Con un’occupazione in ripresa benché distante dai livelli europei, sale il rapporto tra attivi e pensionati, fondamentale indicatore di tenuta della previdenza italiana: nel 2023 si attesta a quota 1,4636, miglior valore della serie storica tracciata dal rapporto: a indicarlo è il dodicesimo rapporto del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, in cui si sottolinea pertanto che non ci sono allarmismi: il sistema è sostenibile, “regge e continuerà a farlo, a patto di compiere, in un Paese che invecchia, scelte più oculate su politiche attive per il lavoro, anticipi ed età di pensionamento”.
Per prima cosa, afferma il presidente Alberto Brambilla, “occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema”, tra cui “l’adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita”. Ma non dei contributi per la pensione anticipata.
Il rapporto di Itinerari previdenziali descrive quindi un sistema sì in equilibrio ma “la cui stabilità nei prossimi anni dipenderà sia dalla capacità di porre un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza cui si è assistito negli ultimi anni, sia da quella di affrontare adeguatamente la transizione demografica in atto”.
Il rapporto tra lavoratori e pensionati dunque sale, benché ancora al di sotto dell’1,5 già indicata come soglia minima necessaria per la stabilità di medio-lungo termine della previdenza obbligatoria. In particolare, nel 2023 aumenta, ancora una volta, il numero di pensionati, che salgono dai 16,131 milioni del 2022 a 16,230 milioni (+98.743). Al contempo, dopo la forte crisi causata dal Covid, prosegue la netta risalita del tasso di occupazione, che a fine 2023 sfiora il 62%, pur restando tra i più bassi d’Europa.
“Volendo trarre qualche conclusione, malgrado i molti catastrofisti che parlano di un sistema insostenibile all’interno dell’attuale quadro demografico, i conti della nostra previdenza reggono, e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, nel 2035-40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980 – coorti molto significative in termini pensionistici, in termini previdenziali assai significative data la loro numerosità – si sarà pensionata”, spiega il presidente Alberto Brambilla. Servono comunque delle scelte coerenti con la demografia.
“Per prima cosa – afferma – occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema, vale a dire adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita, limitando da una parte le numerose forme di anticipazione oggi previste dall’ordinamento, e, dall’altra, premiando in termini di flessibilità i nastri contributivi più lunghi”. Ribadita pertanto nel rapporto la necessità di bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età.