Collegati con noi

Cronache

Inchiesta Eni, i giudici: pm ci nascosero dei video sul caso Nigeria

Pubblicato

del

Non solo la mancanza di “prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo”, un presunto teste ‘chiave’ dell’accusa definito “imbarazzante” e le dichiarazioni del ‘grande accusatore’ inattendibili o ondivaghe, ma anche prove a discarico degli imputati “non depositate agli atti del procedimento” dalla Procura di Milano. Sono durissime le motivazioni della sentenza di primo grado con cui, lo scorso 17 marzo, sono stati assolti “perche’ il fatto non sussiste” i 15 imputati, societa’ comprese, nel processo sulla presunta maxi tangente da 1,092 miliardi che l’accusa riteneva fosse stata versata a politici e funzionari della Nigeria da Eni e Shell in cambio del diritto di esplorazione di Opl245, giacimento petrolifero tra i piu’ ricchi del mondo. Un processo che ha creato frizioni tra Tribunale e Procura, che si intrecciano con lo scontro al quarto piano del Palazzo di Giustizia, arrivato fino al Csm, sull’inchiesta con al centro i presunti depistaggi del cosiddetto ‘falso complotto Eni’ e le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara, in carcere da ieri su ordine della magistratura di Potenza. In quasi 500 pagine i giudici della settima sezione – Marco Tremolada presidente, Mauro Gallina e Alberto Carboni a latere – hanno ‘demolito’ la ricostruzione offerta dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro, che avevano chiesto condanne severe sebbene avessero in mano solo prove “indiziarie”, come in “una sorta di diritto speciale che vede alleggerito l’onere probatorio in ragione della difficolta’ di svolgere indagini”. Assunto, quello dei pm, “non condivisibile”, secondo i giudici, non solo per la assenza di “appigli normativi”, ma anche “foriero” di decisioni “sbagliate e certamente ingiuste sotto il profilo di uguaglianza”. Sottolineando che “il metodo probabilistico non appartiene all’accertamento della responsabilita’”, il collegio sostiene che “all’esito dell’istruttoria non e’ stato possibile ricostruire con certezza tutti i fatti oggetto dell’imputazione nonostante l’acquisizione di migliaia di documenti e l’esame incrociato di decine di testimoni e consulenti” e “alcuni profili della vicenda restano in parte oscuri”. A cio’ si aggiunge un capo di imputazione con “contraddizioni intrinseche” che non ha contributo a costruire “prove certe” e l’aver valorizzato le dichiarazioni dell’ex manager-imputato (licenziato dalla compagnia petrolifera italiana) Vincenzo Armanna, di cui invece e’ venuta a galla la “volonta’” di “ricattare i vertici Eni” e il suo ad Claudio Descalzi (assolto, come il predecessore Scaroni, perche’ non prese parte a presunti accordi corruttivi) e di orchestrare “un impressionante vortice di falsita’” per “gettare fango”. E di questo, per il Tribunale, c’era gia’ prova in un video del luglio 2014 (sequestrato ad Amara nell’inchiesta sul ‘falso complotto’) non depositato dai pm, ma “che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorita’ inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati”. Poche parole ma calzanti, poi, quelle dei giudici sulla mossa dei pm che cercarono di introdurre come teste nel processo Amara, senza dire che avevano inviato a Brescia (fascicolo archiviato) passaggi di un verbale in cui l’avvocato gettava ombre sul presidente Tremolada parlando di “interferenze da parte della difesa Eni”. Richiesta definita “irrituale” e che imporrebbe “valutazioni che non competono a questo Tribunale”. Non e’ escluso, dunque, che il caso arrivi al Csm, mentre in mano alla Procura di Brescia sono le dichiarazioni del pubblico ministero Paolo Storari che proprio sulla gestione delle posizioni di Amara e Armanna entro’ in contrasto coi vertici della Procura milanese.

Advertisement

Cronache

Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

Pubblicato

del

Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

Continua a leggere

Cronache

Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

Pubblicato

del

Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

Continua a leggere

Cronache

Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

Pubblicato

del

Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto