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Salute

Individuato un legame tra 22 pesticidi e il tumore alla prostata

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È stato individuato un forte legame tra 22 pesticidi usati in agricoltura e l’incidenza del tumore alla prostata, la forma di tumore più comune per gli uomini: per 3 di questi, come il diserbante 2,4-D, si avevano già prove di un possibile collegamento, mentre gli altri 19 non erano mai stati accostati prima d’ora a questa malattia.

La scoperta, pubblicata sulla rivista Cancer, si deve allo studio della Scuola di Medicina dell’Università americana di Stanford, ed evidenzia la necessità di ulteriori indagini su questo tema per confermare eventualmente il risultato e mettere a punto interventi adeguati. I ricercatori guidati da Simon John Christoph Soerensen hanno analizzato i possibili effetti di 295 pesticidi in tutti gli Stati Uniti, tenendo conto che tra l’esposizione alle sostanze e la comparsa del tumore, che ha una crescita notoriamente molto lenta, possono passare anche molti anni.

Tra i 22 pesticidi che hanno mostrato un’associazione diretta con l’incidenza della patologia, 4 sono risultati collegati anche alla mortalità per la stessa tipologia di cancro: 3 erbicidi e 1 insetticida. Di questi solo il trifluralin, un comune erbicida, è classificato dall’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) come “possibile cancerogeno per l’uomo”. “Questa ricerca dimostra l’importanza di studiare le sostanze alle quali siamo esposti nell’ambiente, che possono spiegare alcune delle variazioni geografiche che osserviamo nell’incidenza del tumore alla prostata negli Stati Uniti”, commenta Soerensen. “Sulla base di questi risultati, possiamo portare avanti i nostri sforzi per individuare i fattori di rischio per questo cancro – aggiunge il ricercatore – e lavorare per ridurre il numero di uomini colpiti dalla malattia”.

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Virus in Congo, a Lucca un paziente con sintomi simili

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Febbre e anemia, gli stessi sintomi del virus misterioso che in Congo ha già fatto trenta morti. Tanto è bastato per far scattare gli accertamenti su un paziente, già guarito e dimesso, proveniente dal paese africano e ricoverato nell’ospedale San Luca di Lucca dal 22 novembre al 3 dicembre. L’ospedale di Lucca, dopo l’allarme sanitario per il focolaio congolese, ha informato l’Istituto Superiore di Sanità ed i campioni prelevati dal paziente stanno per arrivare all’ISS.

L’uomo, un cinquantenne, lavora in Congo a circa 700 km dalla zona di Panzi dove sono stati stato documentati casi e decessi per il misterioso virus. Rientrato in Italia ha manifestato “una sintomatologia influenzale potenzialmente riconducibile alla malattia che sta colpendo una regione del paese africano”, come precisa in una nota Maria Rosaria Campitiello, Capo dipartimento della prevenzione, della ricerca e delle emergenze sanitarie del ministero della Salute.

“E’ stato ricoverato con febbre e anemia ma, adesso sta bene come lo sono i suoi familiari. Solo per scrupolo è stato ricontattato per accertamenti, ma ad oggi non c’è pericolo di contagio”, ha spiegato Spartaco Sani, responsabile delle malattie infettive dell’ospedale lucchese San Luca dove è stato ricoverato il paziente.

“E’ stato richiamato per accertamenti per una questione di massima precauzione” dopo che si era avuta notizia del focolaio congolese, sottolinea la Asl Toscana nord ovest, a cui fa capo l’ospedale di Lucca. Quando il paziente è stato ricoverato nell’ospedale di Lucca, infatti, “non era ancora noto il focolaio emerso in Congo”, ha chiarito la Asl. “Per scrupolo, dopo la sua dimissione”, avuta notizia dell’attenzione delle autorità sanitarie nazionali ed internazionali rispetto al focolaio congolese, “è stato richiamato per accertamenti e, come protocollo, per massima precauzione, è stato contattato l’Istituto Superiore della sanità per l’eventuale invio di campioni di sangue”.

L’Azienda sanitaria evidenzia che la struttura di malattie infettive, insieme a direzione sanitaria e ospedaliera e al dipartimento della prevenzione, ha effettuato un lavoro di verifica a 360 gradi sulla vicenda e “non ci sono al momento profili di rischio”. Questo dunque potrebbe essere il primo caso sospetto in Italia della ‘malattia misteriosa’ che ha come sintomi ha febbre, mal di testa, mal di gola, tosse, difficoltà respiratorie e anemia.

Un virus che ha colpito in particolare l’area di Panzi, località del Sud-Ovest del Paese, che si trova a più di 700 km dalla capitale Kinshasa. Secondo il ministero della Sanità congolese l’epidemia dura da oltre 40 giorni ed i morti accertati in presidi sanitari sono circa 27 su 382 contagiati. Altri 44 decessi sono stati registrati nei villaggi limitrofi, ma senza una verifica della diagnosi, per un totale di circa 70 morti in una vasta area. Una gran parte dei decessi si deve però alla totale mancanza di cure.

Il tasso di mortalità è intorno all’8%, tale da meritare attenzione ma non allarmismo. Gli infettivologi stanno cercando di stringere il cerchio su una rosa di potenziali responsabili di quanto sta avvenendo: dalla febbre emorragica, a qualche forma di polmonite, ai contagi respiratori. “Dalla sintomatologia potrebbe trattarsi di una febbre emorragica. Sono delle forme virali come per esempio Ebola o la febbre emorragica di Congo-Crimea, cioè fondamentalmente infezioni che già sono note, magari sostenute da un nuovo virus che ci auguriamo venga presto identificato”, ha detto l’infettivologo Matteo Bassetti, Direttore della Clinica Malattie infettive dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova.

“In Congo e Camerun, con la presenza della foresta equatoriale ed una grandissima varietà di animali, si concentra la maggiore parte dei virus del pianeta. Un luogo ideale per l’ormai noto salto di specie (spillover), il processo naturale per cui un patogeno degli animali evolve e diventa in grado di infettare, riprodursi e trasmettersi all’interno della specie umana”, è invece il ragionamento di Carlo Perno, responsabile Microbiologia e diagnostica di immunologia, dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù.

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Salute

Prevenzione oncologica: la Calabria rilancia la sfida contro il cancro del colon-retto

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La Calabria, fanalino di coda nelle adesioni agli screening oncologici, ha lanciato un appello accorato durante l’evento “Prevenzione del cancro del colon-retto in Calabria: uniti per la salute di tutti”, tenutosi al Teatro Comunale di Catanzaro. L’incontro, promosso da MG Production e patrocinato dalla Regione Calabria, ha evidenziato i ritardi preoccupanti nella prevenzione del cancro del colon-retto (CRC), uno dei tumori più pericolosi ma spesso prevenibili.

Secondo i dati presentati dalla Fondazione Gimbe, nel 2022 il tasso di adesione agli screening per il CRC in Calabria era appena del 2,72%, contro una media nazionale del 28,23%. Il divario è evidente anche per altri tumori:

  • Tumore della mammella: 8,61% di adesioni in Calabria contro il 43,1% italiano.
  • Tumore della cervice uterina: 12,29% contro il 41,23%.

Questa mancanza di prevenzione ha conseguenze gravi: quasi il 96% dei carcinomi e adenomi avanzati rimane non diagnosticato.

L’importanza della diagnosi precoce

Il cancro del colon-retto è un killer silenzioso, spesso diagnosticato in fase avanzata a causa della scarsa consapevolezza e adesione agli screening. Nino Cartabellotta, presidente di Fondazione Gimbe, ha dichiarato:

“I dati sono allarmanti. Senza diagnosi precoce e trattamento tempestivo, stiamo perdendo l’opportunità di salvare vite. Serve un piano straordinario per riportare gli screening oncologici al centro delle politiche sanitarie.”

Le nuove tecnologie al servizio della prevenzione

Le innovazioni tecnologiche rappresentano un grande alleato nella lotta contro il CRC. Guido Costamagna, direttore del Centro di Malattie Gastrointestinali dell’Ospedale Isola Tiberina Gemelli, ha sottolineato:

“Abbiamo strumenti diagnostici avanzati, ma il problema resta l’aderenza alle prime fasi dello screening. La colonscopia, se eseguita dopo il test del sangue occulto, offre un’alta probabilità di individuare e rimuovere lesioni precancerose.”

Anche Guido Beccagutti, direttore generale di Confindustria Dispositivi Medici, ha evidenziato come l’Italia eccella nella produzione di dispositivi diagnostici, una risorsa fondamentale anche per una regione come la Calabria.

Le iniziative della Regione Calabria

Il sub-commissario alla Sanità della Regione Calabria, Ernesto Esposito, ha illustrato le strategie adottate per migliorare la situazione:

  • Incremento degli inviti agli screening: aumento del 50% per raggiungere il 72,5% della popolazione target.
  • Motorhome attrezzati: entro il 2025 saranno disponibili cinque unità mobili per screening oncologici (mammella, cervice uterina, colon-retto), distribuite in tutta la regione.
  • Coinvolgimento dei medici di base: inserimento degli screening oncologici nell’accordo regionale con le Aggregazioni Funzionali Territoriali.

Un messaggio di sensibilizzazione e speranza

Durante l’evento, testimonianze di ex pazienti e un documentario realizzato con il contributo di 12 gastroenterologi calabresi hanno messo in evidenza l’importanza di adottare stili di vita sani e riconoscere i sintomi del CRC. Il video, un viaggio tra le strutture sanitarie regionali, ha sottolineato il ruolo cruciale della prevenzione e delle tecnologie avanzate.

La lotta contro il cancro del colon-retto in Calabria rappresenta una sfida cruciale per la salute pubblica. Come ha sottolineato Esposito, “La prevenzione deve diventare una priorità assoluta per garantire un accesso equo alla salute, anche nei territori più remoti.” 

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Salute

Il cuore e le sue valvole: una funzione vitale sotto pressione

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Ogni giorno il cuore pompa circa 7.000 litri di sangue, grazie al lavoro coordinato delle sue quattro valvole: aorta, mitrale, tricuspide e polmonare. Tuttavia, con l’avanzare dell’età e la presenza di fattori di rischio come ipertensione, diabete, obesità e ipercolesterolemia, queste valvole possono degenerare, portando a condizioni come stenosi(restringimento) o insufficienza (mancata chiusura).

Secondo lo studio PREVASC, condotto dalla Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe), queste patologie interessano il 61% della popolazione over-65 in Italia, con un impatto significativo sulla qualità della vita e un rischio di mortalità del 50% entro 2 anni dall’insorgenza dei sintomi.

Lo studio PREVASC: diagnosi precoce per un cuore in salute

Il progetto PREVASC, primo nel suo genere in Italia, ha coinvolto oltre 1.000 anziani di piccoli comuni italiani. Grazie a un programma strutturato di screening, i ricercatori hanno rilevato che:

  • Il 27% dei partecipanti presenta anomalie alla valvola aortica.
  • Il 34% ha problemi alla valvola mitralica.

Questi risultati dimostrano che le patologie valvolari spesso sono sottodiagnosticate, a causa di sintomi confondenti come affaticamento, dolore al petto e difficoltà respiratorie, facilmente attribuiti ad altre condizioni dell’anziano, come scompenso cardiaco o BPCO.

L’importanza della prevenzione cardiovascolare

Per ridurre la mortalità associata alle valvulopatie, è cruciale puntare sulla prevenzione e sulla diagnosi precoce. Lo studio PREVASC ha adottato un approccio innovativo, basato su:

  • Anamnesi clinica e sociale, con questionari mirati.
  • Esami diagnostici, come auscultazione con stetoscopio digitale, elettrocardiogramma (ECG) ed ecocardiogramma.

Questo modello ha permesso di identificare pazienti con fattori di rischio non attenzionati e sintomi iniziali, offrendo loro l’opportunità di un intervento tempestivo.

La stenosi aortica: un nemico silenzioso ma curabile

Tra le patologie valvolari, la stenosi aortica è una delle più pericolose. Provocata dalla calcificazione della valvola aortica, porta a un progressivo restringimento che compromette la funzione cardiaca. Sebbene potenzialmente letale, è possibile ripristinare la normale attività cardiaca grazie alla sostituzione della valvola danneggiata, un trattamento efficace se effettuato in tempo.

Un modello di prevenzione per il futuro

Lo studio PREVASC non si è limitato alla diagnosi, ma ha integrato la dimensione sanitaria con quella sociale. Grazie alla collaborazione con Centri anziani, parrocchie e reti di assistenza territoriale, è stato possibile avvicinare la medicina ai piccoli centri, spesso distanti dai servizi di prevenzione.

Come sottolinea il presidente della SICGe, Niccolò Marchionni, “La prevenzione cardiovascolare è essenziale per garantire un invecchiamento in salute e sostenibile”. Il vicepresidente Alessandro Boccanelli aggiunge: “È fondamentale implementare programmi di screening cardiovascolare capillari per tutta la popolazione over-65”.

Lo studio PREVASC evidenzia l’importanza di una strategia nazionale per la prevenzione delle malattie valvolari cardiache. Screening mirati e diagnosi precoci possono fare la differenza, riducendo il peso sociale ed economico di queste patologie e migliorando la qualità della vita degli anziani.

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