Prima della messa in onda già sono arrivate minacce mafiose all’autore dell’inchiesta giornalistica sui presunti rapporti opachi esistenti tra dirigenti della Juve, ultrà e ‘ndrangheta, poi a seguire le consuete minacce di risarcimento danni, querele per diffamazione ed altre scemenze tipiche di chi ha paura della verità. L’autore dell’inchiesta, Federico Ruffo, ha provato a capire semplicemente che cosa c’è dietro il misterioso suicidio di un ultrà juventino. E partendo da questa domanda ne è venuta fuori una bella inchiesta dove si intrecciano i rapporti tra spie, tifoseria, mafia e calciatori. Con documenti inediti che svelano l’ipocrisia di prestigiosi dirigenti del nostro calcio oltre che molte opacità nei rapporti tra tifoseria e società. Nella fattispecie si documentano i rapporti di certi ambienti mafiosi che insozzano le curve come la società più amata e odiata d’Italia. La Juventus di Andrea Agnelli. Sulle minacce al giornalista di Report e alla trasmissione, la Rai, in una nota ha espresso “massima solidarietà al giornalista Federico Ruffo, a Sigfrido Ranucci e a tutta la redazione di ‘Report'” ed ha condannato “gli inaccettabili tentativi di intimidazione subiti per l’inchiesta”. “Il lavoro di inchiesta di Report – si legge ancora nella nota di Viale Mazzini – rispecchia pienamente lo spirito e la missione del Servizio Pubblico che si muoverà sempre a tutela di un giornalismo libero, plurale ed imparziale, cardine fondamentale di ogni matura democrazia”.
Sulla stessa lunghezza d’onda Usigrai e Fnsi, che hanno espresso la propria solidarietà alla redazione del programma Rai. “Prima ancora di andare in onda l’inchiesta di Report sulle infiltrazioni nelle tifoserie ha scatenato le reazioni tipiche di quando si toccano affari sporchi”, scrivono i due sindacati in una nota congiunta, dichiarandosi “al fianco di Federico Ruffo, autore dell’inchiesta, del curatore Sigfrido Ranucci, e di tutta la redazione di Report” e chiedendo “alla Rai e alle autorità, ciascuno per le proprie competenze, la massima attenzione, vigilanza e protezione per fare muro di fronte alle minacce di ogni tipo”. Nel nostro piccolissimo, diciamo che che Federico Ruffo per Report ha messo in fila fatti, li ha raccontati con semplicità, senza fronzoli, senza indugiare in facili scandalismi, senza ricercare facili applausi, ha fatto ordine tra atti di una inchiesta delicata. È stato corretto, pulito, onesto, rispettoso della verità fattuale, documentato. Questo sì che è ottimo giornalismo. Ribadisco, Report è per la Rai l’eccellenza del giornalismo. E purtroppo, ma come è ovvio in Italia, per aver fatto questo lavoro, di cui dovremmo essergli grati, in tanti l’hanno subissato di minacce, annunci di querele, citazioni e altre forme di intimidazione che quei signori con cui ha parlato di mafia nello Stadium sono mammolette.
Comunque per chi volesse parlare con gli autori delle inchieste della puntata di Report, domani, martedì 23 ottobre, alle 14, diretta Fb sulla pagina di Report.
La replica della puntata, sempre su Rai 3 andrà in onda sabato 27 ottobre alle 16 30.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.
È accusata di aver picchiato un bimbo di 7 anni. Per questo una insegnante di sostegno di 63 anni è stata arrestata a Cesenatico e si trova ora ai domiciliari. Lo riporta l’edizione locale del Resto del Carlino, spiegando che l’arresto è avvenuto al termine di mesi di indagini partite dalle segnalazioni di un’altra insegnante e dei genitori che a fine 2023 avevano notato sul bimbo che qualcosa non andava, anche dei segni sul volto. Amareggiato il sindaco della città. Dopo le segnalazioni – i genitori rappresentati dall’avvocato Luca Bertuccini di Cesenatico – la Procura di Forlì aveva incaricato delle indagini i carabinieri. L’attività investigativa è stata svolta con militari in abiti civili e soprattutto con apparecchiature per le intercettazioni ambientali e video nella scuola elementare. Dalle registrazioni è emerso che le preoccupazioni di genitori e insegnante erano fondate.
Ne è scaturito, per gli inquirenti, un quadro di violenze e soprusi, condotte aggressive da parte della maestra, che si rivolgeva al bambino spesso con insulti e utilizzava gli schiaffi contro il piccolo, nonché tirate di orecchi e strattonamenti. Il provvedimento cautelare è stato firmato dal gip e materialmente eseguito l’altro giorno dai carabinieri. Nei prossimi giorni l’autorità giudiziaria convocherà la donna per la prima udienza del processo che la vedrà indagata per diversi episodi di violenza aggravata. L’arresto è scattato per impedire alla 63enne di continuare ad usare violenza sul minore e su altri scolari. “Sono molto triste e amareggiato per quello che è successo in una scuola del nostro territorio.
Non posso che condannare il comportamento di questa maestra che si è macchiata di un comportamento grave, scorretto e anche vile”, ha detto il sindaco di Cesenatico Matteo Gozzoli. “Lavoriamo da anni – continua – per il sostegno e la tutela di tutti i cittadini con disabilità, ancora di più se si tratta di bambini ed è inaccettabile quello che è successo. Sono vicino alla famiglia di questo bambino che abbraccio calorosamente e che spero di poter incontrare presto perché Cesenatico è una comunità in cui fatti come questi non possono e non devono accadere. La scuola è un luogo di apprendimento sì ma anche di calore umano e di accoglienza. L’unico spiraglio di luce in questa vicenda così cupa è che a denunciare i fatti e a far partire le indagini sia stata una collega, segno che l’ambiente scolastico è sano, responsabile e in grado di difendersi da questi casi isolati”.