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Cronache

Incinta uccisa a coltellate, fermato il femminicida

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A poco più di un mese dal femminicidio di Giulia Cecchettin, il Veneto si trova a piangere un’altra donna uccisa violentemente, per mano di un killer che poi si è dato alla fuga ma è stato fermato in serata dai carabinieri. A morire è stata oggi una giovane mamma di 27 anni, Vanessa Ballan, trovata a terra colpita da almeno sette coltellate al torace davanti alla porta di casa, in una villetta a Spineda, piccola frazione del comune trevigiano di Riese Pio X. A ucciderla un uomo che lei aveva denunciato per stalking ad ottobre, un cittadino kosovaro di 41 anni, Bujar Fandaj, che abita in un comune vicino. Fandaj dopo il delitto si era allontanato a piedi e, dopo una giornata di ricerche, è stato bloccato e portato in caserma.

Vanessa era in attesa del secondo figlio: era già mamma di un bimbo di quattro anni che al momento delitto era alla scuola materna. L’allarme è stato dato poco dopo le ore 14:00 da un vicino di casa, che ha avvertito il 118, giunto sul posto assieme ai carabinieri. A scoprire il cadavere il marito della donna, Nicola Scapinello, che sotto choc è stato condotto alla caserma dei carabinieri ed è stato sentito a lungo. Sul posto, oltre ai militari, è giunto il magistrato di turno, il sostituto procuratore di Treviso Michele Permunian, affiancato dal medico legale Antonello Cirnelli.

Destino vuole che fu proprio Cirnelli a fare i primi esami sul corpo di Giulia, quando venne ritrovata senza vita in un dirupo nei pressi del lago di Barcis, dove era stata abbandonata da Filippo Turetta, nella folle fuga dopo il delitto di Vigonovo. Vanessa Ballan, da quanto emerso nel primo esame sulla salma, è stata picchiata al volto, e poi colpita con almeno sette coltellate profonde al torace. Sulle mani della donna sono state trovate numerose lesioni da difesa, a conferma di come la vittima abbia provato disperatamente a salvarsi dalla furia dell’omicida, che non le ha lasciato scampo. Una tragedia che ha colpito ancora una volta una famiglia normale, composta da due giovani che lavoravano, avevano un figlio piccolo e stavano attendendone un altro. Originari di Castelfranco Veneto (Treviso) vivevano in un piccolo quartiere residenziale della frazione di Riese, composto da case bifamiliari, e un negozio di parrucchiera. Vanessa lavorava come commessa in un supermercato vicino, e aveva da poco iniziato il periodo di maternità. Nicola è invece un piastrellista e ha una ditta personale.

Vanessa Ballan, la mamma commessa col sorriso solare uccisa sull’uscio di casa

I due si erano sposati nel novembre 2012. Sul luogo del delitto sono accorse alcune colleghe della donna, che hanno raccontato piangenti come l’amica fosse in astensione dal lavoro per maternità anticipata. Dalla deposizione del marito è emerso subito come possibile sospetto Fandaj, cittadino kosovaro conoscente della coppia che risiede ad Altivole, comune confinante con Riese. Con la famiglia di Vanessa e Nicola tuttavia i rapporti erano tesi da tempo: pare che l’uomo avesse avuto un legame con la donna, ma una volta terminato avrebbe iniziato a perseguitarla, con continue e improvvise visite nel supermercato.

Una serie di comportamenti molesti che avevano spinto Vanessa anche a denunciarlo ad ottobre per stalking. Ora è in fuga, dopo essersi allontanato a piedi dalla casa del delitto. E dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, il Veneto si prepara a un nuovo giorno di lutto regionale per un’altra vittima di femminicidio. “Assistiamo a una spirale di violenza – ha commentato il presidente Luca Zaia – che necessita da parte di tutta la società, a partire dalle istituzioni, di una risposta assolutamente ferma. Posso già annunciare che darò mandato affinché la Regione Veneto disponga il lutto regionale il giorno delle esequie di Vanessa Ballan”, ha concluso.

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Pino Daniele e Amanda Bonini: un amore semplice, “all’antica”

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Pino Daniele, uno dei cantautori più amati della musica italiana, viveva il suo ultimo capitolo sentimentale con Amanda Bonini (foto tratta dal profilo Fb della signora Bonini), maestra elementare, in una relazione che definiva “all’antica”. «Dopo due famiglie, non smetto di credere nell’amore, perché se smetti di crederci, non vivi più», raccontava il cantautore in una delle sue ultime interviste. Con Amanda condivideva una visione della vita fatta di cose semplici, lontane dalle sovrastrutture del successo.

Amanda rappresentava per Pino un ritorno alle sue radici, al valore delle piccole cose. Una relazione che univa due mondi apparentemente lontanissimi: lui, superstar della musica, e lei, una donna normale, immersa nel mondo dell’educazione e della vita quotidiana.

La tragica notte del 4 gennaio 2015

A breve ricorreranno dieci anni dalla scomparsa di Pino Daniele, avvenuta il 4 gennaio 2015, in circostanze che Amanda Bonini ripercorre con emozione nel libro di Pietro Perone, Pino Daniele. Napoli e l’anima della musica. In quella notte drammatica, la coppia era a Magliano, in Toscana, dove avevano scelto di vivere per allontanarsi dal caos della città. Quando Pino accusò un grave malore, insistette per essere portato a Roma, al Sant’Eugenio, convinto che solo il suo cardiologo di fiducia potesse salvarlo.

«Durante il viaggio — racconta Amanda — Pino mi ha tenuto la mano, fino a quell’ultima doppia stretta, il suo ciao». La decisione di non aspettare un’ambulanza è stata oggetto di critiche, ma Amanda spiega: «Avrei provocato la sua ira e peggiorato la situazione. Piuttosto, non mi spiego perché dal Sant’Eugenio non sia partito un mezzo di soccorso cardio-assistito che ci venisse incontro».

Un ritorno alla normalità

Amanda e Pino avevano costruito una vita serena e semplice, fatta di routine e momenti quotidiani. Dopo un periodo a Roma, avevano scelto di trasferirsi a Magliano, un luogo tranquillo e vicino al lavoro di Amanda. «Alle sei e trenta uscivo di casa per andare a scuola, tornavo nel primo pomeriggio», ricorda Amanda. Questa normalità era per Pino un tuffo nelle sue origini, un ritorno al sale della vita di strada.

Pino si interessava al lavoro di Amanda, alle metodologie educative, e in particolare alle difficoltà vissute dalle famiglie con bambini disabili. Questi momenti, fatti di domande e riflessioni, lo riportavano a contatto con una realtà autentica, lontana dai riflettori e dal successo.

La serenità di Magliano e il ricordo di Pino

A Magliano, Pino Daniele aveva trovato un rifugio. Il piccolo paese sulle colline toscane rappresentava per lui un luogo di pace, dove poter vivere lontano dal caos delle metropoli e riscoprire una dimensione più autentica. Oggi, le sue ceneri riposano nel punto più alto del cimitero del paese, un luogo speciale per un artista che aveva scelto di vivere “felice e all’antica” con la sua compagna.

Dieci anni dopo: il ricordo di un grande artista

A dieci anni dalla scomparsa di Pino Daniele, il ricordo del cantautore vive non solo nella sua musica, ma anche nei racconti di chi gli è stato accanto. Amanda Bonini rappresenta un pezzo importante di quel ricordo, un amore che ha saputo riportare Pino alle sue origini e alla bellezza della vita semplice.

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Omicidio di Emanuele Tufano: il 15enne indagato ammette di aver sparato ma nega di essere l’assassino

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«Non sono stato io ad uccidere Emanuele». Così si è difeso F.A., il 15enne indagato per il coinvolgimento nell’omicidio di Emanuele Tufano, avvenuto lo scorso 24 ottobre in una traversa di corso Umberto, nei pressi di piazza Mercato a Napoli (nella foto il lugo del delitto). Durante l’interrogatorio condotto dal pm dei minori Claudia De Luca e dai pm della Procura di Napoli, F.A. ha ammesso di aver fatto fuoco con una pistola ma ha escluso categoricamente di essere l’autore del colpo fatale.

Difeso dall’avvocata Immacolata Spina, il ragazzo ha raccontato che il suo gesto sarebbe stato una reazione al fuoco aperto dal gruppo di cui faceva parte la vittima: «Hanno cominciato a sparare loro».

Il caos della notte del 24 ottobre

Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la notte dell’omicidio ha visto contrapporsi due gruppi: uno proveniente dal rione Sanità, guidato da Emanuele Tufano e composto da circa 15 scooter, e l’altro del rione Mercato, con almeno quattro ragazzi a bordo di due moto. Il gruppo di Tufano avrebbe cercato di presidiare la zona di piazza Mercato in una chiara provocazione.

Quando sono partiti i colpi, il caos è stato totale. I ragazzi del rione Mercato hanno abbandonato le moto, cercando riparo dietro bidoni della spazzatura e auto parcheggiate. In quel momento, F.A. avrebbe impugnato una pistola e sparato. Tuttavia, le indagini hanno rivelato che nella sparatoria sono state utilizzate almeno quattro armi, e che in totale sono stati esplosi una ventina di colpi. È possibile che Emanuele sia stato colpito da un proiettile proveniente dal fuoco incrociato.

Le indagini e i punti oscuri

La Squadra Mobile, sotto la guida del primo dirigente Giovanni Leuci, sta lavorando per chiudere il cerchio attorno ai responsabili del conflitto a fuoco. Oltre a F.A., è stato interrogato un altro giovane indagato, un 17enne assistito dall’avvocato Mauro Zollo. Entrambi hanno fornito versioni parziali, contraddistinte da omertà e amnesie: nessuno dei due ha fatto nomi o riconosciuto complici nelle foto mostrate dagli investigatori.

Le indagini si concentrano ora sull’analisi delle immagini delle telecamere di sorveglianza presenti nella zona e sui rilievi balistici per determinare l’arma che ha ucciso Emanuele Tufano.

Un giovane indagato senza prospettive

F.A., al centro dell’inchiesta, ha dichiarato di trascorrere il tempo chiuso in casa, lontano dalle strade del suo quartiere. Non va a scuola, non lavora, e attende gli sviluppi di un’inchiesta che lo ha coinvolto in uno degli episodi di violenza giovanile più gravi degli ultimi mesi a Napoli.

Una città ferita tra silenzi e violenza

L’omicidio di Emanuele Tufano rappresenta l’ennesimo caso di violenza tra giovani nella città partenopea, aggravato da un muro di omertà che complica il lavoro degli inquirenti. Tra video su TikTok, pistole facili e quartieri in tensione, Napoli continua a fare i conti con un problema sociale e criminale che coinvolge adolescenti sempre più giovani, privi di opportunità e abbandonati a una vita senza regole né prospettive.

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Le mafie del nuovo millennio secondo Gratteri: meno visibili, più potenti

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Le mafie sparano meno, uccidono meno e si mostrano meno, ma mai come oggi hanno avuto tanto potere. Questo è il quadro tracciato dal procuratore di Napoli Nicola Gratteri (foto Imagoeconomica in evidenza) e dall’analista Antonio Nicaso nel libro “Una cosa sola”, pubblicato da Mondadori. Il testo esplora come le organizzazioni criminali si siano integrate nell’economia globale, sfruttando lacune normative, connivenze politiche e tecnologie avanzate.

«Le mafie sono una macchina perfetta di riciclaggio», spiegano gli autori, mettendo in evidenza la loro capacità di mimetizzarsi e infiltrarsi nei settori chiave dell’economia, dalla finanza alle energie rinnovabili, passando per il mercato immobiliare.

Il modello mimetico: mafie e finanza

Uno degli aspetti più preoccupanti emersi dal libro è l’uso sofisticato di strumenti finanziari per riciclare denaro sporco. Tra questi spiccano i “non performing loans” (NPL), ovvero crediti deteriorati acquistati per essere rivitalizzati e utilizzati per legittimare capitali di origine illecita. È il caso di Raffaele Imperiale, ex broker del narcotraffico, che ha svelato come la camorra utilizzi l’ingegneria finanziaria per nascondere proventi illeciti.

Imperiale, famoso per aver custodito due quadri di Van Gogh rubati ad Amsterdam, ha collaborato con la giustizia rivelando dettagli sul riciclaggio tramite debiti deteriorati e l’utilizzo di criptovalute, strumenti sempre più presenti nei circuiti criminali.

Nuove frontiere: dark web e petrolmafie

Le mafie si espandono rapidamente, adattandosi a nuovi strumenti tecnologici e settori economici. Dal dark web alle criptovalute, fino alla commercializzazione fraudolenta di prodotti petroliferi, il loro raggio d’azione si amplia continuamente.

Il caso delle petrolmafie, indagato nel 2021 da quattro Procure italiane, ha evidenziato la capacità delle cosche di collaborare per gestire un business miliardario nella distribuzione di prodotti petroliferi. Clan come i Moccia, i Mancuso e i Piromalli hanno costruito un sistema complesso e integrato, dimostrando quanto le organizzazioni criminali siano ormai un attore economico rilevante.

Una risposta legislativa insufficiente

Secondo gli autori, l’attuale normativa antimafia, basata sul 416bis del codice penale, appare sempre più inadeguata per affrontare le mafie del nuovo millennio. Come sottolinea il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, il radicamento territoriale, elemento cardine della legislazione attuale, non basta più a descrivere organizzazioni che operano a livello globale e si integrano perfettamente nell’economia legale.

Le nuove tecnologie, come i criptofonini e i droni, offrono alle mafie strumenti per mantenere contatti tra boss detenuti e affiliati liberi, complicando ulteriormente il contrasto alle attività criminali.

Una sfida politica e legislativa

Le mafie si evolvono e si adattano più rapidamente delle risposte politiche e legislative. Gratteri e Nicaso lanciano un monito: per contrastare efficacemente il crimine organizzato serve un ripensamento radicale delle strategie di lotta, che tenga conto della crescente integrazione delle mafie nell’economia globale e del loro uso avanzato delle tecnologie.

«Non si può più ignorare il carattere sistemico del fenomeno», concludono gli autori, sottolineando che il contrasto alle mafie richiede non solo un aggiornamento delle leggi, ma anche una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica.

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