“Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono ricordi, è carne viva che brucia ancora, sangue che scorre nelle nostre vene, idee che non moriranno mai. La mafia non può uccidere gli uomini liberi”. A Catello Maresca non piace parlare di Paolo Borsellino associandolo alle parole ‘ricordo’ o ‘commemorazione’. Per lui “ricordo” e “commemorazione” indicano un passato, “Borsellino e Falcone sono il presente e il futuro della lotta alla mafia in questo Paese” dice Maresca, oggi sostituto procuratore generale a Napoli.
Per 12 anni è stato magistrato alla Direzione distrettuale antimafia, ha certamente destrutturato l’apparato militare del clan dei casalesi incarcerando tutti i principali padrini, ne ha ridotto la potenza economica con confische per centinaia di milioni di euro. Lui sa che cos’è la mafia, ne conosce a menadito i comportamenti. E come Borsellino e Falcone sa che “la mafia non la si sconfigge con la magistratura ma con una società democratica sana che aborre i metodi mafiosi, combatte la cultura mafiosa”.
Dottor Maresca, non le chiedo di ricordare Paolo Borsellino ma vorrei che ci ricordasse l’insegnamento più importante che ci ha lasciato in eredità…
Insegnamenti che noi italiani non onoriamo anche se questo magistrato ha versato il suo sangue per le nostre libertà. Paolo Borsellino, mentre aspettava di essere ucciso, perchè sapeva che l’avrebbero ucciso, disseche “la lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Ecco, a chi oggi si sperticherà di elogi per Borsellino, pubblicherà foto di Borsellino sui suoi profili social, vorrei ricordare queste parole che pronunciò da cittadino italiano, non da icona dell’antimafia. Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e tanti altri italiani uccisi dalle mafie, non hanno mai aspirato a diventare eroi. Erano tutti quanti cittadini italiani che facevano il loro dovere come carabinieri, poliziotti, magistrati, giornalisti e aspiravano ad una società democratica per davvero e non ad una parvenza di democrazia sotto il giogo mafioso.
Dal 1992 ad oggi sono passati 28 anni, viviamo in una società meno mafiosa?
Lei che dice? A lei sembra di vivere in una società meno mafiosa?
Non importa quel che penso io, mi dica lei che cosa pensa?
Io penso che la sua domanda è generica.
Provo a essere più preciso: la mafia del 1992 è più o meno pericolosa della mafia che c’è oggi?
Ecco, come vede la sua prim’ancora che una domanda è una affermazione. Lei mi dice che la società di oggi è mafiosa e che quella del 1992 era parimenti mafiosa. Da me vuole sapere se era più pericolosa la mafia del tritolo e delle bombe che compiva stragi, faceva scorrere il sangue, assassinava servitori dello Stato come Falcone, Borsellino, Terranova, Scopelliti e centinaia di altri o se la mafia di oggi fa meno paura. È corretto? Ho capito bene la sua domanda?
Affari di mafia. Dopo la morte di Riina le cosche provano a riorganizzarsi
È corretto, risponda per favore.
Sotto il profilo formale la mafia di Totò Riina era violenta, sanguinaria, si faceva antiStato ma entrava anche nello Stato con suoi uomini, gestiva e dilapidava una spesa pubblica illimitata che nelle regioni del Sud veniva usata da certa classe dirigente come strumento di consenso sociale. Erano anni in cui gli italiani come Borsellino e Falcone avevano capito questo meccanismo e volevano col bisturi eliminare il cancro mafioso che si era introdotto nel corpaccione molle dello Stato italiano. Questi due magistrati e altri prima di loro erano come quei chirurghi che individuata la massa tumorale la asportano. Poi ci voleva la cura ulteriore, come la radioterapia o la chemioterapia, per sanare del tutto il corpo e rinascere a nuova vita. Non bastava arrestare, processare e mettere in cella i mafiosi. C’era bisogno poi di eliminare la mentalità mafiosa, bonificare la società dalla mafia col lavoro, con lo sviluppo dei territori, la libertà d’impresa, la dignità delle persone, la cultura della legalità. Non l’abbiamo fatto. O non l’abbiamo fatto bene. O non l’abbiamo fatto fino in fondo. E così il cancro mafioso, benché estirpato, s’è ripresentato.
Ma la mafia di oggi è più pericolosa, più infida di quella di ieri?
La mafia di oggi uccide un poco di meno, il commissario Montalbano direbbe ‘un’ammazzatina ogni tanto’. Ma la mafia di oggi è ancora dentro lo Stato. La mafia di oggi è dentro l’economia. La mafia di oggi fattura cifre da capogiro. La mafia di oggi non è solo il principale soggetto protagonista assoluto dell’economia del vizio (droga, prostituzione, azzardo), ma è una holding finanziaria e imprenditoriale che con i suoi tentacoli arriva nel cuore dello Stato e dell’economia. Lei è un giornalista, in questi anni di quale mafia ha parlato, ha scritto? Consigli comunali e regionali sciolti per mafia. Esponenti di primo piano delle istituzioni locali e del Parlamento arrestati o che sono stati processati e condannati per mafia. Società di primo piano infiltrate dalla mafia. Investimenti delle mafie nell’economia legale. Beni per miliardi di euro che inquinano l’economia legale. A lei sembra che la mafia di oggi sia meno pericolosa di quella di ieri?
Qualche ‘ammazzatina’ in meno ma non pare che lei dica che quella di oggi è meno pericolosa…
Lasci stare quel che dico io. Tragga lei le conclusioni. E si ricordi che la gente che ci legge o che ci ascolta ha le idee chiare, spesso anche più e meglio di noi.
Che cosa la spaventa di più della mafia di oggi?
A me spaventa il fatto che non se ne parli. La parola mafia è sparita dall’agenda politica di questo Paese da 15/20 anni. Eppure dovremmo parlarne. Siamo ancora in una fase di grave emergenza sanitaria mondiale, l’Italia e tanti altri stati europei spenderanno centinaia di miliardi di euro col recovery fund per riavviare i motori dell’economia e far fronte ai pesanti contraccolpi che avremo sul piano sociale. Voi pensate che la mafia sia dispiaciuta per tutto questo? Che sia in crisi? Questi sono i momenti migliori, gli ambiti più appetiti in cui la mafia fa gli affari migliori. Sono gli anni della mafia del covid. E badi bene, la mafia del covid non è un titolo di giornale, è la futura emergenza criminale in cui piomberemo se non inoculiamo subito nel nostro sistema normativo gli anticorpi che pure abbiamo. Noi italiani abbiamo un buon sistema normativo che deve essere aggiornato, sistemato, attualizzato.
Avere una buona legislazione antimafia non significa però aver un buon esercito che ha le armi giuste per sconfiggere la mafia. La magistratura vive uno dei suoi momenti peggiori, l’Anac sembra essere morta come autorità anticorruzione, non abbiamo una maggioranza parlamentare solida pronta a raccogliere queste sfide….
E lei che cosa consiglia? Di chiudere baracca e restare fermi a piangerci addosso? La magistratura è un corpo sano. Là dove ci saranno mele marce saranno tolte dalla cesta, se sono stati commessi dei reati, chi li ha commessi pagherà, ma non mi appassionano quei discorsi del tipo ‘anche la magistratura fa pena’. Comportamenti sbagliati dei singoli non devono mettere in discussione il tasso di moralità e la capacità di amministrare la giustizia in questo Paese della stragrande maggioranza di uomini e donne con la toga che quotidianamente fanno sacrifici incredibili. Quanto all’Anac così com’ènon serve. Va rivitalizzata, bisogna farla ripartire. La corruzionerappresenta un pesantissimo freno allo sviluppo economico del nostro Paese. Almeno quanto lo è la mafia. Anzi direi che sempre più di frequente stiamo concretamente verificando come le corruzioni importanti siano gestite con modalità mafiose. Ora però L’Anac non deve più essere lo spauracchio, l’incubo per tutta la pubblica amministrazione. Non deve fare paura al dirigente o al funzionario che teme la scure del magistrato censore prima ancora che l’intervento dell’autorità giudiziaria. L’Anac deve prevenire la corruzione non bloccare gli appalti.
E la politica, la classe dirigente di questo Paese?
Non amo contrapposizioni. Lo Stato deve essere una squadra, tutti giochiamo la stessa partita contro le organizzazioni mafiosi. Però…
Nino Di Matteo
Però?
Mi piacerebbe ci fosse un buon rapporto di collaborazione e cooperazione con la magistratura antimafia. Ma non è così. La storia del Dap con Nino Di Matteo non è stata bella. Andrebbero usate le esperienze di quegli inquirenti che quotidianamente lottano contro la mafia per migliorare, aggiornare le norme che combattono i reati di mafia. Anche perchè non utilizzare l’esperienza e le conoscenze acquisite sul campo dai magistrati antimafia è uno spreco che non ci possiamo permettere. È come se negli anni ‘90 nessuno avesse ascoltato Falcone e poi dopo la sua uccisione tutti fossero diventati suoi amici. Mi scusi stavo fantasticando di un mondo ideale, perché quello che vedo è proprio quello che è già successo!
* Questa sera a Catello Maresca sarà consegnato il premio “19 luglio 1992, Terra Viva dalla parte della legalità”. Quest’anno l’evento si terrà nel comune di Quarto (Na), in piazzale Europa.È un premio all’impegno quotidiano del magistrato contro le mafie sia come inquirente che come divulgatore delle buone pratiche di legalità.
Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.
Acquista online un pacco di figurine e gli spediscono anche eroina: è accaduto a Pompei. L’uomo -un professionista-quando ha visto quelle due buste contenti polvere bianca ha capito che qualcosa non andava ed ha avvisto i carabinieri, il carico di droga è stato sequestrato. Ma ecco come è andata: nel cuore della mattinata, un 43enne ha suonato alla porta della stazione dei Carabinieri.
Un professionista, incensurato, col volto pallido. Tra le mani una scatola imballata. Qualche giorno prima – ha raccontato ai militari – aveva acquistato su un portale online un box di 50 figurine di calciatori.
Quando si è ritrovato ad aprire il pacco non ha trovato solo i volti dei campioni del calcio. ma anche due buste di cellophane sigillate contenenti polvere bianca. Quella roba aveva un’aria sospetta. Così si è lanciato in auto fino ai Carabinieri, con la speranza di non essere fermato da qualche pattuglia durante il tragitto. Sapeva in cuor suo che la scusa dell’acquisto online non avrebbe retto e sarebbe sicuramente finito nei guai.
Ebbene, i militari hanno preso in consegna il pacco e analizzato la sostanza all’interno con un narcotest. Poteva essere bicarbonato o farina e invece era eroina. Pura. 180 grammi di stupefacente, un carico del valore di diverse migliaia di euro.
La droga è stata sequestrata ma continuano le indagini per risalire al “negoziante” sbadato. E soprattutto a quel pusher che dovrà attendere per riprendere la venduta.
Non è la prima volta che accade. Il 2023 era iniziato da pochi giorni quando un acquisto inaspettato si trasformò in un fenomeno mediatico. Un uomo acquistò sul web una scena campestre da aggiungere al presepe. Nel “pacco”, però, arrivò un carico di 10 chili di erba. Non quella per abbellire le rocce di Betlemme ma marijuana pronta per essere dosata e venduta.
Allo stupore per l’errore evidente, si aggiunse una domanda più che lecita: “Chi avrà ricevuto i due pastori invece del carico di droga?”
Era estate quando arrivò la telefonata che ogni cronista aspettava: la Dia, la Direzione investigativa antimafia di Napoli aveva arrestato Francesco Schiavone, detto Sandokan. Allora era il capo del clan dei Casalesi, una delle più potenti cosche criminali del Paese. Era un sabato, l’11 luglio del 1998.
Ero stata nel covo di Carmine Alfieri, nel Nolano, dove il boss della Nuova Famiglia viveva in un rifugio dove si accedeva attraverso una botola e conservava nel frigorifero babà e salmone, non potevo mancare di entrare nel bunker del boss a Casal di Principe. Con gli uomini della Dia, all’epoca dei fatti guidata da Francesco Cirillo (poi arrivato ai vertici della Polizia di Stato, vice capo della Polizia), arrivammo sul posto. Una delle tante case della zona di Casale. Viveva sotto terra il potente padrino dei Casalesi.
Bisognava infilarsi in un cunicolo e poi c’era una specie di “vagoncino” che viaggiava su binari: così si arrivava al nascondiglio segreto di Sandokan. Uno stanzone spoglio dove dipingeva soggetti sacri e guardava film come il Padrino di Francis Ford Coppola. Fu così che si scoprì che nell’Agro Aversano il boss e i suoi compari, ma anche i suoi familiari, utilizzavano cunicoli e botole per incontrarsi e parlarsi.
Altro che Gaza e Hamas di questi giorni, 30 anni fa, in quella zona tra il Napoletano e il Casertano, la mafia casalese realizzò decine di cunicoli sotto terra per nascondersi o per sfuggire alle retate.
Qualche volta sottoterra, qualche altra volta passavano attraverso i sottotetti: in moltissime abitazioni, anche di insospettabili incensurati sono stati trovati piccoli bunker, locali nascosti anche ad occhi più esperti. Intercapedini ricavate nei ripostigli nelle cucine dove trascorrevano la latitanza i boss e i gregari.
Francesco Schiavone detto Sandokan. È stato il primo padrino dei casalesi a manovrare sindaci e piegare istituzioni agli interessi del clan
Il pentimento di Francesco Schiavone è una vittoria dello Stato: a 70 anni, e dopo oltre un quarto di secolo in carcere, dopo la decisione di collaborare con la giustizia di due dei suoi figli, anche Sandokan, barba e capelli grigi, stanco e invecchiato, ha fatto il salto, confermato dalla Direzione Nazionale Antimafia. Adesso sarà interessante capire quello che potrà raccontare: dall’affare rifiuti che aveva il suo epicentro proprio nell’Agro Aversano ai collegamenti con gli imprenditori anche del Nord; dagli affari con i colletti bianchi, con i politici non solo locali (nel ’90 era stato arrestato a casa di un sindaco della zona) ai rapporti e alle connivenze in mezzo mondo, ed anche i collegamenti, veri o presunti, con i terroristi, quelli di Al Qaida e non solo.
Insomma potrebbe esserci un nuovo terremoto giudiziario se davvero decidesse di vuotare finalmente il sacco, senza se e senza ma, e questo anche se gli anni sono passati e di molte vicende si è ormai quasi perso il ricordo. Adesso bisognerà anche capire quali familiari andranno in località segrete: sua moglie Giuseppina, insegnante, per esempio lo seguirà?.
Il primo della famiglia a pentirsi fu suo cugino Carmine Schiavone: non dimenticherò mai la giornata trascorsa a girare per Casal di Principe per cercare di parlare con sua figlia che non aveva voluto seguire il padre, anzi. Pioveva, nessuno per strada, incontrai Giuseppina che aveva scritto una lettera a suo padre per dirgli la sua disapprovazione per aver deciso di collaborare con la giustizia. Non volle venire in macchina con me e la troupe e allora la seguimmo, un lungo giro fino a casa dove nonostante un piccolo camino acceso faceva tanto freddo. Quella storia era il fatto più importante del giorno: ci ‘aprimmo’ il TG5. Nulla faceva pensare che proprio Francesco Schiavone si sarebbe poi deciso a collaborare. Ma il clan è ormai decimato tra arresti e omicidi tra le fazioni, la lunga detenzione, un tumore diagnosticatogli alcuni anni fa, hanno probabilmente fiaccato il vecchio boss. E adesso tanti misteri forse potranno essere chiariti.
L’avvio del percorso di collaborazione da parte di Francesco Schiavone, soprannominato ‘Sandokan’, viene confermato dalla Direzione nazionale Antimafia. Secondo quanto si apprende la decisione sarebbe maturata nelle ultime settimane, durante le quali la Dna e la Dda di Napoli hanno svolto un lavoro con la massima discrezione. Schiavone è stato arrestato nel luglio del 1998 e da allora è recluso al regime del 41 bis. Anche due suoi figli, Nicola e Walter, hanno avviato alcuni anni fa lo stesso percorso ora intrapreso dal padre.
Schiavone fu arrestato nel 1998 e condannato all’ergastolo nel maxi processo Spartacus e per diversi omicidi; prima di lui hanno deciso di pentirsi il figlio primogenito Nicola, nel 2018, quindi nel 2021 il secondo figlio Walter. Restano in carcere gli altri figli Emanuele Libero, che uscirà di cella ad agosto prossimo, e Carmine, mentre la moglie di Sandokan, Giuseppina Nappa, non è a Casal di Principe. La decisione di Sandokan potrebbe anche essere un messaggio a qualcuno a non provare a riorganizzare il clan, un modo per mettere una pietra tombale sulle aspirazioni di altri possibili successori. La collaborazione di Francesco Schiavone potrebbe far luce su alcuni misteri irrisolti, come l’uccisione in Brasile nel 1988 del fondatore del clan Antonio Bardellino, o sugli intrecci tra camorra e politica.
L’avvio del percorso di collaborazione da parte di Francesco Schiavone, soprannominato ‘Sandokan’, viene confermato dalla Direzione nazionale Antimafia. Secondo quanto si apprende la decisione sarebbe maturata nelle ultime settimane, durante le quali la Dna e la Dda di Napoli hanno svolto un lavoro con la massima discrezione. Schiavone è stato arrestato nel luglio del 1998 e da allora è recluso al regime del 41 bis. Anche due suoi figli, Nicola e Walter, hanno avviato alcuni anni fa lo stesso percorso ora intrapreso dal padre.