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Israele preme per ostaggi: Sinwar merce di scambio

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Dopo aver eliminato il nemico n.1, Yahya Sinwar, mente e braccio della strage del 7 ottobre, Israele comincia a fare pressione sui palestinesi di Gaza e su Hamas perché rilasci i circa 100 ostaggi – vivi o morti – ancora prigionieri dopo 379 giorni. I negoziati sembrano al momento al palo ma l’Idf ha lanciato volantini proprio su Khan Yunis, la città natale del defunto leader di Hamas, offrendo ai palestinesi uno scambio: “Deponete le armi, lasciate andare i rapiti e vi permetteremo di andare a vivere in pace”.

Un ramoscello di ulivo mentre i raid hanno ucciso almeno 33 persone nel nord della Striscia di Gaza e l’esercito israeliano stringe l’assedio attorno agli ospedali di Jabalya. Il fatto che il portavoce dell’Idf Daniel Hagari sia stato costretto per tre volte a smentire voci sulla liberazione degli ostaggi dimostra la tensione altissima che si vive nel Paese dopo l’uccisione di Sinwar. Speranza e paura dilaniano i parenti che sono tornati in piazza in tutta Israele per chiedere a Benyamin Netanyahu di riportare finalmente a casa i rapiti. Per chiudere questa ferita, il governo potrebbe addirittura utilizzare il corpo di Sinwar, conservato in una località segreta, come “merce di scambio” per il loro rilascio. Due fonti hanno dichiarato alla Cnn che un ‘do ut des’ è probabilmente l’unico modo in cui i resti di Sinwar tornerebbero a Gaza. “Altrimenti non verrà consegnato”, ha chiarito la stessa fonte.

Anche perché Israele è consapevole che riportare nella Striscia la salma del leader, diventato simbolo del martirio palestinese per Hamas e i suoi alleati, rischia di trasformare il luogo della sua sepoltura in un santuario per i seguaci. Dopo oltre un anno di pesanti raid che hanno costretto i palestinesi a scappare da nord a sud di Gaza, l’Idf ha teso la mano pur non smettendo di martellare la Striscia da terra e da cielo. L’esercito ha lanciato aiuti umanitari su Khan Yunis. E riecheggiando il linguaggio usato l’altro giorno da Netanyahu, i volantini con la foto di Sinwar morto, circondato da macerie, in cui Israele ricorda ai palestinesi che l’ex leader di Hamas “ha distrutto le vostre vite, si è nascosto in un buco nero ed è stato eliminato mentre fuggiva in preda al panico”.

“Hamas – continua il volantino – non governerà più Gaza. Finalmente, avete l’opportunità per voi di essere liberati dalla sua tirannia. Chi depone le armi e ci restituisce i rapiti, gli permetteremo di andarsene e vivere in pace”. Un tentativo di aprire una breccia nei civili che secondo lo Stato ebraico hanno anche ospitato in casa, in questo lungo anno, alcuni ostaggi. Hamas è per ora sulla linea dura. Anche se una divisione sembra mostrarsi nella galassia islamista. Site, organizzazione privata americana che segue le attività dei jihadisti, riporta che, il giorno dopo l’uccisione di Sinwar, il veterano Mustafa Hamid, suocero di Saif El-Adel, considerato il probabile leader di Al Qaida, ha chiesto il rilascio degli ostaggi ancora detenuti a Gaza, ritenendo che tenerli prigionieri danneggi la causa palestinese.

Un appello che per ora sembra caduto nel vuoto viste le parole durissime usate da Khalil Hayya che ha affermato che gli israeliani saranno liberati solo quando Israele si ritirerà dalla Striscia. Proprio il capo negoziatore di Hamas per i colloqui sul cessate il fuoco sarebbe, secondo Bloomberg, il più probabile successore di Sinwar. 63 anni, di stanza in Qatar, Hayya è considerato un dialogante dagli Usa e potrebbe rappresentare una svolta rispetto, ad esempio, al fratello minore di Sinwar, Mohammed, considerato militante intransigente e spietato come Yahya.

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Giallo sulla morte del leader jihadista al-Jolani

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L’uomo del momento in Medio Oriente è morto. Abu Mohammad al-Jolani, leader della Hayat Tahrir al-Sham (Hts) che ha conquistato Aleppo e gran parte del nord della Siria in un lampo cogliendo impreparata non solo Damasco, ma anche Mosca e Teheran, sarebbe rimasto ucciso in un bombardamento russo. Almeno così dicono alcuni media. Ma molte ore dopo la ‘breaking news’, apparentemente partita dal profilo X del governo libanese, non c’è alcuna conferma. Né dal campo, né da alcuna altra fonte a lui vicina. Di certo c’è che i media russi hanno riferito che il ministero della Difesa di Mosca ha dichiarato che la sua aeronautica militare ha condotto attacchi contro i ribelli siriani a sostegno dell’esercito di Damasco.

Altre fonti hanno riferito di diverse vittime dei quegli attacchi aerei, sia ad Aleppo che nell’area di Idlib, roccaforte della Hayat Tahrir al-Sham. Secondo la ong Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), 12 morti e 23 feriti nel primo caso, otto morti e 50 feriti nel secondo. Di certo c’è anche che sul social X la notizia della morte di al-Jolani circola. E circola perfino la foto del suo presunto cadavere. Ovvero quello di un uomo con la folta barba nera col capo riverso e gli occhi spalancati, coperto di polvere: presumibilmente quella dei calcinacci e macerie del bombardamento in cui sarebbe rimasto vittima, messo a segno dagli aerei da guerra russi giunti in soccorso del presidente siriano Bashar Assad. Salvo poi che in molti altri post l’autenticità della foto viene smentita.

“E’ solo una fake”, scrivono in molti. La notizia della (presunta) morte è stata rilanciata anche da Press Tv, un’emittente iraniana, che però è certamente di parte e quindi non esattamente attendibile. Così come da diversi media israeliani, tra cui il Jerusalem Post e il Times of Israel, che a loro volta citano generici “media arabi”. Sui principali media arabi però di fatto non ce n’è traccia. Eppure Ahmed al-Sharaa, noto appunto col nome di battaglia al-Jolani, oppure al-Golani – che lo collega idealmente alle alture siriane del Golan occupate da Israele fin dal 1967 – è una vecchia conoscenza della stampa araba, che lo segue attentamente almeno da quando nel 2012 ha fondato l’ala siriana di al Qaida, ovvero il Jabhat an Nusra. Un’iniziativa che peraltro gli ha guadagnato una taglia da 10 milioni di dollari posta sulla sua testa dagli americani. E ha continuato a seguirlo anche quando si è distaccato dal qaidismo internazionale dando vita ad una forma più pragmatica di jihadismo politico, con base nella regione nord-occidentale siriana di Idlib, oggi al centro della rivolta. Dunque, c’è da credere che se fosse davvero morto, la stampa araba riporterebbe la notizia con grandi titoli.

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Putin spiazzato alle prese con un altro fronte

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L’offensiva dei miliziani filo-turchi è “una minaccia alla sovranità della Siria” e “l’ordine va ristabilito il più presto possibile”. L’unica esternazione del Cremlino su quanto avviene nel Paese alleato mediorientale risale a venerdì. Ma nel frattempo la diplomazia russa ha messo in moto una serie di contatti – prima di tutto con la Turchia e l’Iran – per cercare di tamponare una crisi nel Paese alleato che sembra avere colto impreparata Mosca e minacciare l’apertura di un altro pericoloso fronte.

La testata ucraina Kyiv Post, citando “social media islamici”, si è spinta ad ipotizzare un ruolo dell’Ucraina nell’offensiva delle milizie jihadiste che hanno preso il controllo di Aleppo, sostenendo che sarebbero state addestrate dalle forze speciali ucraine dell’intelligence militare di Kiev (Gur). In particolare, aggiungono le fonti, gli addestratori apparterrebbero al cosiddetto gruppo Khimik, a cui era già stata attribuita la paternità di un attacco contro una base militare russa a sud-est di Aleppo lo scorso 15 settembre.

A sostegno di questa ricostruzione, il Kyiv Post cita le parole del capo del Gur, Kyrylo Budanov, il quale fin dal maggio del 2023 aveva avvertito che le sue squadre speciali avrebbero continuato a “uccidere i russi ovunque e in qualunque momento fino alla completa vittoria dell’Ucraina”.

Quello siriano rischia di diventare per la Russia il terzo fronte di guerra, dopo l’Ucraina e quello del Sahel africano, dove i contingenti di Mosca hanno sostituito negli ultimi due anni e mezzo quelli francesi in Burkina Faso, Niger e Mali sotto la regia del vice ministro della Difesa Yunus-Bek Yevkurov. Lo scorso agosto il Mali ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Ucraina, accusandola di sostenere i ribelli Tuareg che il mese prima avevano attaccato e distrutto una colonna di militari maliani e russi della Wagner nel nord del Paese.

Anche la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, aveva puntato il dito contro l’Ucraina, accusandola di aver aperto “un secondo fronte” in Africa sostenendo “gruppi terroristici” perché “incapace di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia”. Le voci che circolavano nella capitale russa e che parlavano di consultazioni tenute dal presidente siriano Bashar al Assad durante una visita lampo a Mosca hanno trovato conferma oggi sui media governativi siriani: il rais sabato avrebbe effettivamente incontrato Putin, anche se dal Cremlino non è giunta alcuna conferma ufficiale, mentre il ministro degli Esteri Serghei Lavrov ha avuto ieri un colloquio telefonico con il suo omologo turco Hakan Fidan, con il quale ha parlato tra l’altro del “processo di Astana”.

Cioè di quel coordinamento tra Mosca, Ankara e Teheran che finora era sembrato poter armonizzare i diversi interessi in gioco in Siria. L’avanzata dei jihadisti sostenuti dalla Turchia potrebbe invece essere d’intralcio ai rapporti amichevoli fin qui intrattenuti tra i presidenti Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin, già messi a dura prova nel 2015 dall’abbattimento di un jet russo da parte di F-16 turchi al confine tra la Siria e la Turchia. La priorità per Mosca è per ora quello di tenere lontane le possibili minacce alla sua base navale di Tartus, a nord del confine con il Libano, l’unica di cui dispone nel Mediterraneo. Almeno finora, perché media occidentali sostengono che da tempo il vice ministro Yevkurov è in trattative con il generale libico Khalifa Haftar per aprire un altro porto militare a Bengasi o a Tobruk. Mentre Ankara sostiene il governo rivale di Tripoli.

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Raid su collegio francescano ad Aleppo, danni ingenti

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Un raid ha colpito il Terra Santa College ad Aleppo. Non ci sono vittime né feriti, “i frati stanno tutti bene”, riferiscono fonti locali, ma l’attacco ha causato ingenti danni. Il raid è di matrice russa, come specificato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani in un messaggio su X. Il Terra Santa College è un edificio residenziale che si trova all’interno del compound dei francescani nella città siriana. Nella stessa area c’è il convento e, ancora più vicina al College, la chiesa dove stasera era prevista la messa vespertina della prima domenica d’Avvento. Ancora non è chiaro che cosa effettivamente sia accaduto: se sia stato un attacco deliberato o meno. Anche per questo i francescani preferiscono, al momento, non commentare. Prima dell’accaduto, padre Bahajat Karakach aveva condiviso notizie sulla situazione di queste ore nella città siriana ripiombata nell’incubo della guerra.

Il superiore dei francescani ad Aleppo ha passato parte della giornata di oggi chiuso con i confratelli nel convento a causa del coprifuoco. “Già da ieri pomeriggio il movimento nelle strade era al minimo”. Aleppo dunque è abbastanza deserta ma per motivi urgenti si può circolare. “Io sono dovuto uscire – ha riferito p. Bahajat, che è il delegato della Custodia di Terrasanta in Siria e parroco di rito latino ad Aleppo – per accompagnare una mia parrocchiana anziana all’ospedale, ho incontrato alcune persone che andavano a trovare i loro cari anziani, nessuno gli dava fastidio per le strade”.

Sui beni di prima necessità cominciano ad esserci i primi problemi: “Paradossalmente la corrente elettrica c’è per lunghe ore al giorno e durante la notte, però abbiamo un problema riguardo all’acqua perché comincia a scarseggiare. Ad ogni modo la città è ancora paralizzata perché i servizi pubblici e le istituzioni sono sospese”. Il cibo ancora non manca ma si guarda di ora in ora a quello che potrebbe accadere: “Alcuni punti di distribuzione hanno fornito del pane alla gente. La nostra mensa per i poveri è rimasta sospesa ieri ed oggi perché non è ancora chiaro – spiega il francescano – come sarà possibile procurarci il gas da cucina senza il quale ovviamente non si può far nulla. Ciò nonostante il nostro panificio al Terra Santa College funziona e stiamo distribuendo pane alla gente”, aveva detto prima che fosse attaccato l’edificio.

“La gente ha paura che Aleppo sia di nuovo uno scenario di una battaglia feroce. E’ questo che spinge molti a cercare di uscire dalla città, ma le notizie che arrivano dall’unica strada rimasta che collega la città al resto del Paese non sono per nulla rassicuranti: nel migliore dei casi il viaggio è lunghissimo, alcuni sono rimasti bloccati per più di 24 ore… nel freddo del deserto in una strada completamente priva di servizi di ogni genere”. “Alcuni sono rimasti in città controvoglia ma altri l’hanno invece scelto deliberatamente, con la speranza che le cose miglioreranno”.

I frati francescani, che sono in queste terre da oltre otto secoli, quando lo stesso San Francesco istituì un presidio di confratelli in Terra Santa, non hanno mai lasciato né Aleppo né la Siria; non l’hanno fatto neanche negli anni più difficili dell’ultimo conflitto. “Noi pastori continuiamo a restare accanto al nostro popolo seminando la speranza che proviene dalla nostra fede, soprattutto in questo Avvento che è il tempo di speranza per eccellenza”, dice senza esitazioni padre Bahajat.

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