuto, ha tenuto a sottolineare Saied, “non è dovuto all’importo irrisorio ma al fatto che questa proposta va contro” l’accordo firmato a Tunisi e “lo spirito che ha prevalso durante la Conferenza di Roma” di luglio, “iniziativa avviata da Tunisia e Italia”.

“Non abbiamo capito ancora cosa volesse dire Saied. Non abbiamo avuto la trascrizione e stiamo lavorando per avere più informazioni”, ha ammesso un alto funzionario Ue, intuendo però che il tunisino “avrebbe preferito più aiuti” rispetto alla prima tranche. Sullo stato dell’intesa la fonte ha ricordato che il Consiglio “non è stato coinvolto” nei negoziati. Ma, ha sottolineato, “non possiamo dire che il Memorandum sia un fallimento”. E se anche a Bruxelles l’intesa con Tunisi trova un ostacolo nelle diverse posizioni dei 27, preoccupa lo stato dei diritti umani nel Paese, dove la democrazia sognata dalla rivoluzione dei Gelsomini è ormai naufragata e dove lo stesso Saied ha di fatto aizzato una caccia al migrante subsahariano, ormai poco tollerato da una popolazione alle prese con una grave crisi economica e alimentare.

Resta il fatto che l’Europa e l’Italia non possono fare a meno di lavorare con la Tunisia per arginare gli sbarchi che rischiano di mettere in crisi l’Unione e il suo futuro dopo le elezioni di giugno. E Saied lo ha capito, rilanciando ogni giorno, non solo per sedare le tensioni interne ma anche e soprattutto per spingere l’Europa, di fronte ad una crisi migratoria senza precedenti, a fare pressione su Washington per lo sblocco degli 1,9 miliardi del Fondo Monetario Internazionale.

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La Camera destituisce lo speaker, prima volta negli Usa

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La Camera ha approvato la mozione per destituire lo speaker repubblicano Kevin McCarthy, facendo precipitare il Capitol nel caos e nell’incertezza. E’ la prima volta nella storia Usa. A proporre la mozione il deputato del suo partito Matt Gaetz, un fedelissimo di Donald Trump ed esponente di una fronda parlamentare alla Camera legata al tycoon.

La votazione si è conclusa con 216 voti a favore e 210 no. Otto repubblicani hanno votato contro McCarthy. Quest’ultimo ora dovrà indicare il suo sostituto provvisorio sino all’elezione di un nuovo speaker, passaggio che non sarà certo facile e che rischia di paralizzare il Congresso proprio quando deve negoziare la prossima legge di spesa.

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