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Esteri

Johnson si scusa con la regina per i party ma ora trema

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Mentre la fanfara reale si preparava a suonare per le esequie del principe Filippo in un seminterrato di Downing Street, una trentina di membri dello staff di Boris Johnson, incluso il suo ex portavoce James Slack, ballavano spensierati e bevevano fino a tardi incuranti del lutto nazionale, della bandiera a mezz’asta che svettava sopra la residenza del primo ministro britannico e soprattutto delle restrizioni anti-Covid vigenti allora. E’ l’ultimo capitolo del party-gate, ormai diventato saga di scandali e che e’ costato le ennesime scuse da parte del primo ministro, questa volta pero’ rivolte alla regina Elisabetta che il 17 aprile scorso, il giorno dopo i bagordi dei funzionari al n.10, con la sua consueta compostezza piangeva da sola il marito scomparso rispettando le regole di distanziamento in vigore. E’ probabile che il leader Tory porga le sue scuse di persona alla sovrana nel corso del loro prossimo incontro privato. Affronto ‘reale’ e ceneri cosparse sul capo dei personaggi coinvolti (come Slack) a parte, Johnson trema per la sua posizione sempre piu’ difficile da tenere fra la raffica di nuove richieste di dimissioni dalle opposizioni e le trame interne al suo partito conservatore. Un suo portavoce ha comunicato ai media il mea culpa ufficiale nei confronti di Buckingham Palace. “E’ del tutto deplorevole che cio’ sia avvenuto in un momento di lutto nazionale”, ha detto riferendosi ai ben due party di addio che si sono svolti il 16 aprile, quello del portavoce uscente del primo ministro, ora vicedirettore del Sun, e l’altro di un fotografo di Downing Street. Il portavoce ha poi in pratica ribadito quanto affermato dal premier alla Camera dei Comuni mercoledi’, quando si e’ scusato per la serie di accuse per gli eventi al centro del party-gate e ha rimandato all’inchiesta indipendente avviata proprio per far luce su questi casi. Tutto questo non puo’ che accrescere ulteriormente la pressione su Boris, che almeno non era presente a nessuno dei due nuovi eventi incriminati, mentre si allunga la lista dei deputati Tory che ne chiedono le dimissioni. Sono arrivati a cinque, dopo che anche Andrew Bridgen ha invocato un cambio di leader. Hanno inviato una lettera per la sfiducia di Johnson ma ne servono 54 (su un totale di 360 parlamentari) per avviare la sfida al vertice come prevede il regolamento del Comitato 1922, l’organismo interno al gruppo parlamentare Tory. Intanto il Consiglio dei ministri, almeno in apparenza, sembra ancora fare quadrato attorno al premier. Oggi la ministra degli Esteri, Liz Truss, percepita come una possibile candidata alla successione di BoJo, ha dichiarato di sostenerlo “al 100%”. L’altro potenziale sfidante, il Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, continua invece a mantenere un profilo piuttosto basso. Molti dentro il partito aspettano come possibile resa dei conti l’inchiesta sul party-gate che di giorno in giorno si arricchisce di nuovi elementi. Nel pomeriggio si e’ fatta avanti anche Kate Josephs, l’ex responsabile della task force governativa anti-Covid, che si e’ scusata per un altro party di addio, in questo caso nella sede del Cabinet Office a Whitehall, quando ha lasciato il suo posto il 17 dicembre del 2020, in periodo di lockdown. Messo alla corde, Johnson pero’ starebbe preparando una sorta di contrattacco su piu’ fronti. Si parla infatti di un’epurazione interna di consiglieri e funzionari coinvolti nello scandalo, a partire da Martin Reynolds, il capo della segreteria personale del primo ministro, autore della email con cui si invitava un centinaio fra funzionari e collaboratori all’evento del 20 maggio 2020 nel giardino di Downing Street, con tanto di indicazione a portarsi l’alcol. Il premier punta poi a lasciarsi alle spalle l’incubo Covid, probabilmente eliminando gia’ a fine mese le restrizioni previste dal piano B, come il green pass introdotto in Inghilterra un mese fa solo per gli ingressi alle discoteche e agli eventi di massa, e lanciando, grazie a dati su contagi, morti e ricoveri in diminuzione, la strategia per trattare il coronavirus non piu’ come una pandemia ma come un’endemia con la quale convivere senza piu’ misure troppo limitanti e condizioni di emergenza.

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Media, miliziani filo-iraniani uccisi in raid aereo in Siria

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Tre miliziani affiliati ai Pasdaran iraniani sono stati uccisi in un raid aereo al confine tra Siria e Iraq. Lo riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, secondo cui un drone armato non meglio identificato, ha bombardato un veicolo nei pressi della località frontaliera di Abukamal, vicino all’Iraq, uccidendo sul colpo un miliziano iracheno e altri due siriani.

Le fonti attribuiscono l’azione o agli Stati Uniti o a Israele, interessati a contrastare la presenza delle forze filo-iraniane in Medio Oriente. Nella regione siriana sud-orientale di Dayr az Zor e Mayadin, di cui fa parte Abukamal, operano da anni le milizie sciite jihadiste irachene sostenute dai Guardiani della Rivoluzione iraniana (Pasdaran), coordinati dagli Hezbollah libanesi. Nel contesto della guerra regionale accesasi in concomitanza con il conflitto a Gaza, queste forze filo-Teheran hanno condotto decine di attacchi contro basi militari Usa tra Siria e Iraq. E Israele ha compiuto numerosi attacchi su obiettivi di Hezbollah in Siria.

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Israele convoca ambasciatore Spagna dopo commenti Sanchez

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Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha ordinato al ministro degli Esteri Eli Cohen di convocare l’ambasciatore spagnolo in Israele in seguito ai commenti fatti oggi dal primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, il quale ha dichiarato in un’intervista alla televisione spagnola di avere “seri dubbi che [Israele] rispetti il diritto internazionale umanitario” e che “ciò che stiamo vedendo a Gaza non è accettabile”. La settimana scorsa, Israele ha convocato gli ambasciatori in Spagna e Belgio in seguito ad altri commenti fatti dai rispettivi premier durante la loro visita al valico di frontiera di Rafah in Egitto.

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Esteri

E’ morto Henry Kissinger, il Machiavelli d’America

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Si è spento nella sua casa in Connecticut l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger che lo scorso maggio aveva spento 100 candeline. Autore della celebre frase “il potere è il massimo afrodisiaco”, l’eredità del machiavellico statista continuerà ad essere discussa tra chi lo considera un genio diplomatico e chi un genio del male. Astuto manipolatore e influente fino agli ultimi giorni, per l’ex quindicenne ebreo in fuga dall’Europa alla vigilia della Seconda guerra mondiale il mondo era un gigantesco puzzle in cui ogni pezzo giocava un ruolo importante e distinto verso un unico fine: gli Usa come superpotenza internazionale anche al prezzo di interventi di realpolitik sullo scacchiere mondiale giudicati da molti brutali ed illegittimi, come il bombardamento e l’invasione della Cambogia e il sostegno al colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile del 1973 che defenestrò Salvador Allende.

In queste ultime settimane, dallo scoppio della guerra a Gaza, Kissinger non è mai intervenuto pure essendo stato uno dei protagonisti del conflitto del Kippur che vide Israele vincitrice nel 1973. Tra i suoi ultimi impegni pubblici, un incontro nella residenza a Washington dell’ambasciatrice italiana Mariangela Zappia con la premier Giorgia Meloni lo scorso luglio. Nello stesso mese Kissinger incontrò a Pechino il presidente Xi Jinping e alti funzionari del Partito comunista cinese. Per il politologo Robert Kaplan, Kissinger è stato il più grande statista bismarckiano del Ventesimo secolo.

Con un occhio attento anche sull’Italia, di cui Kissinger, amico intimo di Gianni Agnelli, apprezzava il ruolo nel Patto atlantico pur avendo il Partito comunista più potente d’Occidente. In occasione del suo centesimo compleanno sul Washington Post, il figlio David, interrogandosi sulla eccezionale vitalità fisica e mentale di un uomo che ha seppellito ammiratori e detrattori a dispetto di una dieta a base di bratwurst e Wiener schnitzel, individuò la ricetta nell’inesauribile curiosità paterna per le sfide esistenziali del momento: dalla minaccia delle atomiche negli anni ’50 all’intelligenza artificiale su cui due anni fa scrisse il penultimo libro, ‘The age of Ai: and our human future’, a cui ha fatto seguito ‘Leadership: Six studies in world strategy’. Da bambino, si diceva, era troppo timido per parlare in pubblico.

Straniero nella nuova patria dopo la fuga dalla Germania nel 1938, Heinz divenne Henry e imparò a esprimersi in perfetto inglese conservando sempre l’accento tedesco. Si fece largo prima a Harvard, poi a Washington, fino a raggiungere, complice Nelson Rockefeller, il tetto del mondo al servizio di due presidenti: Richard Nixon e, dopo il Watergate, Gerald Ford. Kissinger concentrò nelle sue mani ogni negoziato, rendendo superfluo il lavoro della rete diplomatica: dalla prima distensione verso l’Urss al disgelo con la Cina, culminato nel viaggio di Nixon a Pechino. Gli accordi di Parigi per il cessate il fuoco in Vietnam dopo quasi 60 mila morti Usa gli valsero un controverso premio Nobel per la Pace: due giurati si dimisero per protesta. Kissinger fu di fatto un presidente ombra, anche se la scrivania dell’Ufficio ovale restò sempre per lui un miraggio impossibile per il fatto di non essere nato negli Usa.

La sconfitta di Ford e l’elezione del democratico Jimmy Carter segnarono la fine della sua carriera pubblica, non dell’impegno in politica estera attraverso gruppi come la Trilaterale. Dopo aver lasciato il governo nel 1977, Kissinger fondò il celebre studio di consulenza Kissinger Associates, attraverso la cui porta girevole passarono ministri e sottosegretari e i cui clienti erano governi mondiali grandi e piccoli. Ed è stato proprio il suo studio a dare la notizia della sua morte.

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