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Cronache

Il “Metodo Maresca” per la cattura di Zagaria diventa una tesi di laurea. E se fosse studiato e usato anche per prendere Matteo Messina Denaro?

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Quando il 22 ottobre 2007 fui nominato alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli con il compito dichiarato di catturare Michele Zagaria, già latitante da oltre 12 anni, non avrei mai immaginato che il metodo utilizzato e sperimentato sul campo potesse diventare oggetto di studio di una tesi di laurea.
E invece martedì una appassionata studentessa del corso di laurea di Scienza delle investigazioni dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, sotto la sapiente guida del Professor Antonio Pagliano, esporrà quanto ha studiato e ha scoperto del “cd. metodo Maresca”.
È per me sicuramente motivo di vanto e un bel riconoscimento per i tanti sacrifici miei, dei colleghi e dei collaboratori tutti.
Ma è anche occasione per ricordare ed incasellare scientificamente quel lavoro che per lo più nasceva e si sviluppava sulla base di intuizioni e tentativi spesso vani.
Ma sicuramente è stato un metodo che aveva un fondamento solido nel riaffermare il ruolo centrale di coordinamento e di direzione del pubblico ministero in una materia in genere snobbata perché ritenuta erroneamente poco giurisdizionale.
E così sono curioso di ri-leggere l’importanza delle indagini per la cattura di latitanti fatte utilizzando fascicoli aperti contro ignoti, perché se c’è un latitante ci sono sempre persone da identificare che lo assistono e lo aiutano.
Sono curioso di verificare i primi passi della teoria dei cerchi concentrici, perché partendo da lontano e tagliando i rami secchi ti avvicini sempre di più all’epicentro che è il latitante. E la scelta di interrompere le indagini e di procedere (rectius arrestare) contro i favoreggiatori non più utili per la cattura non può che essere riservata al Pubblico Ministero.
Sono curioso di verificare come veniva motivato l’uso, il primo in Italia, del troian, il captatore informatico che poi ha avuto tanto successo investigativo.
Sono curioso di mostrare come sono stati possibili i pedinamenti aerei, di giorno e di notte da tre e più chilometri di distanza, delegando l’attività a reparti speciali in volo.
E oggi forse capisco anche di più chi all’epoca, all’indomani della cattura, mi diceva: “dottore ma perché non vi mandano in Sicilia a prendere quell’altro?”
Chissà forse all’epoca, coi miei uomini, con la mia squadra ci sarei anche andato. Per cercare in tre anni di mettere in pratica i principi di quel metodo appena sperimentato con successo.
E magari avrei scoperto che non esiste nessun metodo, che è stata solo fortuna. O forse no.
Ma, fortunatamente, non c’è stato nessuno che abbia mai neanche lontanamente pensato di farci provare, nessuno neanche, in verità, che si sia incuriosito ed abbia organizzato corsi e approfondimenti a livello didattico nelle nostre varie scuole.
E così ci dobbiamo accontentare di essere diventati dei fenomeni addirittura da studiare all’università.

Catello Maresca*

Catello Maresca.

*L’autore è magistrato alla Procura di Napoli ed ha firmato in questi anni le più importanti inchieste per le catture di mafiosi latitanti del clan dei casalesi e per il sequestro dei beni illecitamente accumulati. Parliamo di sequestri di beni per centinaia di milioni di euro. Tra i tanti arresti che recano la firma di Maresca, quello più importante è senza dubbio quello di  Michele Zagaria. Era considerato il capo della cosca. E da oltre 14 anni era inafferrabile latitante. Oggi Michele Zagaria marcisce in carcere al 41bis. Grazie al “metodo Maresca”. 

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Cronache

Tragedia a Muggia: madre ucraina uccide il figlio di nove anni, il bambino era stato affidato al padre

A Muggia, in provincia di Trieste, una madre ucraina ha ucciso il figlio di nove anni tagliandogli la gola. Il bambino, affidato al padre dopo la separazione, era in visita alla donna.

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Una tragedia sconvolgente ha scosso la comunità di Muggia, alle porte di Trieste. Una donna di nazionalità ucraina ha ucciso il figlio di nove anni, tagliandogli la gola con un coltello all’interno della loro abitazione in via Marconi, nel centro cittadino.

L’allarme è stato lanciato nella serata di ieri dal padre del bambino, che vive fuori dal Friuli Venezia Giulia e non riusciva a mettersi in contatto con l’ex compagna. Quando la Squadra Mobile di Trieste è arrivata nell’appartamento, il piccolo era già morto.


Una famiglia seguita dal tribunale e dai servizi sociali

La vicenda familiare era nota ai servizi sociali ed era seguita anche dal tribunale minorile. Dopo la separazione, la custodia del bambino era stata affidata al padre, ma la madre aveva mantenuto il diritto di incontrare il figlio, secondo quanto stabilito dalle disposizioni del giudice.

I rapporti tra i due genitori erano difficili, come hanno riferito persone vicine alla famiglia. Ieri sera, l’incontro si è trasformato in tragedia.


Il corpo trovato in bagno, la madre in stato di choc

Quando i Vigili del Fuoco e gli agenti di polizia sono entrati nell’abitazione, il corpo del bambino era già senza vita da diverse ore e si trovava nel bagno di casa.

La donna è stata trovata in stato di choc e soccorsa sul posto. Gli inquirenti stanno ricostruendo la dinamica dei fatti e le eventuali motivazioni del gesto, mentre la Procura di Trieste ha aperto un’inchiesta per omicidio volontario aggravato.

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Cronache

Inchiesta sui cellulari in carcere: perquisizioni ad Avellino, 18 indagati tra detenuti ed ex detenuti

I Carabinieri di Avellino e la Polizia Penitenziaria hanno eseguito perquisizioni nel carcere “Antimo Graziano” e in altre sedi: 18 indagati per uso illecito di cellulari in carcere, uno anche per stalking.

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I Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Avellino, insieme alla Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale e al Nucleo Investigativo Regionale per la Campania, hanno eseguito un decreto di perquisizione locale e personale a carico di 18 indagati, tutti detenuti o ex detenuti dell’istituto penitenziario “Antimo Graziano” di Avellino.

Gli indagati sono gravemente sospettati del reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti (articolo 391 ter del codice penale). In un caso si procede anche per atti persecutori (articolo 612 bis).


L’operazione nel carcere “Antimo Graziano”

Le perquisizioni, disposte dalla Procura della Repubblica di Avellino, hanno interessato le celle ancora occupate dagli indagati con l’obiettivo di rintracciare e sequestrare dispositivi elettronici e schede SIM detenuti illegalmente.

Il provvedimento nasce da un’indagine condotta dai Carabinieri di Avellino a partire da febbraio 2025, mirata a contrastare il fenomeno dell’uso di smartphone e cellulari all’interno delle carceri, spesso utilizzati per comunicazioni non autorizzate o per accedere ai social network.


La rete dei contatti e i profili social

Le investigazioni hanno rivelato una vera e propria rete di telefoni connessi, una “connected cell” che consentiva ai detenuti di mantenere rapporti continui con l’esterno. Attraverso l’analisi di tabulati telefonici e telematici, spesso riferiti a utenze intestate a soggetti fittizi, gli investigatori hanno ricostruito il circuito relazionale dei detenuti, identificando familiari e amici contattati illegalmente.

Su alcuni profili social riconducibili agli indagati sono stati trovati messaggi e immagini di rilievo investigativo, che confermano l’uso illecito dei dispositivi per comunicazioni e attività potenzialmente criminali.


Un caso di stalking tra i reati scoperti

Le indagini hanno inoltre evidenziato che i telefoni venivano utilizzati anche per commettere altri reati. In particolare, un detenuto è risultato gravemente indiziato di atti persecutori ai danni della vedova dell’uomo da lui ucciso, utilizzando lo smartphone per continuare a molestarla anche dal carcere.

L’inchiesta resta aperta, mentre la Procura di Avellino valuta ulteriori sviluppi per accertare eventuali responsabilità all’interno dell’istituto penitenziario.

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Scoperto bunker-serra di marijuana nell’Aspromonte: denunciati padre e figlio a Platì

I carabinieri scoprono un bunker sotterraneo nascosto sotto una stalla a Platì: coltivavano marijuana con un impianto elettrico abusivo. Denunciati padre e figlio.

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Un bunker sotterraneo nascosto sotto una stalla in mezzo alla vegetazione aspromontana è stato scoperto dai carabinieri della Stazione di Platì, insieme ai militari dello Squadrone Eliportato Cacciatori “Calabria” e del 14° Battaglione “Calabria”, nel corso di un’operazione di controllo del territorio contro la produzione di sostanze stupefacenti.

Padre e figlio, entrambi denunciati in stato di libertà, sono ritenuti responsabili di aver realizzato una vera e propria serra “indoor” per la coltivazione di cannabis, trasformando un capanno agricolo in disuso in un sofisticato laboratorio sotterraneo.

Il cavo elettrico che ha svelato il bunker

L’operazione è scattata dopo una lunga attività di osservazione. Durante una perlustrazione in un’area rurale, i carabinieri hanno notato un cavo elettrico che si perdeva tra gli alberi. Seguendone il tracciato per centinaia di metri, sono giunti all’ingresso di un capanno apparentemente abbandonato.

Dietro un pannello basculante azionato da un sistema di contrappesi, nascosto alla vista, si celava l’accesso a un bunker sotterraneo. All’interno, i militari hanno trovato una piantagione di marijuana con piante alte tra 70 e 110 centimetri, illuminate e ventilate da un impianto elettrico e di aerazione alimentato da un allaccio abusivo alla rete pubblica.

Una serra illegale tecnologicamente avanzata

La struttura era interamente realizzata abusivamente e dotata di tutto il necessario per garantire la crescita indisturbata delle piante: trasformatori, ventilatori, lampade e sistemi di ventilazione ricreavano le condizioni ottimali di una serra professionale.
Tutto era stato studiato nei minimi dettagli per nascondere l’attività e mantenerla attiva in modo costante, lontano da occhi indiscreti.

L’operazione dei carabinieri di Locri

L’intervento rientra in una più ampia strategia di contrasto al narcotraffico condotta dai carabinieri della Compagnia di Locri, che da tempo intensificano i controlli nelle aree più impervie dell’Aspromonte, spesso utilizzate per la produzione e lo stoccaggio di droga.

In una nota, l’Arma ha sottolineato come “la conoscenza del territorio e l’esperienza operativa dei militari restano un baluardo fondamentale contro l’illegalità”, ribadendo l’impegno quotidiano nel controllo delle zone rurali più isolate della Calabria.

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