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Esteri

Il Brasile di Lula

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Scrivo a caldo, con una soddisfazione senza enfasi. Quella di Lula da Silva appare come una vittoria amara, con lo scarto infimo di appena due milioni di voti su un avversario come Jair Bolsonaro, discreditato di fronte al suo popolo e alla comunità internazionale.
Tocca a Lula ora governare questo che è uno dei più grandi Paesi del mondo per estensione (8,5 milioni di kmq, 5 posto), per popolazione (215 milioni, 7 posto), per reddito nazionale (1.900 miliardi di dollari, 10 posto).
Faccio qualche considerazione rapida, ripromettendomi di tornare con calma su questo Paese che amo e che ammiro. Intanto, il Brasile di Lula, oggi, non è il Brasile di cui Lula diventò Presidente nel 2002. Cominciavo a frequentare il Paese da un anno, allora e l’atmosfera che si respirava nelle bachadas carioca come nelle Università mineires o nelle caatingas nordestine, non era quella che si respira oggi. Non i termini di ragionamento, non i valori di riferimento, non la geografia dei bisogni e delle aspirazioni. Qualcosa è cambiato e bisogna capire esattamente che cosa è cambiato a livello sociale e territoriale. Senza la pretesa di “fare da soli” da parte del nuovo potere che si insedia a Brasilia, ma sapendo alimentare il dibattito pubblico, ascoltando gli intellettuali e ricercatori che popolano le Università, tra i migliori del mondo.


Come la giri e come la volti, 58 milioni di brasiliani (49,1%) hanno votato Bolsonaro. Volevano un secondo mandato per quest’uomo rozzo, senza cultura, incapace non dico di affrontare, ma persino di pensare i problemi di un Paese immenso: ricco di risorse e di possibilità, è vero, ma afflitto da ingiustizie secolari -nelle sue città come nelle sue campagne- e gravato da un tasso di diseguaglianza sociale che ha pochissimi eguali al mondo.
Il Brasile di Lula, oggi, è un Paese agonizzante. Non solo per i problemi macro-economici che lo affliggono da troppo tempo: deindustrializzazione, lavoro precario, crescita media del PIL dello 0,15% negli ultimi dieci anni, un fisco che non funziona, il 30% della popolazione con un reddito inferire a 100$ al mese. Agonizzante, sì, non solo per le povertà crescenti e il ritorno di quella fame che proprio Lula volle ridurre a “zero” con il suo celebre programma. Oggi, rammentiamo questo dato drammatico, qualcosa come il 15% della popolazione già soffre la fame e molti milioni di brasiliani sono a rischio. E continuando, non solo per l’accentuarsi del divario geografico tra un Nord povero e un Sud ricco. Ma altresì perché la presidenza bolsonarista ha impoverito il significato politico della politica, se possiamo dire, sostituendo l’azione di governo efficace e trasparente con surrogati ideologici vecchi quanto è vecchia la destra peggiore. Altresì perché ha seppellito sotto una coltre geologica di retorica, i fatti, i risultati disattesi nel corso di un intero mandato presidenziale: ossia le sorgenti stesse della razionalità e della critica del giudizio. Bolsonaro, rammentiamo anche questo, è il Presidente negazionista che ha portato il suo Paese al disastro pandemico: sia sul piano sanitario, con 700.000 morti per Covid19; sia sul piano  economico, con un sistema produttivo in ginocchio, ormai incapace di crescere.


Ci possiamo attendere ora che Lula, il vecchio operaio, il vecchio sindacalista, sappia costruire una nuova solidarietà sociale, con il buon uso del pragmatismo e del linguaggio antiretorico che sono da sempre le sue risorse migliori. Ci possiamo attendere che tiri fuori il Brasile dal suo incongruo isolamento, nel quadro tuttavia di un progetto di unità e di rilancio dell’America Latina su una scena internazionale piena di vecchi e nuovi populismi. Continuando a parlare portoghese quando incontra un Presidente USA. E ci auguriamo che assuma per intero, nei principi come nei fatti, la sua responsabilità per l’Amazzonia: per i diritti delle popolazioni indigene contro gli interessi ciechi dell’agro-industria, per i diritti delle genti “quilombolas” contro le prevaricazioni della grade proprietà terriera, nella consapevolezza che l’Amazzonia è un bene ecologico primario di questo Pianeta. Dato in gestione al Brasile, certo, di cui però il Brasile non può disporre a piacimento e addirittura, come è successo con Bolsonaro, fino alla distruzione.

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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L’Australia esorta i suoi cittadini a lasciare Israele

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Il governo australiano ha esortato i suoi cittadini in Israele a “andarsene, se è sicuro farlo”. “C’è una forte minaccia di rappresaglie militari e attacchi terroristici contro Israele e gli interessi israeliani in tutta la regione. La situazione della sicurezza potrebbe deteriorarsi rapidamente. Esortiamo gli australiani in Israele o nei Territori palestinesi occupati a partire, se è sicuro farlo”, secondo un post su X che pubblica gli avvisi del dipartimento degli affari esteri e del commercio del governo australiano.

Il dipartimento ha avvertito che “gli attacchi militari potrebbero comportare chiusure dello spazio aereo, cancellazioni e deviazioni di voli e altre interruzioni del viaggio”. In particolare è preoccupato che l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv “possa sospendere le operazioni a causa di accresciute preoccupazioni per la sicurezza in qualsiasi momento e con breve preavviso”.

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Ian Bremmer: l’attacco di Israele è una sorta di de-escalation

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C’è chi legge una escalation e chi invece pensa che sia una de escalation questo attacco israeliano contro l’Iran. “È un allentamento dell’escalation. Dovevano fare qualcosa ma l’azione è limitata rispetto all’attacco su Damasco che ha fatto precipitare la crisi”. Lo scrive su X Ian Bremmer, analista fondatore di Eurasia Group, società di consulenza sui rischi geopolitici.

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Usa bloccano bozza su adesione piena Palestina all’Onu

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Gli Usa hanno bloccato con il veto la bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che raccomandava l’adesione piena della Palestina alle Nazioni Unite. Il testo ha ottenuto 12 voti a favore (Algeria, Russia, Cina, Francia, Guyana, Sierra Leone, Mozambico, Slovenia, Malta, Ecuador, Sud Corea, Giappone), 2 astensioni (Gran Bretagna e Svizzera) e il no degli Stati Uniti.

La brevissima bozza presentata dall’Algeria “raccomanda all’Assemblea Generale che lo stato di Palestina sia ammesso come membro dell’Onu”. Per essere ammessa alle Nazioni Unite a pieno titolo la Palestina doveva ottenere una raccomandazione positiva del Consiglio di Sicurezza (con nove sì e nessun veto) quindi essere approvata dall’Assemblea Generale a maggioranza dei due terzi.

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