La ‘coalizione dei volenterosi’ annuncia il passaggio alla fase “operativa” del piano per le garanzie di sicurezza a Kiev, compresa la missione di peacekeeping da inviare in Ucraina se e quando cesseranno le ostilità con Mosca. E’ questo il messaggio che rimbalza, almeno a parole, dal vertice virtuale convocato dal premier britannico Keir Starmer con i leader di un gruppo di Paesi alleati dell’Occidente globale salito a quota 26, fra nazioni europee e non: messaggio che si affianca all’impegno rinnovato a rilanciare “la massima pressione collettiva”, economica in primis, sulla Russia di Vladimir Putin per spingere lo zar a smetterla con “i giochini” e “i rinvii” e accogliere la proposta di tregua dell’amministrazione Usa di Donald Trump già accettata da Volodymyr Zelensky; e che tuttavia lascia aperte ancora a molte incognite sulla stessa fattibilità di questa missione futura e su quali Paesi siano effettivamente inclini a esporsi ‘boots on the ground’; mentre Giorgia Meloni, presente alla call dopo qualche esitazione, chiarisce senza mezzi termini che l’Italia al momento si chiama fuori da qualunque invio di truppe.
“La mia sensazione è che (Putin) prima o poi dovrà sedersi al tavolo e impegnarsi in discussioni serie”, ha esordito Starmer, provando a dar corpo al tentativo di presentarsi come una sorta di Winston Churchill in tono minore di fronte ai leader – orfani dell’America dell’era Trump – di una ventina di Paesi europei, Ue e non Ue, della Turchia, dell’Australia, della Nuova Zelanda e del Canada del neo insediato primo ministro-banchiere Mark Carney. Oltre che ai vertici dell’Unione e della Nato. “Nell’ultima settimana molto è successo”, ha poi aggiunto, riferendosi all’esito dei colloqui americano-ucraini in Arabia Saudita, non senza rivendicare a Kiev il titolo di “partito della pace” per l’impegno già sottoscritto verso “un cessate il fuoco senza condizioni di 30 giorni”; e rinfacciare invece a Putin di perdere tempo a colpi di “si, ma…” rispetto a una soluzione che deve necessariamente passare l’interruzione dei “suoi barbarici attacchi all’Ucraina”: mentre “il mondo ha bisogno di azioni, non di parole vuote o di condizioni”.
Di qui l’impegno dei ‘volenterosi’ a riaffermare da un lato la volontà di continuare a sostenere Kiev affinché possa difendersi nell’immediato e dall’altro a consolidare il suo apparato militare in vista di una pace futura per “scoraggiare ulteriori aggressioni”; ma anche d’imporre di “nuove sanzioni” contro la Russia per “indebolire la macchina da guerra” di Mosca e costringere l’uomo del Cremlino a negoziare senza ulteriori rinvii. In prospettiva resta inoltre l’obiettivo di un “dispiegamento della coalizione” in Ucraina, “sul terreno e con aerei nei cieli, nell’eventualità di un accordo”, in modo da garantire “una pace sicura e duratura”.
Progetto a guida anglo-francese presentato da Starmer il 2 marzo al precedente summit della Lancaster House assieme a Emmanuel Macron e per approfondire il quale – fra una riunione e l’altra sull’asse Londra-Parigi – il prossimo appuntamento è fissato ora per giovedì 20: con la convocazione nella capitale britannica dei comandanti militari delle nazioni in prima linea, a cui spetterà delineare “progressi pratici” a livello di pianificazione “operativa”. Un’occasione destinata a limitare le presenze allo zoccolo duro dei Paesi pronti fin d’ora a mettere a disposizione truppe sulla carta (come Regno Unito, Francia, Turchia e forse il Canada). Paesi fra cui l’Italia non c’è, non prevedendo al momento di partecipare con “una forza militare nazionale sul terreno”, ha informato seccamente Meloni, tornando a invocare piuttosto la necessità di lavorare senza fughe in avanti sia con i partner europei sia con gli Stati Uniti per definire “garanzie di sicurezza credibili ed efficaci”.
Quelle garanzie che in termini militari Donald Trump per ora nega, in barba al fatto che anche Starmer le abbia più volte indicate come indispensabili da parte di Washington; tanto più che il Cremlino allo schieramento di un qualsiasi contingente euroccidentale in Ucraina ha già detto categoricamente no (a dispetto delle parole di Macron secondo cui Mosca in proposito non dovrebbe avere “voce in capitolo”). Mentre da Kiev, dopo l’intervento alla videocall con sir Keir, Zelensky insiste a negare che i soldati ucraini siano ormai circondati nel Kursk sotto la spinta dell’avanzata russa, ma ammette come Putin stia in effetti tirando la corda per “guadagnare (altro) terreno”. E intanto designa un team di negoziatori, guidato al di sopra del governo dal fedelissimo capo del suo staff, Andriy Yermak, per i colloqui di pace: da tenere se e quando gli alleati riusciranno a indurre lo zar a dire basta.
Per avviare un dialogo con Donald Trump, bisogna tenere rapporti personali diretti. Giorgia Meloni ne è sempre stata convinta e questo è il principale messaggio che spera sia colto anche a Bruxelles dopo la sua missione a Washington. Anche per sfruttare al massimo i tre mesi di sospensione dei dazi commerciali per far decollare il negoziato Usa-Ue con l’orizzonte di un libero mercato transatlantico. Un percorso che la premier spera possa essere sugellato da un incontro fra il presidente americano e Ursula von der Leyen. Con la disponibilità di ospitarlo a Roma. Meloni è atterrata all’alba all’aeroporto di Ciampino, dopo una missione durata poco meno di 48 ore (voli inclusi), anche per poter essere a Palazzo Chigi in tempo per ricevere il vicepresidente Usa JD Vance. Prima da sola, poi in un pranzo allargato ai vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. La soddisfazione supera la fatica, i suoi parlano di “un risultato straordinario”.
Trump ha accolto l’invito per una visita ufficiale in Italia “nel prossimo futuro”, anche “valutando la possibilità di organizzare, in tale occasione, un incontro tra Stati Uniti ed Europa”, conferma la dichiarazione congiunta. Tra un mese il tycoon sarà in Europa, per il vertice Nato a L’Aia (24-25 giugno), seguito subito dopo da un Consiglio europeo. Potrebbe essere la finestra giusta, perché la sospensione dei dazi scade il 10 luglio. Più in là c’è il summit in Italia sulla ricostruzione dell’Ucraina, tema emerso sia nel bilaterale alla Casa Bianca, dove Meloni ha difeso la tesi di “Putin aggressore”, sia in quello con Vance, in cui sono stati condivisi “gli sforzi per una pace giusta e duratura”. Da Palazzo Chigi fanno notare che “la situazione ora è molto positiva”, e “piano piano si va avanti”.
Il percorso, però, è ancora incerto e tutto da costruire, secondo i ragionamenti e le analisi approfondite di queste ore ai piani alti del governo. Perché Trump si è detto convinto che si arriverà a un accordo, ma sui dazi non ha cambiato idea. E non sarebbe disposto a passi avanti finché non saranno chiare le mosse europee su una serie di temi per lui cruciali. Inclusi i rapporti con la Cina. Con il presidente americano non si può prescindere da relazioni personali dirette, avrebbe sottolineato la stessa Meloni nella telefonata sull’esito del viaggio alla presidente delle Commissione Ue von der Leyen. Non l’unica della giornata. Dopo questo genere di missioni c’è sempre un contatto con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
La “special relationship”, come l’ha definita la Casa Bianca, fra Meloni e Trump è stata confermata da battute e sorrisi nei momenti del bilaterale aperti alle telecamere. “Donald ha fiducia totale in Giorgia”, assicurano fonti di governo. Per dirla con il tycoon, la sua ospite “ha lasciato a tutti un’impressione fantastica”. E sul libro degli ospiti della Casa Bianca ha ribadito quel “Make West Great Again”, mutuato dal trumpiano MAGA.
A margine del colloquio c’è stato anche un saluto affettuoso con Elon Musk, anche se i rapporti fra i due – raccontano – non sono fluidi come qualche mese fa, e di Starlink alla Casa Bianca non si è parlato, come ha assicurato Meloni. L’obiettivo della presidente del Consiglio è porsi sempre più come un interlocutore europeo chiave per Washington. Sul piatto ha messo una serie di sforzi per “rafforzare la cooperazione”, con investimenti per 10 miliardi di euro. Maggiori importazioni di gas naturale liquefatto dagli Usa, gli impegni condivisi a non discriminare fiscalmente le Big Tech, a rafforzare la cooperazione sulla Difesa, a proteggere infrastrutture e tecnologie critiche e sensibili utilizzando solo fornitori affidabili, a sviluppare il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, a cooperare in materia spaziale con due missioni su Marte nel 2026 e 2028. Inoltre l’Italia contribuirà alla rinascita della cantieristica navale americana e gli Usa valuteranno opportunità di investimento offerte dalle Zes. La dichiarazione congiunta cita anche il Piano Mattei, e la cooperazione su infrastrutture cruciali “seguendo l’esempio” dell’approccio di Trump sugli Accordi di Abramo.
“È un documento vergognoso – attacca Angelo Bonelli di Avs – che sancisce, nero su bianco, la resa totale dell’Italia agli Stati Uniti”. “La premier – è la sintesi della leader del Pd Elly Schlein – si è impegnata ad aumentare la spesa militare e a far investire 10 miliardi alle imprese italiane negli Usa quando non ne ha trovato ancora uno per tutelare quelle colpite dai dazi ed evitare delocalizzazioni. In cambio pare abbia ottenuto una visita di Trump in Italia. Non mi pare un gran bilancio”.
L’Ucraina e gli Stati Uniti hanno firmato un memorandumche dimostra l’intenzione di finalizzare e concludere un accordo sulle terre rare. Lo annuncia il vice primo ministro e ministro dell’Economia ucraina Yulia Svyrydenko, come riporta Ukrainska Pravda. “Oggi – ha detto – abbiamo compiuto un passo avanti verso un accordo di partenariato economico congiunto con gli Usa. Il memorandum dimostra il costruttivo lavoro congiunto e l’intenzione di finalizzare e concludere un accordo vantaggioso per entrambi i nostri popoli”. Oggi Donald Trump ha detto che l’intesa sui minerali, negoziata per mesi, sarà firmata “giovedì prossimo”.
Svyrydenko ha affermato che la parte ucraina si sta preparando a creare un Fondo di investimento per la ricostruzione dell’Ucraina. “L’accordo in questione aprirà opportunità per investimenti significativi, modernizzazione delle infrastrutture e una partnership reciprocamente vantaggiosa tra Ucraina e Stati Uniti: è con questo obiettivo che i team stanno lavorando al documento”, si legge nel memorandum pubblicato dai media ucraini. “Ora ci aspetta la finalizzazione del testo dell’accordo e la sua firma. E poi la ratifica da parte dei parlamenti”, ha osservato il capo del Ministero dell’Economia dell’Ucraina.
Gli Stati Uniti annunciano nuove tasse per le navi di fabbricazione cinese che attraccano negli Stati Uniti, in una mossa che rischia di rivoluzionare le rotte di spedizione globale e far salire la tensione con la Cina. Le tariffe, secondo la proposta elaborata dall’amministrazione Trump, entreranno in vigore fra sei mesi.
– Le nuove tasse colpiranno anche i proprietari e gli operatori cinesi di navi non prodotte in Cina, ha affermato ieri il Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti (Ustr) in un comunicato stampa. Le tariffe saranno applicate per ogni visita negli Stati Uniti (non per ogni porto statunitense visitato) e per un massimo di cinque volte all’anno per nave. L’Ustr ha inoltre introdotto una tariffa specifica per le imbarcazioni costruite all’estero che trasportano veicoli, la cui entrata in vigore è prevista sempre fra 180 giorni. Misure in arrivo anche per chi trasporta gas naturale liquefatto (Gnl). “L’Ustr ha intrapreso oggi (Ieri, ndr) un’azione mirata per ripristinare la cantieristica navale americana e rispondere alle azioni, alle politiche e alle pratiche irragionevoli della Cina volte a dominare i settori marittimo, logistico e della cantieristica navale”, si legge nella nota.
Nel 2024, l’allora presidente Joe Biden aveva incaricato l’Ustr di indagare sulle “pratiche sleali della Cina nei settori della cantieristica navale, del trasporto marittimo e della logistica”. Lindagine è stata portata avanti dal presidente Donald Trump, che all’inizio di marzo ha anche annunciato la creazione di un Ufficio per la costruzione navale da affiancare alla Casa Bianca. Dominante alla fine della seconda guerra mondiale, l’industria navale americana ha progressivamente perso terreno e oggi rappresenta solo lo 0,1% della cantieristica navale a livello mondiale, che è dominata ormai dall’Asia. La Cina oggi costruisce quasi la metà delle navi varate, davanti a Corea del Sud e Giappone. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), i tre Paesi asiatici rappresentano oltre il 95% delle navi civili costruite.