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Esteri

Kanye West si candida, il marito di Kim Kardashian sogna la Casa Bianca

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Kanye West sfida l’amico Donald Trump. Il rapper marito di Kim Kardashian si candida alla Casa Bianca per il 2020. Dopo aver caldeggiato l’idea per anni e paventato nei mesi scorsi una sua possibile discesa in campo nel 2024, West scopre le carte cogliendo molti di sorpresa. Lo fa con un tweet ai suoi 29,4 milioni di follower nel giorno dell’Indipendenza: “dobbiamo realizzare la promessa dell’America fidandoci di Dio, unificando la nostra visione e costruendo il nostro futuro. Corro per la presidenza degli Stati Uniti. #2020VISION”. Il cinguettio diventa subito virale con piu’ di 100.000 ritweet in meno di un’ora. Fra i primi a sostenerlo c’e’ ovviamente la popolare moglie Kim, da poco divenuta ufficialmente miliardaria: posta sui social una bandiera americana insieme al tweet del marito. Poco prima la star dei reality aveva pubblicato una foto con il suo nuovo look: capelli rosso Ferrari intonati con un abbigliamento rosso fuoco e scarpe argentate. A esprimere immediatamente il proprio sostegno a West e’ anche Elon Musk, il miliardario visionario alla guida di Tesla. Anche il proprietario dei Dallas Mavericks e popolare volto tv Mark Cuban e’ con West: fra Trump e il rapper “preferisco Kanye West”. Mentre Kim Kardashian e la sua grande e famosa famiglia ‘sognano’ la Casa Bianca, molti si chiedono se la candidatura di West sia reale o solo una mossa pubblicitaria. O ancora una ‘distrazione’ per aiutare Trump nella battaglia contro Joe Biden: il rapper potrebbe infatti sottrarre i voti degli afroamericani al candidato democratico, facilitando di fatto l’avanzata di Trump. West e il presidente negli ultimi anni hanno collaborato e il rapper ha sposato la causa del tycoon fin dall’inizio, come mostrano le numerose foto che vedono West indossare il cappello da baseball rosso con la scritta-slogan del presidente: ‘Make America Great Again’. Se le sue intenzioni sono serie, la sua e’ un corsa a ostacoli quasi insormontabili per la maggior parte dei candidati. Fra le prime difficolta’ c’e’ quella di allestire una campagna elettorale quando mancano quattro mesi al voto del 3 novembre. West deve poi qualificarsi per l’accesso alle urne: le scadenze per presentarsi come candidato indipendente sono gia’ scadute in diversi stati, e sono in scadenza in altri. Disponibili con gli stati restanti ci sarebbero 375 voti elettorali, rendendo la corsa molto difficile visto che ne servono 270 per vincere la presidenza. Al momento non e’ chiaro se West abbia presentato tutte le carte necessarie alla Federal Election Commission: nel database della commissione per ora l’unico candidato per la presidenza alle elezioni del 2020 chiamato Kanye West e’ un candidato dei Verdi, ‘Kanye Deez Nutz West’. Se fosse seriamente intenzionato a candidarsi, West potrebbe essere un candidato ‘write-in’, ovvero il cui nome puo’ essere scritto manualmente sulla scheda. Per tradizione i candidati write-in hanno poche chance di vincere e la procedura e’ di solito usata dopo esclusioni legali e procedurali dalla corsa elettorale. In passato il write-in e’ stato usato nelle primarie presidenziali: lo hanno fatto John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon in Massachusetts ma anche Franklin Delano Roosevelt in New Jersey. Precedenti illustri ma di un’altra era politica e, soprattutto, per le primarie in un singolo stato. I repubblicani guardano a distanza. Forse fra i vari rivali di Trump che immaginavano, il rapper non era in cima alla loro lista.

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Mosca, 2 morti per attacco ucraino con droni a Belgorod

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E’ di due morti il bilancio di un attacco ucraino con droni nella regione russa di Belgorod. Lo annuncia il governatore Vyacheslav Gladkov. – “In seguito al rilascio di due ordigni esplosivi, un edificio residenziale privato ha preso fuoco – ha scritto su Telegram il governatore Vyacheslav Gladkov -. Due civili sono morti, una donna che si stava riprendendo da una frattura al femore e un uomo che si prendeva cura di lei”.

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La Nato verso nuovi Patriot e Samp-T all’Ucraina

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Da Capri a Bruxelles a Washington, l’Occidente imbocca la strada per concretizzare gli aiuti militari – compresa la difesa aerea – essenziali per Kiev in difficoltà nella guerra. Durante il Consiglio Nato-Ucraina con Volodymyr Zelensky, il segretario generale Jens Stoltenberg ha assicurato che “presto” ci saranno nuovi annunci sui sistemi di difesa per il Paese invaso. “L’Alleanza ha mappato le capacità degli alleati, ci sono sistemi che possono essere dati all’Ucraina”, ha riferito Stoltenberg al termine dell’incontro. “In aggiunta ai Patriot ci sono altri strumenti che possono essere forniti, come i Samp-T”, quelli a produzione franco-italiana. Un annuncio che arriva mentre prendono corpo i “segnali incoraggianti” evocati dal segretario di Stato Usa Antony Blinken: dopo mesi di stallo, la Camera americana ha spianato la strada ai quattro provvedimenti per gli aiuti a Ucraina, Israele e Taiwan, mettendo in agenda il voto per domani.

E il Pentagono si sta preparando ad approvare rapidamente un nuovo pacchetto di aiuti militari che include artiglieria e difese aeree: secondo una fonte americana, parte del materiale potrebbe raggiungere il Paese nel giro di pochi giorni. In generale, per Kiev in ballo ci sono gli oltre 60 miliardi di dollari di forniture per le forze armate che – ha ricordato Blinken – “faranno una differenza enorme”. “Se i nuovi aiuti non verranno approvati c’è il rischio che sia troppo tardi”, ha ammonito il ministro degli Esteri Usa, mentre Zelensky ha ribadito l’allarme: i soldati “non possono più attendere” la burocrazia occidentale, la Nato deve dimostrare “se siamo davvero alleati”. La situazione sul terreno “è al limite”, ha aggiunto il leader ucraino al segretario della Nato Da parte dell’Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha “confermato quello che ha detto il presidente del Consiglio” sul fatto che il nostro Paese “farà il possibile per la protezione aerea dell’Ucraina”, mentre Kiev vuole dagli alleati ogni sistema disponibile, dai moderni Patriot – “almeno altre sette sistemi” – ai Samp-T italo-francesi. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ha partecipato al Consiglio Nato-Ucraina, nel quale si è convenuto sulla necessità di uno sforzo ulteriore per sostenere Kiev. L’Italia ragiona sugli ulteriori aiuti militari da fornire quanto prima all’Ucraina e sul tavolo – si apprende – c’è la possibilità di un nuovo decreto per l’invio degli armamenti.

Anche se Crosetto ha più volte sottolineato che quasi tutto ciò che si poteva dare è stato dato. Già a Capri, dove ha partecipato al G7 Esteri, Stoltenberg aveva confermato la volontà degli alleati di accelerare sulla difesa aerea ucraina. E nel loro documento finale, i Sette ministri hanno espresso la “determinazione a rafforzare le capacità di difesa aerea” del Paese invaso, confermando l’impegno a lavorare per esaudire le richieste di Kiev, ribadite anche dal capo della diplomazia ucraina Dmytro Kuleba, tra gli ospiti del summit in Italia. Il sostegno del G7 è pronto a tradursi anche in ulteriori sanzioni contro Teheran “se dovesse procedere con la fornitura di missili balistici o tecnologie correlate alla Russia”.

Il Gruppo ha poi puntato il dito contro la Cina, chiedendo nel suo documento finale di “interrompere” il sostegno alla macchina bellica di Mosca. Infine, i Sette hanno ribadito l’impegno ad attuare e far rispettare le sanzioni contro i russi, minacciando di “adottare nuove misure, se necessario”. In vista del vertice dei leader in programma a giugno in Puglia, il G7 lavora inoltre alle “possibili opzioni praticabili” per usare i beni russi congelati a sostegno dell’Ucraina, “in linea con i rispettivi sistemi giuridici e il diritto internazionale”. Finora l’Ue ha trovato le basi legali solo per l’uso degli extraprofitti, ma bisogna ancora capire se si può fare un passo in più mettendo le mani direttamente sugli asset.

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Teheran avverte Israele, ‘non fate altri errori’

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“Un fallimento”, “fuochi d’artificio”, “la situazione è completamente normale”. La Repubblica islamica tace sulle esplosioni o minimizza l’attacco notturno, attribuito a Tel Aviv, che ha colpito una base militare a Isfahan nel giorno dell’85esimo compleanno della Guida suprema Ali Khamenei. Vari esponenti del governo e delle forze armate iraniane hanno continuato a minacciare una “risposta massima e definitiva” contro lo Stato ebraico mentre l’attacco veniva sminuito. Secondo Teheran, le esplosioni sentite nella notte sono dovute al sistema di difesa iraniano che ha preso di mira “mini droni di sorveglianza americani o israeliani”, lanciati a meno di una settimana dall’attacco dell’Iran contro Israele, in ritorsione per l’uccisione di sette membri delle Guardie della rivoluzione in un raid contro l’ambasciata iraniana di Damasco.

Dopo la chiusura, temporanea, dello spazio aereo su Teheran e altre città, i media della Repubblica islamica si sono affrettati ad assicurare che, in seguito all’abbattimento di “oggetti volanti sospetti”, la situazione era tornata alla completa normalità mentre i siti nucleari nella zona non sono stati danneggiati dall’attacco, come confermato anche dall’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea), e hanno continuato ad operare “in totale sicurezza”. L’attribuzione dell’attacco a Israele è stata inizialmente bollata come “un’assurdità” dal comandante in capo dell’Esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, mentre il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha negato di aver tenuto una riunione d’emergenza, smentendo indiscrezioni apparse sui “media stranieri”. Il governo di Teheran e i vertici militari hanno evitato in ogni modo di parlare direttamente dell’attacco, con l’eccezione del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian che, senza esplicitamente accusare lo Stato ebraico, ha definito l’attacco un “fallimento”, dipinto come una vittoria ed “esagerato dai media filo israeliani”, sottolineando che i droni sono stati abbattuti senza causare danni o vittime.

“La nostra prossima risposta sarà immediata e ai massimi livelli nel caso in cui il regime di Israele si imbarchi nuovamente in avventurismo e intraprenda azioni contro gli interessi dell’Iran”, ha ribadito Amirabdollahian, affermando che un eventuale risposta “decisiva e definitiva” contro Israele è già stata pianificata nel dettaglio dalle forze armate iraniane. La responsabilità di Israele è stata comunque indicata da figure politiche minori. Come il deputato Mehdi Toghyani, secondo cui “il disperato tentativo del regime sionista, con l’aiuto di agenti locali, di portare avanti un attacco con vari piccoli droni contro una base militare di Isfahan è fallito e ha portato loro ulteriore disgrazia”. Più cauto Javad Zarif, l’ex ministro degli Esteri e negoziatore per Teheran all’epoca dell’accordo sul nucleare del 2015, che ha chiesto alla comunità internazionale di fermare Israele “alla luce degli imprudenti fuochi d’artificio di Isfahan”.

Nessun commento sull’attacco da Khamenei, come anche da parte del presidente Ebrahim Raisi, che ha completamente ignorato i fatti di Isfahan durante un’apparizione pubblica a Damghan, nella provincia settentrionale di Semnan. “Questa operazione ha dimostrato l’autorità del sistema della Repubblica Islamica e la potenza delle nostre forze armate”, ha detto il presidente iraniano tornando a parlare della ritorsione di Teheran contro Tel Aviv per il raid di Damasco.

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