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Spettacoli

Ivan Cattaneo: “Ho cantato l’amore fluido 40 anni fa. Ma il Club Tenco non mi ha mai invitato”

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Cantautore, pittore, provocatore e antesignano dell’identità fluida in tempi in cui il solo accennarvi era rivoluzionario. In una lunga intervista al Corriere della Sera, Ivan Cattaneo (foto Imagoeconomica in evidenza) ripercorre la sua carriera fuori dagli schemi, iniziata negli anni ’70 con Nanni Ricordi, passata per il punk e lanciata al grande pubblico grazie a Mister Fantasy. Il suo è un racconto di glorie, cadute, silenzi e ritorni, tra ironia e rimpianto, ma senza mai perdere l’autenticità di un artista che si è sempre fatto bastare se stesso.

Dai Beatles al revival: “Il mio successo? Una sintesi tra diavolo e acqua santa”

Cattaneo ricorda gli esordi come cantautore e il successo negli anni ’80 con le cover anni ’60: «Italian Graffiatimescolava canzoni semplici e un personaggio scandaloso». Caterina Caselli lo definì un mix di “diavolo e acqua santa”.

Oggi, però, guarda con distacco alla musica attuale: «Esiste ancora la musica? È svanita. È tornata a vivere solo nell’aria. Tutti la ascoltano su YouTube, nessuno la possiede più».

L’era del troppo: “Oggi nell’arte bisogna togliere, non aggiungere”

Per Ivan, la saturazione dell’offerta ha ucciso la sorpresa: «Oggi c’è più gente che canta che pubblico che ascolta. Con l’autotune sono tutti intonati, ma tutti uguali. Serve personalità». Mina, Vanoni, Milva? «Vincono perché avevano voce, ma soprattutto identità».

“Polisex” e il coming out: “L’ho fatto prima di Pasolini”

Nel 1980 lancia Polisex: «Volevo spiegare l’amore fluido 40 anni prima». E rivendica con orgoglio il suo coming out ante litteram: «Debuttai al Festival di Re Nudo dichiarandomi cantautore omosessuale. Vennero giù gli insulti. Ma i diritti non sono né di destra né di sinistra, sono dell’umanità».

Il caso Oxa e l’incontro con Dalla

Cattaneo racconta di aver plasmato Anna Oxa: «Era acerba. La trasformai da ragazza timida a icona punk. A Sanremo ’78 arrivò seconda. Poi la rividi 33 anni dopo in un ristorante vegano».

Un episodio indimenticabile? Quello con Lucio Dalla: «Nel ’75 facevo un provino alla Rca. Strimpellavo vocalizzi. Dalla entrò, mi difese, salì sulla scrivania e si mise a dirigere un’orchestra immaginaria per difendere la mia libertà creativa».

La televisione, i rimpianti, e… un pugno da Battisti

Ha fatto pochissima tv: «Non ho mai smesso di cantare, anche se in silenzio. Sono stato sottovalutato. Il Club Tenco non mi ha mai chiamato».

E racconta con ironia di un alterco con Lucio Battisti: «Gli dissi che il suo album sembrava un Barry White dei poveri. Lui mi diede un pugno nello stomaco, poi ci mettemmo a ridere. Ma capì la lezione».

Oggi: “I Måneskin? Remake del remake. Nulla mi sorprende più”

Per Ivan, l’epoca della sorpresa è finita: «Oggi anche la cassiera dell’Esselunga ha piercing e tatuaggi. E allora dov’è la novità? I Måneskin, Achille Lauro, Rosa Chemical? Tutto già visto. Oggi si vive nel remake del remake».

E sulle discografie perdute: «La Rca è un deposito di scarpe. La Cgd un rudere. Ho pianto a vederle. Quei corridoi erano vita. Idee, confronti, energia».

Cattaneo conclude ricordando gli amici veri: «Alice è forse l’unica amica vera in un ambiente poco compatto». Ma non ha mai smesso. “Faccio concerti, piccoli o grandi, ma non ho mai smesso di essere me stesso”.

 

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Lorde si racconta: «Mi sono riscoperta donna e uomo, corpo e libertà»

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Con il nuovo album “Virgin”, in uscita venerdì, Lorde si presenta come mai prima d’ora: umana, sensuale, vulnerabile. L’artista neozelandese, 28 anni, spiega in un’intervista al Corriere della Sera che tutto è nato da un bisogno profondo: «Volevo entrare pienamente nel mio corpo, sentire tutto. Non basta esistere: bisogna percepirsi, conoscersi, accettarsi».

La fluidità dell’identità

Nel singolo “Hammer”, Lorde canta: “Alcuni giorni sono una donna, altri sono un uomo”. Un’affermazione che non ha bisogno di decodifiche: «Sono una donna, ma c’è anche una mascolinità molto reale in me. C’è sempre stata, fin dai tempi di “Royals” quando indossavo abiti maschili».

“Virgin”, il paradosso della libertà femminile

La copertina dell’album mostra una radiografia del bacino di Lorde, visibile anche la spirale anticoncezionale. Un’immagine potente e volutamente provocatoria: «Volevo una metafora visiva della mia rinascita, del sentirmi nuova, essenziale. La parola vergine non è lì per la purezza sessuale, ma per indicare vulnerabilità e potenza».

Essere donna tra contraddizioni e conquiste

Nel brano “GRWM” (Grow With Me), Lorde si riconosce pienamente come donna adulta. Eppure convive con una dualità che attraversa tutto l’album: «Due giorni prima mi sentivo l’uomo dell’anno, due giorni dopo non mi ero mai sentita così donna». Una danza fluida tra identità e consapevolezza.

Fama precoce e pressione estetica

Diventata celebre a 16 anni, Lorde non accusa il successo, ma un contesto più ampio: «Essere donna è difficile, punto. La pressione è sistemica, patriarcale. Le tecnologie che usiamo amplificano questo disagio». Una critica forte al modo in cui i social e gli algoritmi deformano l’autopercezione delle giovani donne.

Il pop femminile come rivoluzione culturale

Lorde è felice del momento che vive la musica: «Mai come ora ci sono così tante forme di essere donna nella musica. È il periodo perfetto per un disco come il mio». E aggiunge: «Il pop oggi è più potente, interessante, liberatorio che mai».

Le parole come atto di verità

Minimalismo e verità sono le coordinate stilistiche che ispirano Lorde. Tra i suoi riferimenti, Raymond Carver e Annie Ernaux: «Mi hanno insegnato che meno è più. Quando scrivo, cerco di non decorare: voglio solo dire la verità».

Un’elettronica irriverente, tra uomo e macchina

“Virgin” torna alle radici elettroniche dell’artista, ma con uno spirito diverso: «Viviamo in un’epoca dominata dalle macchine. Ma dentro quelle macchine c’è anche bellezza. Ho cercato di usarle in modo imperfetto, umano, irriverente».

La convivenza con l’intelligenza artificiale

Alla domanda se l’AI sostituirà gli artisti, Lorde risponde con pragmatismo: «Io non potrei fare musica senza tecnologia. Credo ci sarà sempre uno scambio artistico tra persone e macchine».

La “Lorde Summer”? Sexy, libera e magica

Come immagina la sua estate? «Un mood in cui sentirsi comodi, sexy e un po’ magici». Come il suo disco: corpo e spirito, donna e uomo, natura e macchina. Tutto insieme, finalmente.

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Piero Maranghi, il signore della bellezza e della curiosità: «Mi muove l’ignoranza»

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Piero Maranghi (foto Imagoeconomica) è editore, regista, conduttore, imprenditore, pescatore, padre di quattro figli e memoria vivente di una Milano nobile e colta. Oggi è anche l’ideatore di +Classica, la prima piattaforma streaming interamente dedicata alla musica classica. Una vita polifonica, fatta di contrasti, passioni e ironia. Quando gli chiedi come fa a tenere insieme tutto, risponde in una intervista al Corriere della Sera: «Mi muove la curiosità, unita all’ignoranza. Devo recuperare anni buttati al vento».

Un’infanzia “invisibile” e una famiglia ingombrante

Nato nella Casa degli Atellani, accanto a Santa Maria delle Grazie, con Leonardo da Vinci nel DNA e un cognome che evoca la finanza italiana (è figlio di Vincenzo Maranghi, Ad di Mediobanca), Piero racconta la sua infanzia da quartogenito dimenticato: «Ero il cocco di famiglia, ma era un inganno. Nessuno mi vedeva davvero». Studente “claudicante”, sognava ad occhi aperti, mentre il mondo si aspettava che finisse alla catena di montaggio della finanza. Invece, è approdato alla lirica, all’arte e all’architettura.

Una madre fondamentale e un padre da non evocare più

Maranghi si considera “prodotto totalmente materno”, profondamente legato alla figura della madre, Anna Castellini Baldissera, scomparsa l’anno scorso. Suo padre, figura centrale nella storia della finanza italiana, resta una presenza che ha segnato ma non definito la sua vita: «Vorrei fosse l’ultima volta che ne parlo pubblicamente». Una cesura netta, avvenuta con la nascita della sua primogenita: «Mio padre entrò in ospedale e lo vidi diverso. Ma non era cambiato lui. Ero cambiato io».

Il genio, l’eredità, e l’architetto Portaluppi

Il nome Piero, ricevuto in onore del bisnonno Portaluppi, è diventato destino. A 26 anni, Maranghi fonda la Fondazione Portaluppi, riportando alla luce l’opera dell’architetto. Suo è il restauro della Villa Necchi Campiglio e della Casa degli Atellani, dove ha vissuto con i figli. La casa è stata venduta a Bernard Arnault: «È stato difficile, ma non c’era alternativa. Lui è stato l’unico a capire la bellezza del luogo».

La battaglia su Mediobanca e il senso dello Stato

Maranghi commenta con preoccupazione la scalata di Mps a Mediobanca: «È l’unica banca al mondo a non aver avuto bisogno di aumenti di capitale dopo il 2008. Le Generali sono un asset strategico, come gli Uffizi o Santa Cecilia. Ma in Italia nessuno si indigna più».

L’amore per la musica classica e la nascita di +Classica

La folgorazione arriva a 20 anni: «Ascoltavo U2 e Dylan, poi è arrivato Beethoven. Quella complessità mi ha nutrito». Dopo uno stage a Tele+3, a 25 anni è già direttore di palinsesto. Oggi, con +Classica, offre concerti, opere, balletti e il celebre Almanacco di Bellezza in una sola app. Lo ha lanciato dirigendo un’orchestra, travestito da Don Giovanni e maschera di sala: «Un sogno pazzesco».

Il “pasticcione” e la vicenda giudiziaria

Nel 2023, ha patteggiato 22 mesi per il fallimento di due società: «Scelsi la liquidazione per evitare uno schianto. Forse non rifarei quella scelta, ma ormai è fatta». Oggi vuole guardare avanti, senza nascondersi.

Un padre tra regole e leggerezza

Con i suoi quattro figli canta, pesca, ride e condivide momenti sui social: «Sono un po’ bambino, ma anche severo. Ho due regole: non spiegare sempre i no e non mollare sui no».

Gli ospiti alle cene e la bulimia di umanità

Alle sue cene milanesi si incontrano Sapelli e Cipriani, Beecroft e intellettuali: «Mi piacciono tutti. È un mio difetto: mi piace piacere». Ma non è vanità, è “bulimia di umanità”, ereditata — forse — proprio da quel padre che di umanità ne aveva molta, anche se in giacca e cravatta.

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Spettacoli

Michela Giraud: «Io, pagliaccio che ride per resistere. Ma la satira è una cosa seria»

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«Io mi presento solo come pagliaccio. Tutto il resto lo mettono gli altri». Michela Giraud, attrice, autrice, regista, storica dell’arte e performer, si racconta in una lunga intervista al Corriere della Sera. Ironica, autoironica, profonda. A settembre chiuderà il tour del suo spettacolo Mi hanno gettata in mezzo ai lupi e non ne sono uscita capobranco alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. «Se me ne rendessi conto m’inventerei un impegno, tipo danza», scherza.

La comicità femminile come atto politico

Per Giraud la comicità è resistenza, è urgenza, è libertà. «La comicità è il mezzo più democratico che esista, ma per molto tempo le donne comiche senza maschera non sono state accettate. Quando facevo dirette durante la pandemia, una ragazza di Guidonia mi disse: “Non pensavamo che le ragazze potessero parlare così”».

Ha segnato un punto di svolta con il tormentone mignottone pazzo a LOL? Forse sì: «È stato tanto eccitante quanto complicato. Ho ricevuto odio, insulti, ma anche affetto. Mi chiedevo: perché si ricordano la parolaccia e non Socrate, che pure cito nello sketch? Forse perché ho toccato un nervo scoperto».

Fragilità, sarcasmo e il coraggio di mostrarsi vulnerabile

Dietro la battuta, c’è una ferita. Giraud lo sa bene: «Ho sempre usato ironia e crudeltà per nascondere una parte di me che credevo noiosa». In Flaminia, il suo film, racconta proprio quella fragilità: la storia di sua sorella nello spettro autistico. «Non credevo interessasse a nessuno, invece è stato accolto bene».

L’estetica dominante e il peso della diversità

Il corpo, per Michela, è da sempre uno spazio di battaglia: «La nostra società perdona tutti, tranne le donne che ingrassano. Se ti prendi gioco di chi ha una fragilità manifesta, sei un essere abietto». Un messaggio forte, rivolto anche ai più giovani: «Spegnete il telefono, uscite, parlate, fate esperienze vere».

Tra satire, insulti e querele: il confine da non superare

«La parolaccia deve essere un mezzo, mai un fine. Il turpiloquio da solo non è interessante». E sulla libertà d’espressione: «C’è una differenza tra satira e free speech: offendere non è satira». Commenta il caso Daniele Fabbri, querelato per una battuta su Giorgia Meloni: «Se ridete siete complici, la querela la paghiamo insieme!».

Cultura, arte e famiglia: la Giraud fuori dalla scena

Con un master in drammaturgia e una laurea in storia dell’arte, Giraud non si limita al palcoscenico. «La storia dell’arte mi rigenera come una doccia dopo una giornata pesante». Nel podcast Gioconde racconta i capolavori con taglio pop. Viene da una famiglia «borghese cattolico militare»: «Per renderli fieri avrei dovuto fare il catamarano».

Politica e comicità: un’epoca che è un grande spettacolo

«La nostra classe politica ci regala tanto materiale. Pensa a Sangiuliano… Berlusconi non l’avrebbe mai fatto. Lui aveva un senso del limite. Oggi no. Oggi sono tutti influencer e cialtroni». Ma attenzione: «La paura chiama l’oscurità, e con la dittatura è tutto finito».

Il femminismo come strumento e non come moda

Michela Giraud è femminista, ma con lucidità: «Ovvio che lo sono. Ma non mi piace quando viene usato per un tornaconto personale. Ogni battaglia pubblica usata per scopi privati è da disprezzare».

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