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Il medico arrestato per aver ucciso la moglie-collega rimane in carcere

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featured, Stupro di gruppo, 6 anni ,calciatore, Portanova

Si discuteva solo delle esigenze cautelari e non si è entrati nel merito delle accuse, ma nonostante il tempo trascorso dal presunto omicidio, un anno e mezzo, per i giudici del tribunale della Libertà Giampaolo Amato deve rimanere in carcere. I giudici hanno respinto il ricorso dei difensori del medico 64enne, confermato l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Claudio Paris ed eseguita l’8 aprile per l’omicidio premeditato della moglie Isabella Linsalata, 62 anni, anche lei medico, trovata morta in casa tra il 30 e il 31 ottobre 2021.

Secondo la Procura, che mette a segno un punto benché in fase di indagini preliminari, la donna sarebbe stata assassinata con sostanze sedative e psicotrope, sevoflurano e midazolam. Amato, difeso dagli avvocati Cesarina Mitaritonna e Gianluigi Lebro, risponde anche dei reati di peculato e detenzione illecita di farmaci psicotropi, oltre che di aver ucciso in maniera simile la suocera, Giulia Tateo, morta 22 giorni prima della figlia. Per quest’ultima ipotesi le indagini sono in corso e il secondo presunto omicidio non è argomento della misura di custodia.

I giudici del Riesame (presidente Andrea Santucci, Silvia Monari e Renato Poschi) hanno depositato solo il dispositivo con cui confermano la decisione del Gip, ma non le motivazioni che saranno redatte in seguito. Ed è anche per questo che i difensori oggi non commentano la decisione, non potendosi confrontare con il ragionamento che ha portato il collegio a decidere per il mantenimento della restrizione massima per il loro assistito. In udienza gli avvocati avevano chiesto l’annullamento dell’ordinanza, la revoca delle misure e in subordine i domiciliari, sottolineando che si tratta di un procedimento “meramente indiziario”.

Secondo il Gip il movente è di tipo innanzitutto sentimentale, legato a una relazione extraconiugale con una giovane donna. Ma anche in parte economico: Amato “avrebbe molto da perdere da un eventuale divorzio con la moglie, che viceversa dispone di un apprezzabile patrimonio immobiliare, e già gliene ha prospettato la possibilità”, evidenziava nell’ordinanza. E anche la necessità della custodia cautelare, sempre per il giudice, è collegata con l’altra donna, sottoposta al “concreto rischio di subire una sorte analoga a quella della Linsalata, tanto più ove la stessa dovesse decidere davvero di rifarsi una vita”.

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In Cina i soldi della droga ripuliti, 33 arresti

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Una centrale di riciclaggio di denaro nel cuore di Rona. Nel quartiere Esquilino, a due passi dalla stazione Termini, soggetti di nazionalità cinese hanno messo in atto “sistematiche” operazioni di ripulitura del contante, un fiume di denaro proveniente dalla attività di spaccio, che veniva poi spedito in Cina. E’ quanto emerge da una indagine della Guardia di Finanza coordinata dai pm della Dda di piazzale Clodio. Complessivamente 33 le misure cautelari emesse dal gip. Ad applicarle uomini del Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata (Gico) del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Roma e dal Gruppo di Fiumicino, coadiuvati dallo Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata (Scico) della Guardia di Finanza e dalla Direzione Centrale Servizi Antidroga (Dcsa).

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti gli esercizi commerciali in zona Esquilino, esistenti solo formalmente, fungevano in realtà da “centri di raccolta” del denaro di provenienza illecita destinato a essere trasferito all’estero (prevalentemente in Cina) in maniera anonima e non tracciabile. Questa intermediazione finanziaria illegale, si fondava sul metodo “Fei Ch’ien” (letteralmente “denaro volante”), che consiste nel virtuale trasferimento del denaro all’estero. Nei fatti, il denaro depositato presso il broker cinese non lasciava fisicamente il Paese di partenza, venendone invece trasferito il solo “valore nominale” alla controparte/broker presente nel Paese estero.

La successiva compensazione poteva avvenire con modalità diverse quali, tra le altre, il ricorso a corrieri di valuta, bonifici “diretti” di importo frazionato (al fine di aggirare i vincoli antiriciclaggio) ovvero a mezzo di trasferimento. A capo dell’organizzazione c’era Zheng Wen Kui, classe 1968. Era lui, secondo quanto accertato dagli inquirenti, che si occupava anche del reclutamento dei nuovi associati e di prendere accordi con i “clienti”, tra cui anche i ‘narcos’ attivi nella zona di Tor Bella Monaca e San Basilio.

Zheng, inoltre, offriva supporto “logistico” ai corrieri di valuta, per conto dei quali pianificava e organizzava dettagliatamente i viaggi aerei con cui trasportare il denaro all’estero con l’obiettivo di eludere i controlli alle frontiere. Gli inquirenti hanno proceduto, infine, al sequestro di circa 10 milioni euro nei confronti dei “money mule” incaricati di trasferire fisicamente la valuta fuori dal territorio ed hanno accertato conferimenti di denaro di provenienza illecita in favore della compagine cinese a Roma per oltre 4 milioni di euro.

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‘Solo una ringhiera’, le accuse della società del bus precipitato

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“Purtroppo non era un guard rail ma una ringhiera”. Le immagini delle telecamere sul luogo dell’incidente di Mestre appaiono unanimi: si vede il pullman guidato da Alberto Rizzotto salire lentamente lungo la parte destra della rampa del cavalcavia, nonostante il semaforo forse verde, e poi piegarsi, sfondare con estrema facilità il guard rail e precipitare di sotto. La domanda che tutti oggi si fanno è come sia stato possibile che un pullman, per quanto del peso ragguardevole di 13 tonnellate perchè elettrico, possa aver spazzato via la barriera di protezione tagliandola come fosse un coltello nel burro. In quel punto dalla notte scorsa sono state poste deli limitatori di jersey in cemento.

E il primo ad aver più di un dubbio sul fatto che la protezione a destra non abbia fatto il suo dovere è lo stesso amministratore delegato di ‘La Linea’, la compagnia di trasporto coinvolta nell’incidente, Massimo Fiorese. “C’è una telecamera fissa sopra il cavalcavia di cui ha visto solo frammenti di immagine: si vede l’autobus che a una velocità minima si appoggia su un guard rail – accusa – che purtroppo non è un guard rail ma una ringhiera”. E aggiunge: “in questi casi è colpa di tutto e di niente perchè non è stato il guard rail che è andato addosso all’autobus. Però sicuramente quel guard rail…. “.

Tanto è vero che, dice ancora l’amministratore delegato, “mi sembra che lo stiano sostituendo e ci sono dei lavori in corso, giusto poco prima” del punto dell’incidente. E in effetti da diverse settimane il Comune di Venezia ha avviato i lavori di rifacimento del cavalcavia, attualmente in pessimo stato e corroso dalla ruggine. Un progetto, spiega l’assessore comunale ai trasporti Renato Boraso, del costo di oltre 6 milioni di euro. Nel piano, assicura, era compresa anche una nuova barra di protezione a difesa dalle uscite di strada. Sulla tempistica della realizzazione, però, non vi è alcuna data certa.

“Quel guard rail è vetusto. Sapevamo di dover mettere in sicurezza il cavalcavia – rassicura – il cantiere è già avviato”. Che quel guard rail possa aver avuto un ruolo nell’incidente ne è convinto anche il presidente dell’Asaps, l’associazione di amici e sostenitori della Polizia Stradale, Giordano Biserni. “Parliamo di ipotesi – dice – ma da quello che abbiamo potuto accertare attraverso i nostri referenti, quello era un guard rail a unica onda alto un metro e mezzo e non il triplo, come sarebbe stato necessario per il contenimento di un veicolo che può raggiungere le 18 tonnellate. Un guard rail così può contenere un’auto ma un bus del genere è difficile”. Il prefetto di Venezia, Michele Di Bari, preferisce essere più cauto. Alla domanda dei giornalisti se erano in corso lavori di ammodernamento e rifacimento sul cavalcavia che riguardassero espressamente anche il guard rail risponde: “questo non lo so, so che ci sono dei lavori in corso per consolidare dei piloni. Questo da quanto emerge anche visivamente”.

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Manovra azzardata o malore? Le ipotesi sulla strage del cavalcavia di Mestre

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Sono due le ipotesi al vaglio della magistratura veneziana, che sta indagando sulla caduta del bus dal cavalcavia di Mestre; una manovra azzardata, con l’affiancamento a un altro bus e un guardrail vecchio; oppure, sommato a questo, un malore dell’autista che non è riuscito a controllare il mezzo, poi precipitato.

APERTA UN’INDAGINE CONTRO IGNOTI

La Procura della repubblica di Venezia ha aperto un fascicolo per ora contro ignoti, con l’ipotesi di reato di omicidio stradale plurimo. Il Procuratore capo Bruno Cherchi ha precisato che sono stati posti sotto sequestro il guardrail, la zona di caduta del bus e la carcassa del mezzo, con la ‘scatola nera’ “che sarà esaminata – ha rilevato – solo quando si saprà che non è un’operazione irripetibile”.

IL VIDEO CON LA CADUTA DELL’AUTOBUS

Sembra comunque da escludere un urto o una manovra per evitare un mezzo che tagliava la strada. Nel pomeriggio è stato diffuso un video tratto dalle telecamere di sicurezza della “Smart control room” del Comune di Venezia. Si vede l’autobus scendere la rampa del cavalcavia, quindi affiancare un altro bus che indica con la freccia di svoltare a sinistra, ‘sparire’ alla vista ma poi si nota che piega verso destra e cade dal bordo della carreggiata. L’altro bus accende le luci dei freni e le quattro frecce di emergenza.

LA ‘STRISCIATA’ DI 50 METRI CONTRO IL GUARDRAIL

Il Procuratore di Venezia ha escluso il ‘contatto’ con altri mezzi: “La dinamica – ha riferito – ha visto il bus toccare e scivolare lungo il guardrail per un cinquantina di metri, e infine, con un’ulteriore spinta a destra, precipitare al suolo. Non ci sono segni di frenata, né contatti con altri mezzi. Non si è verificato alcun incendio, né c’è stata una fuga di gas delle batterie a litio, che hanno provocato fuoco e fumo”. Anzi, proprio l’altro bus ha chiamato i soccorsi, e l’autista ha anche lanciato un suo estintore verso il mezzo precipitato.

SALVINI PUNTA IL DITO SULLE BATTERIE

Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini esclude un “problema di guardrail”, e ha puntato il dito sulle batterie elettriche del bus, che “prendono fuoco più velocemente di altre forme di alimentazione e in un momento in cui si dice che tutto deve essere elettrico uno spunto di riflessione è il caso di farlo”.

L’AUTOPSIA SULL’AUTISTA

L’attenzione degli investigatori si accentrerà dunque su un eventuale malore dell’autista del bus, Alberto Rizzotto, per cui verrà disposta l’autopsia, assieme all’esame del suo cellulare “e di quanto possa permettere di dare certezze su quanto è accaduto”, ha aggiunto Cherchi. Quanto alle condizioni dell’autista il direttore operativo della compagnia La Linea assicura che “stava guidando da tre ore e mezzo, peraltro non continuative” e che “non era certo stanco: Non lavorava dal giorno prima, quindi aveva goduto abbondantemente delle ore di riposo previste”.

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