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Johnson si salva dalla sfiducia, ma è un’anatra zoppa

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 Un’anatra zoppa, anche se non ancora un’anatra abbattuta. Boris Johnson si e’ salvato dal voto di sfiducia contro la sua leadership in seno al Partito conservatore britannico e puo’ per il momento restare sulla poltrona di primo ministro, ma ha pagato stasera dazio fra i deputati della propria maggioranza per i malumori crescenti innescati dal cosiddetto Partygate, lo scandalo dei ritrovi organizzati a Downing Street fra il 2020 e il 2021 in violazione delle restrizioni anti Covid imposte all’epoca dal governo a milioni di britannici: scandalo che lo ha poi visto multato in prima persona dalla polizia e che sta penalizzando duramente i Tories nei sondaggi come nei test elettorali di questi mesi. Lo scrutinio segreto sul suo destino immediato, consumato in 2 ore di votazione fra i 359 deputati della super maggioranza conquistata alla Camera dei Comuni nel dicembre 2019, ha decretato una vittoria mutilata: 211 voti a favore, ma ben 148 ostili. Un salasso, se si considera che la fiducia di un centinaio di grandi elettori appariva blindata in partenza, trattandosi di ministri, sottosegretari o titolari d’incarichi governativi junior “a libro paga” del suo gabinetto. “L’inizio della fine”, addirittura, secondo alcuni commentatori, che notano come il dissenso sia stato in proporzione superiore a quello inflitto nel 2018 a Theresa May, che pure se la cavo’, ma dovette dimettersi 5 mesi dopo; o a Margaret Thatcher, che nel 1990 – offesa dal tradimento di piu’ franchi tiratori di quanto non si aspettasse – getto’ alla fine la spugna nel giro di poche ore. Il voto era divenuto inevitabile in base allo statuto Tory dopo il raggiungimento del quorum di almeno 54 lettere di sfiducia (il 15% del totale del gruppo attuale) affidate al Comitato 1922, l’organismo parlamentare interno che da un secolo sovrintende alle rese dei conti di un partito tradizionalmente spietato nel cesaricidio. Una svolta annunciata oggi da sir Graham Brady, il deputato che presiede questo sinedrio. Ma comunicata fin da ieri da Brady a BoJo a margine della conclusione trionfale del Giubileo di Platino dei 70 anni sul trono della 96enne Elisabetta II (sotto il cui scettro sono gia’ passati 14 primi ministri): con la massima cura a non formalizzare nulla sino alla fine dei festeggiamenti per non strappare i riflettori a Sua Maesta’, dopo che il primo ministro era stato gia’ fischiato dalla gente in occasione di uno degli eventi della celebrazione. Johnson, forte della nomea di “survivor” della politica britannica, ha provato comunque a fare buon viso a cattivo gioco. Ha fatto dire a una portavoce di sentirsi sollevato da una conta in grado se non altro di “offrire l’occasione di porre fine a mesi di congetture e di permettere al governo di mettere un punto (sul Partygate) per passare a occuparsi delle vere priorita’ della popolazione”. Ha preso atto del sostegno pubblico – piu’ o meno convinto – di tutti i suoi ministri di punta (inclusi coloro che vengono indicati dai media come potenziali aspiranti a succedergli, dalla titolare degli Esteri, Liz Truss, a quello della Difesa, Ben Wallace). Ha lasciato che i fedelissimi replicassero a muso duro quelle che egli stesso ha poi definito “le insensate polemiche fratricide” di ribelli di primo piano come l’ex ministro ed ex rivale per la leadership, Jeremy Hunt. Ha ignorato per un giorno gli attacchi dell’opposizione laburista di Keir Starmer. Ha incassato le lodi a orologeria di Volodymyr Zelensky e di altri leader dell’Europa orientale che lo identificano come capofila della sfida alla Russia di Vladimir Putin in Occidente, nel pieno della guerra in Ucraina. E soprattutto ha affrontato direttamente la fossa dei leoni dei deputati del suo gruppo per sollecitarli a non dimenticare “la piu’ grande vittoria elettorale degli ultimi 40 anni” conseguita sotto la sua guida nel 2019, la realizzazione della Brexit, i successi della campagna vaccinale contro il Covid; e a ritrovare l’unita’ necessaria a prendere di petto le crisi del presente, inflazione in primis. Il risultato e’ stato tuttavia un voto spaccato. Una fiducia piu’ risicata del previsto, macchiata dalle bocciature di decine di deputati di ogni orientamento – moderati o brexiteer, veterani o esordienti – incluse le pugnalate in extremis di vecchi johnsoniani come Jesse Norman o di personalita’ sopra le parti come il dimissionario zar anti corruzione John Penrose: il quale gli ha rinfacciato apertamente l’accusa di aver violato l’integrita’ degli standard ministeriali (ossia d’aver mentito) sul Partygate. Parole che non promettono nulla di certo per il futuro di Boris, a dispetto dell’anno di grazia contro ogni ulteriore tentativo di sfiduciarlo che dopo un voto superato le norme di casa Tory gli garantiscono. Norme peraltro modificabili, ha gia’ avvertito Brady.

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La strage dei neonati, si allarga l’inchiesta dopo la condanna della infermiera

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Si allargano anche alle possibili negligenze dei vertici della struttura sanitaria locale le indagini idella polizia britannica sulla “strage di neonati” del Countess of Chester Hospital: l’ospedale del nord dell’Inghilterra in cui un’infermiera addetta al reparto maternità fece morire – deliberatamente secondo le accuse – 7 neonati fra il 2015 e il 2016, esponendo a sovradosaggi di farmaci almeno altri 6, per motivi deliranti che in parte restano oscuri. Il primo capitolo della vicenda si è chiuso nell’agosto scorso con la condanna all’ergastolo dell’ex infermiera 33enne Lucy Letby, ribattezzata dai tabloid “la nurse killer del Chestershire”. Mentre è di oggi l’ufficializzazione della notizia dell’apertura formale di un secondo fascicolo parallelo da parte della polizia della contea sull’ipotesi di reato di complicità in omicidio colposo plurimo a carico di responsabili dell’ospedale o di figure addette sulla carta alla sorveglianza in seno al servizio sanitario nazionale (Nhs). Figure al momento non identificate. Il sovrintendente detective Simon Blackwell ha sottolineato che le verifiche riguarderanno anche i massimi vertici dell’epoca della struttura, precisando che esse sono tuttavia “a uno stadio iniziale”. E che quindi non vi sono per ora specifici individui nel registro degli indagati.

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Ricatto di Saied, l’arma dell’invasione per i fondi

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Saied presidente Tunisia

Un gioco al rialzo o rivendicazioni a uso e consumo interno? Il presidente tunisino Kais Saied ha rifiutato un primo assegno da 127 milioni dell’Unione europea, bollandolo come “elemosina”, con un rigurgito – almeno all’apparenza – di anticolonialismo. O, piuttosto, per alzare la posta, brandendo la minaccia dell’invasione di migliaia di migranti pronti a salpare da Sfax verso le coste italiane. Con un duplice obiettivo: ricevere una somma più alta, sul modello dell’accordo da 6 miliardi di euro raggiunto dall’Ue con la Turchia di Erdogan nel 2016 per chiudere i rubinetti della rotta balcanica; e riuscire ad ottenere i 900 milioni di assistenza macrofinanziaria previsti dal memorandum del luglio scorso, sganciandoli dai quasi 2 miliardi che l’Fmi tiene bloccati in attesa di riforme. Riforme che Saied – che dal 2021 si presenta come nuovo autocrate del Nord Africa – non sembra intenzionato nemmeno ad avviare.

La Commissione europea aveva annunciato nei giorni scorsi di aver stanziato i 127 milioni da versare “rapidamente” a Tunisi. Bruxelles aveva precisato che si trattava di 67 milioni per combattere l’immigrazione illegale (i primi 42 milioni dei 105 milioni di aiuti previsti dal memorandum firmato due mesi fa e altri 24,7 milioni nell’ambito di programmi già in corso) e 60 milioni legati al sostegno del bilancio tunisino. Ma Saied ha bloccato tutto: “La Tunisia accetta la cooperazione, ma non accetta nulla che somigli a carità o favore, quando questo è senza rispetto”, ha dichiarato il presidente dopo aver rinviato e sospeso nei giorni scorsi anche le visite delle delegazioni europee, prima parlamentare e poi della Commissione. Questo rifiuto, ha tenuto a sottolineare Saied, “non è dovuto all’importo irrisorio ma al fatto che questa proposta va contro” l’accordo firmato a Tunisi e “lo spirito che ha prevalso durante la Conferenza di Roma” di luglio, “iniziativa avviata da Tunisia e Italia”.

“Non abbiamo capito ancora cosa volesse dire Saied. Non abbiamo avuto la trascrizione e stiamo lavorando per avere più informazioni”, ha ammesso un alto funzionario Ue, intuendo però che il tunisino “avrebbe preferito più aiuti” rispetto alla prima tranche. Sullo stato dell’intesa la fonte ha ricordato che il Consiglio “non è stato coinvolto” nei negoziati. Ma, ha sottolineato, “non possiamo dire che il Memorandum sia un fallimento”. E se anche a Bruxelles l’intesa con Tunisi trova un ostacolo nelle diverse posizioni dei 27, preoccupa lo stato dei diritti umani nel Paese, dove la democrazia sognata dalla rivoluzione dei Gelsomini è ormai naufragata e dove lo stesso Saied ha di fatto aizzato una caccia al migrante subsahariano, ormai poco tollerato da una popolazione alle prese con una grave crisi economica e alimentare.

Resta il fatto che l’Europa e l’Italia non possono fare a meno di lavorare con la Tunisia per arginare gli sbarchi che rischiano di mettere in crisi l’Unione e il suo futuro dopo le elezioni di giugno. E Saied lo ha capito, rilanciando ogni giorno, non solo per sedare le tensioni interne ma anche e soprattutto per spingere l’Europa, di fronte ad una crisi migratoria senza precedenti, a fare pressione su Washington per lo sblocco degli 1,9 miliardi del Fondo Monetario Internazionale.

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La Camera destituisce lo speaker, prima volta negli Usa

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La Camera ha approvato la mozione per destituire lo speaker repubblicano Kevin McCarthy, facendo precipitare il Capitol nel caos e nell’incertezza. E’ la prima volta nella storia Usa. A proporre la mozione il deputato del suo partito Matt Gaetz, un fedelissimo di Donald Trump ed esponente di una fronda parlamentare alla Camera legata al tycoon.

La votazione si è conclusa con 216 voti a favore e 210 no. Otto repubblicani hanno votato contro McCarthy. Quest’ultimo ora dovrà indicare il suo sostituto provvisorio sino all’elezione di un nuovo speaker, passaggio che non sarà certo facile e che rischia di paralizzare il Congresso proprio quando deve negoziare la prossima legge di spesa.

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