“Obbligati a crescere – le donne fanno la differenza” è il titolo del webinar organizzato dal Messaggero ed ospitato stamattina dalla piattaforma Zoom. Il seminario ha messo in evidenza le mancanze e gli ostacoli che ancora impediscono una piena e reale parità di genere nel mondo del lavoro e nei diversi ambiti della società. Una strada ancora lunga da percorrere per il nostro Paese, una disparità che la pandemia ha drammaticamente contribuito ad accentuare. I relatori hanno però sottolineato pure le peculiarità e gli elementi positivi che si registrano nei casi – ancora troppo pochi – in cui la leadership è al femminile.
Ne “La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia”, il sociologo Luca Ricolfi evidenzia come alcuni dei Paesi che meglio hanno gestito la pandemia siano guidati da donne: è il caso di Jacinda Arden, primo ministro della Nuova Zelanda, dove il virus è stato di fatto estirpato; oppure la Germania di Angela Merkel, in cui la prima ondata fu gestita in modo molto più efficace rispetto ad altri Paesi europei; ancora, si guardi ai risultati ottenuti dai Paesi scandinavi dove – ad eccezione della Svezia – i capi del governo sono donne.

Due le possibili spiegazioni suggerite da Ricolfi. La prima guarda alla differenza dei tratti del carattere fra uomo e donna. “Le donne – asserisce Ricolfi – tendono ad essere più determinate e concrete e meno afflitte da meccanicismi narcisistici e di autoinganno: se c’è una decisione difficile da prendere, non tergiversano illudendosi che la situazione migliori da sé”. Il sociologo cita a tal proposito il caso danese, in cui la premier Mette Frederisken è intervenuta drasticamente quando sorse il problema dei visoni, facendone abbattere venti milioni. Una decisione non facile, che è stata da molti giudicata eccessiva ed affrettata, ma che dà la misura della determinazione di una donna al comando. La seconda lettura si rifà invece alla questione della discriminazione sul lavoro. “Una donna, per arrivare in una posizione apicale, deve superare molti più ostacoli rispetto ad un uomo. Per questo motivo, quando ci arriva, è di solito più preparata e strutturata”.

Segretaria generale della CISL, ha invece approfondito l’impatto della crisi economica sull’occupazione femminile. L’Istat restituisce un quadro angosciante: è donna il 98% di chi ha perso il lavoro nel mese di dicembre, 99mila su circa 101mila unità. “La pandemia ha colpito soprattutto i servizi, il settore terziario, dove molto alta è l’occupazione femminile – spiega Furlan -; le donne più giovani hanno poi spesso contratti precari, a tempo determinato: i modelli contrattuali che sono saltati per primi durante la pandemia. Questi due fattori hanno contribuito in modo significativo a questa drammatica condizione, in un Paese in cui già prima del Covid il tasso di occupazione femminile era nettamente inferiore alla media europea. Dopo anni di analisi e studi, è tempo di iniziare a prendere misure concrete”.
Un aspetto diventato centrale nelle nostre vite durante questi ultimi dodici mesi è stato il ricorso al lavoro da remoto, un mezzo mediante il quale sopperire alla chiusura obbligata degli uffici. “Nella dimensione da remoto si è perpetrato un antico vizio italiano: quello di chiedere tantissimo alle donne riconoscendo loro molto poco. Le statistiche ci dicono che l’occupazione femminile è calata sui luoghi fisici di lavoro, ma al contempo, dentro le mura domestiche, la cura dei figli è stato un tema anzitutto femminile”. È l’analisi di Michel Martone, professore ordinario di diritto del lavoro e relazioni industriali alla facoltà di economia della Sapienza.

Il Recovery Fund diventa quindi un’occasione irripetibile per ripensare il sistema lavorativo in una chiave più equa, un obiettivo che può essere perseguito rivedendo i modi di lavorare e vivere la famiglia e al contempo potenziando i servizi di assistenza. Secondo Martone “la cura dei figli non deve essere più solo una prerogativa femminile, è una cultura che va cambiata ripensando il welfare. Un Paese come il nostro, in cui il welfare è tutto improntato sulle pensioni e molto poco alla cura di figli, disabili e anziani, è destinato a rimanere indietro sotto il profilo dell’occupazione femminile. Abbiamo carenza di asili nido e ogni 1000 lavoratori solo 79 che si dedicano all’assistenza, contro una media europea di 116. Quel lavoro di assistenza – sostiene Martone – è tutto svolto dalle donne in casa senza alcun tipo di compenso o di riconoscimento”.

L’assenza di adeguati servizi di cura e assistenza e una legislazione che considera ancora la cura del figlio come un compito esclusivamente materno, finiscono per incidere negativamente sulle carriere delle giovani donne, non appena queste entrano in maternità. “Se guardo ai miei laureati, la maggior parte dei 110 e lode è delle ragazze, non c’è paragone – racconta il docente -. Le ragazze vengono assunte, incominciano la propria carriera, ma arrivate a trenta-trentacinque anni, nel momento clou per la loro affermazione professionale, arriva la maternità che si traduce troppo spesso in un rallentamento se non addirittura in un’interruzione della carriera. Una ragazza su cinque lascia il lavoro dopo il primo figlio; le statistiche peggiorano dopo il secondo. E se rientrano a lavoro, accumulano un ritardo rispetto ai colleghi maschi che non verrà più colmato”.

La pandemia ha inoltre prodotto un drammatico incremento dei reati di violenza domestica ai danni delle donne, un dato in controtendenza rispetto a quello degli altri reati, che hanno visto invece una contrazione. E per quanto riguarda i reati informatici? Anche qui per le donne il 2020 è stato un anno nefasto, come spiega la dottoressa Nunzia Ciardi, direttore della Polizia Postale. “In generale i reati cyber sono esplosi, perché con l’uso massivo della rete abbiamo sensibilmente allargato la superficie di attacco per i criminali. Le donne in rete hanno sempre pagato il prezzo più alto; i reati d’odio, quando colpiscono le donne, assumono un’orrenda connotazione di genere: dall’immancabile commento sull’aspetto fisico, all’invocazione frequente dello stupro, fino ai gruppi di giovani e giovanissimi che, tradendo il patto di fiducia con la partner, gettando in pasto alla rete immagini intime delle fidanzate. Tante giovani donne finiscono così in un inferno difficilmente gestibile. Le donne hanno sempre rischiato di più – conclude Ciardi -, ma durante la pandemia anche i reati d’odio nei loro confronti hanno subito un’impennata”.