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Cinema

Jean-Paul Belmondo, l’attore che visse sette volte

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Se fosse vero l’antico proverbio giapponese per il quale si vive solo due volte, la prima quando si nasce e poi quando si guarda la morte in faccia, Jean-Paul Belmondo (classe 1933) avrebbe superato questo traguardo e fino a questo settembre pieno di luce si sarebbe guadagnato una sorta di immortalita’ artistica la cui luce non si spegne oggi, mentre le agenzie annunciano la sua scomparsa. Il piu’ grande divo francese della sua generazione, unico a spartire con Alain Delon il trono che era stato di Jean Gabin e Gerard Philippe, poteva dire di se’ di aver vissuto una vita intera alla luce del successo e di aver avuto anche molto di piu’. Agile come un gatto nella vita e sul set, aveva nella sua faretra almeno sette vite diverse da vivere e le ha sperimentate tutte con una sete insaziabile di consumarle fino in fondo una ad una. Nel 2001 era stato colpito da un ictus e per otto anni si era nascosto al mondo, rifiutando ogni apparizione pubblica. Poi, con incrollabile forza di volonta’ si era ripreso, dando il via a una nuova fase della vita, idealmente sancita nel 2011 dalla consegna della Palma d’oro alla carriera a Cannes.

Gli ultimi regali se li era fatti nel 2003 con la nascita di una bambina, Stella, avuta dalla seconda moglie Natty Tardivel e cinque anni dopo con l’ultimo film, “Un uomo e il suo cane” di Francis Huster (2008), quasi una metafora della sua vecchiaia con la dolente rilettura del capolavoro neorealista “Umberto D”. Nato a Neuilly sur Seine, alle porte di Parigi, aveva sangue italiano nelle vene giacche’ il padre era uno scultore di buona fama, Paolo Raimondo. Dopo un esordio a teatro, Belmondo si fa apprezzare come ‘jeune premier’ in ‘Peccatori in Blue Jeans’ di Marc Allegret (1958), ma da’ anche fiducia al giovanissimo Claude Chabrol che lo dirige in ‘A doppia mandata’ (1959). Comincia da li’ il suo percorso parallelo con Alain Delon che sta folgorando il pubblico grazie al successo di ‘Delitto in pieno sole’ (regia di Rene’ Clement). Ma ‘Bebel’ (cosi’ si fa chiamare per sottolineare il suo stile stravagante e canzonatorio) e’ rapido a cambiare registro affidandosi a Jean-Luc Godard che lo vuole protagonista di ‘Fino all’ultimo respiro’ (1960) e poi di ‘Pierrot le fou’ (1965). Lavorare con il maestro indiscusso della Nouvelle Vague rappresenta per Belmondo una sfida: deve tenere insieme i canoni della recitazione classica e il loro stravolgimento. E ci riesce, contribuendo da solo all’inatteso successo commerciale dei due film. Rispetto a Delon, di due anni piu’ giovane, Bebel ha il vantaggio dell’innata simpatia comunicativa, un bel naso schiacciato da boxeur fallito, una naturale predisposizione a stupire, tanto il suo ‘gemello’ gioca invece la carta del bel tenebroso, divorato da dilemmi interiori. Hanno esordito (o quasi) con lo stesso maestro, Yves Allegret, hanno flirtato entrambi con la nouvelle vague, hanno successo con le donne e con gli spettatori, si dividono il campo come Coppi e Bartali. In qualche modo li accomuna anche l’Italia, giacche’ entrambi vengono adottati – molto giovani – dal nostro cinema. Ed ecco allora Belmondo vestire i panni di Michele ne ‘La ciociara’ di Vittorio De Sica e poi di Amerigo ne ‘La viaccia’ di Mauro Bolognini (1961). Ma e’ sul mercato francese e, in particolare, nel cinema poliziesco (il polar) che combatte la grande battaglia per la popolarita’ con Delon. Belmondo recita con Claude Sautet in ‘Asfalto che scotta’ (1960), ‘Quello che spara per primo’ di Jean Becker (1961), ‘Quando torna l’inverno’ di Henri Verneuil (1962), fino a ‘Lo spione’ del maestro Jean Pierre Melville, lo stesso che portera’ a vette assolute Delon in ‘Frank Costello’. Il sodalizio con Melville dura tre film e da’ a Belmondo tutti i ‘quarti di nobilta” di cui ha bisogno presso la critica. Ma il giovane mattatore vuole il gran successo popolare. Per questo, in una sorta di terza vita artistica, si affida a Philippe de Broca e interpreta ‘L’uomo di Rio’ (1964), cocktail di commedia gialla, film d’avventura, parodia di generi in voga: Bebel recita a velocita’ supersonica, compie peripezie spericolate da stuntman (fino in tarda eta’ non vorra’ mai una controfigura) e conquista i francesi. Conquista anche il riottoso Delon che si rassegna all’idea di far coppia col suo rivale. Avverra’ nel 1970 con ‘Borsalino’, successo planetario e inizio di una quarta fase nella carriera di Belmondo che intanto ha lavorato con tutti i registi piu’ apprezzati e popolari, da Claude Lelouch a Francois Truffaut (‘La mia droga si chiama Julie’) e ha coniato una coppia di sicura simpatia con la perfetta ‘spalla’ Lino Ventura . Belmondo si e’ sposato due volte (con la ballerina Elodie che gli ha dato tre figli e l’ultima compagna Natty), legandosi anche a lungo con Laura Antonelli. Sul set raccoglie l’eredita’ di Gerard Philippe interpretando eroi acrobatici e romantici, quella di Jean Gabin incarnando lo spirito francese piu’ nazionalista e orgoglioso, di Yves Montand regalandosi ampie licenze tra cinema e teatro. Nel 1974 sente di nuovo il richiamo del cinema d’autore e accetta la parte del truffatore Stavisky nel raffinato film omonimo di Alain Resnais. Non rinuncia ai ruoli che hanno fatto la sua carriera e ai registi-complici di sempre (Gerard Oury, Philippe Labro, Henri Verneuil, Jacques Deray, Georges Lautner), ma cerca altro. In teatro ripassa tutti i grandi classici, veste perfino i panni del mattatore Kean e aspira a un finale di carriera da ‘padre nobile’, guadagnandosi intanto il Premio Cesar come miglior attore nel 1989 per ”Una vita non basta” di Claude Lelouch. Oggi e domani la Francia e la Repubblica mondiale del cinema non lo dimenticheranno: il gatto continuera’ a saltare sui tetti dell’immaginario e sara’ un Re anche nel pantheon dell’arte.

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Oppenheimer sbanca agli Oscar, il film su papà della bomba atomica fa incetta di premi

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‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan sbanca gli Oscar: la pellicola porta a casa 7 statuette su 13 candidature, ma tutte le piu’ importanti – film, regia, attori maschili protagonista e non protagonista – e aggiunge premi prestigiosi a quello gia’ assegnato dal pubblico. Basato sul libro vincitore del premio Pulitzer ‘American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer’ di Kai Bird e Martin J. Sherwin, frutto di due decenni di ricerche, il film di Christopher Nolan parla di una delle figure piu’ geniali e controverse del XX secolo considerato il padre della bomba atomica.

In ‘Oppenheimer’ Nolan racconta in un film di tre ore, per meta’ in bianco e nero che ha incassato quasi un miliardo di dollari (958 milioni), la parabola e i dilemmi morali del grande fisico che fu a capo del Progetto Manhattan, attivato in gran segreto dagli Usa nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, mentre le sorti del conflitto sembravano ancora favorire al Germania nazista. Il governo americano scelse il brillante scienziato, nato nel 1904 da genitori tedeschi di origini ebraiche, a capo del team riunito nei laboratori di Los Alamos, nel deserto del New Mexico. Un grande organizzatore, carismatico e competente, che paradossalmente fu ‘perseguitato’ fin dall’inizio della sua missione da sospetti di tradimento per le sue simpatie per il comunismo.

Nel suo team il regista inglese ha voluto alcuni collaboratori storici che, come lui, tornano a casa con l’Oscar: i produttori Emma Thomas e Charles Roven, il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, con cui gia’ aveva girato ‘Interstellar’, ‘Dunkirk’ e ‘Tenet’. E Jennifer Lame per il montaggio e il compositore Ludwig Goransson (gia’ Oscar per ‘Black Panther’).
Oltre al neo premio Oscar Cillian Murphy, ‘Oppenheimer’ ha un grande cast, a partire da Robert Downey Jr. (anche lui premiato con l’Oscar) nei panni del capo della Atomic Energy Commission, Lewis Strauss.

Poi Emily Blunt nella parte della moglie del fisico, Matt Damon in quelli del generale che diresse il Progetto Manhattan, Leslie Groves, e Florence Pugh nei panni di Jean Tatlock, l’amante dello scienziato, oltre a Gary Oldman nel ruolo del presidente Harry Truman (poco piu’ di un cameo, ma davvero magnifico) e Kenneth Branagh in quello di Niels Bohr, il padre della fisica quantistica.

Nel suo film, Christopher Nolan traccia un ritratto a volte un po’ didascalico e non privo di qualche inesattezza o omissione (il rapporto con Albert Einstein un po’ esagerato e quello con Enrico Fermi troppo sottovalutato) di Robert Oppenheimer, unica persona, il solo scienziato, in grado secondo il generale di brigata Leslie Groves che lo scelse come direttore del laboratorio della bomba di motivare gli scienziati di Los Alamos e di farsi seguire nel progetto forte del suo carisma e della sua tenacia. Oppenheimer colpi’ il generale per l’ampiezza delle sue conoscenze e, soprattutto, per quella che Groves considerava la sua praticita’. Piu’ di ogni altro scienziato con cui il generale aveva parlato, Oppenheimer sembrava capire cosa bisognava fare per passare da teorie astratte ed esperimenti di laboratorio alla realizzazione di una bomba nucleare.

Una cosa che tra tutti aveva capito forse il solo generale Groves che difese sempre Oppenheimer dagli attacchi di Fbi, servizi segreti e fanatici anticomunisti che ne chiedevano la sostituzione. Groves sapeva bene che Oppenheimer era un uomo eccezionale perfette per guidare il laboratorio. Non si trattava solo di un problema di fisica, infatti, bisognava realizzare un’impresa ingegneristica senza precedenti, che doveva progredire mentre si stavano ancora risolvendo i problemi teorici di base.

 

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Addio a Paolo Taviani, con Vittorio rigore e impegno civile

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Rigore e impegno civile: questa la cifra dei Taviani, la coppia più affiatata di tutte, quei fratelli toscani che scesero a Roma negli anni ’50 per cambiare il mondo e riuscirono a cambiare il cinema italiano. Dopo la scomparsa di Vittorio, il 15 aprile 2018, se ne va oggi a 92 anni, nella clinica villa Pia di Roma, dopo una breve malattia, anche Paolo. Lunedì 4 marzo la cerimonia laica funebre alla Promototeca del Campidoglio, dalle 10 alle 13. Il suo ultimo film, in solitario, “Leonora addio”, presentato in concorso a Berlino nel 2022, segue il rocambolesco viaggio delle ceneri di Pirandello, da Roma ad Agrigento, a quindici anni dalla sua morte: “Siamo cresciuti insieme io e Vittorio e sempre lavorando”, ha raccontato Paolo in quella occasione.

“Sento ancora dietro di me il suo fiato. Anche a lui piaceva molto il set e mi ricordo ci litigavamo le scene, quando toccava a me e avevo finito di girare cercavo la sua approvazione e confesso l’ho fatto anche adesso in questo primo film senza di lui”. Quel suo ultimo film lo ha voluto in bianco e nero, come in un ideale ritorno agli esordi di quel cinema, firmato Paolo & Vittorio Taviani, che fin dagli anni ’50 ha tracciato un’ideale linea di confine tra il magistero del Neorealismo e un nuovo cinema realista, volutamente ideologico e poetico insieme. Nati a San Miniato, vicino a Pisa, da una famiglia borghese, con padre avvocato e antifascista, i Fratelli Taviani arrivano a Roma con un’idea ben chiara nella testa: fare il cinema, suggestionati dalla scoperta di “Paisà” (Rossellini è il maestro dichiarato), emozionati da “Ladri di biciclette”.

“Quando il film uscì – ha raccontato Paolo – fu un altro innamoramento, e come in ogni innamoramento la fidanzata la si vuole vicina. Ma in provincia i film appaiono e si dileguano, i film italiani in particolare in quegli anni. E noi due l’abbiamo inseguito, quel film, in bicicletta, in treno, da Pisa a Pontedera a Livorno a Lucca. L’abbiamo visto e rivisto perché avevamo deciso di riscrivere a memoria la sceneggiatura, con i dialoghi, i carrelli, gli stacchi: volevamo possedere quel linguaggio”.

Ma sono modelli che poi si sono trasformati in consapevolezza interiore, tanto che i due fratelli hanno sempre negato di avere un solo riferimento e di amare soprattutto il confronto con la letteratura; anche la collaborazione con Valentino Orsini (al loro fianco all’esordio) e con il produttore più fedele (l’ex partigiano Giuliani De Negri) è sempre stato più un confronto ideologico che una guida estetica. Dal sodalizio sono nati film che hanno segnato la storia del cinema come il profetico “Sovversivi” sulla fine della fiducia cieca nel comunismo reale e il visionario “Sotto il segno dello scorpione” a cavallo con la repressione in Cecoslovacchia; hanno anticipato il fallimento dell’utopia rivoluzionaria attingendo alla storia del Risorgimento con “San Michele aveva un gallo” e “Allosanfan”. Nel 1977 hanno vinto la Palma d’oro con “Padre padrone” e otto anni dopo trionfano ancora a Cannes con il loro più grande successo, “La notte di San Lorenzo” (Premio speciale della giuria). È dell’84 il loro incontro con Pirandello e le novelle di “Kaos” seguito nel ’98 da “Tu ridi”; nel 2012 dopo una lunga parentesi che li ha visti confrontarsi con il racconto televisivo, hanno vinto il Festival di Berlino con “Cesare deve morire”.

L’ultima collaborazione è del 2017 con “Una questione privata” che Paolo dirige da solo, mentre il fratello Vittorio è costretto a rimanere a casa per la malattia che lo avrebbe portato via pochi mesi dopo. Da allora Paolo Taviani si è definito “un mezzo regista” perché metà di lui non c’era più sul set, si sentiva “un impiegato del cinema perché in fondo – spiegava – Vittorio ed io lavoriamo da sempre con certe regole e un certo ritmo, magari nel tempo rallentato dall’età che avanza ma sempre guidato da un rigore di fondo come quello degli impiegati di una volta. I film cambiano, io molto meno e continuo a pensare che facciamo questo mestiere perché se il cinema ha questa forza, di rivelare a noi stessi una nostra stessa verità, allora vale la pena di metterci alla prova”. Con oltre venti film alle spalle (senza contare documentari, pubblicità e qualche corto disperso come l’ultimo episodio di “Tu ridi”) altrettanti premi maggiori e un Leone d’oro alla carriera (nel 1986), i due fratelli hanno dimostrato che passione, costanza, rigore e fedeltà al reale possono essere premiati.

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Alessandro Magno è gay? La Grecia contro Netflix

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La Grecia è scesa in campo contro Netflix per un docudrama britannico su Alessandro Magno che suscita controversie sulla rappresentazione della relazione tra il grande condottiero macedone e il suo generale Efestione come un amore omosessuale. Lina Mendoni, ministra della Cultura del governo di Atene, ha bollato la serie televisiva “Alexander, the making of a god” (Alessandro, la creazione di un dio) come “una fiction di qualità estremamente bassa e pessimo contenuto, piena di inesattezze storiche”. Riguardo alla descrizione dei due protagonisti come gay, Mendoni ha sottolineato che “non c’è alcuna menzione nelle fonti dell’epoca di un rapporto che vada oltre l’amicizia”.

La questione è giunta al dibattito in Parlamento, dove Dimitris Natsiou, presidente di Niki, un partito cristiano ortodosso greco di estrema destra, ha condannato il serial come “deplorevole, inaccettabile, antistorico”, sostenendo che “l’obiettivo subliminale è dare un’idea dell’omosessualità come perfettamente accettabile nei tempi antichi, una tesi priva di basi”.

Sulle questioni sollevate dalle rappresentazioni storiche e sessuali della serie, gli specialisti offrono opinioni divergenti. Il professor Lloyd Llewellyn-Jones, docente di storia antica all’università di Cardiff, sostiene che “le relazioni fra persone dello stesso sesso erano decisamente la norma attraverso tutto il mondo greco”. Viceversa, Thomas Martin, docente di storia greco-romana al College of the Holy Cross, Massachusetts, nota che Omero non ha mai identificato Alessandro ed Efestione come amanti nell’Iliade, benché tale interpretazione sia stata avanzata successivamente.

Mentre alcuni esperti, come Martin e Christopher Blackwell della Furman University, ritengono che i rapporti omosessuali non fossero diffusi al tempo di Alessandro il Macedone, altri come Robin Lane Fox di Oxford sostengono che l’amore tra uomini non fosse fuori dalla norma. Tuttavia, tutti concordano sul forte legame tra Alessandro e il generale, testimoniato dalla testimonianza dei contemporanei.

La ministra Mendoni riconosce la complessità del concetto di amore nell’antichità ma respinge l’idea di intraprendere azioni contro Netflix, affermando che “non è compito del governo censurare, sull’arte ognuno può avere diverse opinioni”.

Questa controversia non è isolata: l’anno scorso, il ministro delle antichità egiziano criticò Netflix per la scelta di far interpretare Cleopatra da un’attrice nera nella serie “Queen Cleopatra”. Inoltre, la serie “The Crown” è stata oggetto di polemiche per presunte distorsioni storiche nella rappresentazione della famiglia reale inglese.

La discussione su come rappresentare accuratamente la storia attraverso i mezzi di intrattenimento continua a sollevare domande complesse sulla verità storica, l’interpretazione artistica e le sensibilità moderne.

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