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Grave incidente in Cina: 21 morti e 29 feriti per lo schianto di un autobus in una miniera in Mongolia

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Tragedia in Cina all’interno della più grand miniera d’argento che si trova in Mongolia: 21 persone sono morte, 29 i feriti a casa di un incidente in un tunnel della galleria. Con ogni probabilità si sono rotti freni del mezzo sul quale c’erano 50 minatori ed è andato a sbattere con violenza.

La miniera d’argento è gestita dalla Yinman Mining, nella Mongolia interna. La notizia dell’incidente è stata diffusa dai media locali dopo che era stata resa nota  dal ministero della Gestione delle emergenze.

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Relazione sessuale con detenuto, 9 anni a direttrice carcere

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E’ stata condannata a ben 9 anni di reclusione effettiva in carcere l’ex dirigente penitenziaria britannica Kerri Pegg, 42 anni, travolta da uno scandalo che ha fatto scalpore sui media del Regno, suscitando attenzioni a tratti morbose, sulla base dell’accusa d’aver intrattenuto una relazione sessuale dietro le sbarre con un detenuto.

Pegg, considerata fino al momento dell’arresto una sorta di astro nascente tra le funzionarie donne dell’amministrazione carceraria d’oltre Manica, è stata riconosciuta colpevole dinanzi alla Preston Crown Court di abuso di potere per aver allacciato uno stretto legame sentimentale e fisico durato anni con Anthony Saunderson: trafficante di droga, e figura di spicco della criminalità locale a Liverpool, recluso nella prigione di Kirkham, nel Lancashire (nord dell’Inghilterra), di cui lei era divenuta direttrice scalando i gradini della carriera a tempo di record.

Un comportamento che il giudice Graham Knowles ha stigmatizzato duramente nel motivare la severità e il peso della sentenza, definendolo “sconcertante e senza scrupoli”. “Lei sapeva come si sarebbe dovuto agire – ha affermato rivolgendosi all’imputata, presente in aula a occhi bassi -, era stata addestrata e aveva a disposizione il sostegno necessario. I limiti erano chiari ed espliciti, ma lei ha scelto consapevolmente di violarli”.

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A Istanbul intesa solo sui prigionieri, non sulla tregua

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Russi e ucraini, dopo tre anni e mezzo di guerra, si sono ritrovati faccia a faccia per tentare di avvicinare le proprie posizioni. E’ questo il risultato più rilevante arrivato da Istanbul, nella misura in cui questo round di colloqui diretti rischiava addirittura di saltare dopo gli insulti reciproci volati alla vigilia. Quanto alla sostanza, le parti hanno concordato un nuovo scambio di mille prigionieri e si è cominciato a discutere di una possibile tregua, ma su questo fronte la strada resta in salita. Perché se la delegazione inviata dal Cremlino si è detta “soddisfatta” dei negoziati, lasciando aperto uno spiraglio anche ad un incontro Putin-Zelenky, Kiev ha accusato Mosca di “richieste territoriali irricevibili” come condizione per un cessate il fuoco.

Al palazzo presidenziale Dolmabahce i colloqui diretti russo-ucraini, i primi dal marzo del 2022, sono stati preceduti da una serie di incontri preparatori con i mediatori, la Turchia padrona di casa e gli Stati Uniti. Le aspettative non erano alte, soprattutto dopo il forfait di Vladimir Putin e la conseguente assenza al tavolo di Volodymyr Zelensky. Tanto che Donald Trump, che fino all’ultimo aveva sperato nell’incontro tra due leader rivali in Turchia, all’inizio della giornata ha rinunciato all’idea di volare a Istanbul per suggellare un faccia a faccia che sarebbe stato storico. Qualcosa nella città sul Bosforo si è comunque mosso. Le due delegazioni, guidate dal ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov e dal consigliere presidenziale russo Vladimir Medinsky, si sono confrontate per un’ora e 40 minuti, affiancati dai turchi. L’accordo è arrivato su uno scambio di prigionieri “mille per mille” nei “prossimi giorni”, hanno fatto sapere i russi.

“Un ottimo risultato”, anche secondo gli ucraini. Riguardo invece all’altra priorità di Kiev, quella della tregua, c’è stata una fumata nera. Umerov ha spiegato che le parti “hanno scambiato” idee su “alcune modalità” per arrivare all’interruzione delle ostilità, mentre Medinsky ha confermato che ora i due team dovranno “presentare” e “descrivere nei dettagli” la loro “visione”. In concreto tuttavia la sensazione è che Mosca continui a prendere tempo: fonti ucraine hanno riferito che i delegati russi hanno insistito sul ritiro delle forze di Kiev da “gran parte del territorio” occupato. Fumo negli occhi per i mediatori di Zelensky, che hanno gestito la situazione “con calma” e hanno illustrato le loro posizioni, è stato riferito.

Altro punto chiave per gli ucraini era quello di organizzare quanto prima un incontro tra i due capi di Stato, che sarebbe il primo dall’inizio dell’invasione. Umerov a Istanbul ha ribadito che questo meeting “dovrebbe essere il prossimo passo” nel percorso verso la pace. I negoziatori del Cremlino hanno fatto sapere di aver “preso nota di questa richiesta”. Il governo turco, tirando le fila del negoziato, ha voluto guardare al bicchiere mezzo pieno. Anche perché, secondo quanto reso noto dal ministro degli Esteri Hakan Fidan, i due team hanno concordato “in linea di principio” di incontrarsi di nuovo.

Poco più lontano da Istanbul, invece, gli alleati occidentali di Kiev hanno smorzato gli entusiasmi: “La posizione russa non può essere definita in alcun modo costruttiva”, hanno denunciato da Tirana i leader dei volenterosi (Starmer, Macron, Tusk e Merz) in una dichiarazione congiunta dopo una riunione a cui ha partecipato anche Zelensky, con Trump in videocollegamento. Mentre per l’Ue Ursula von der Leyen è tornata a evocare sanzioni contro Mosca, che includerebbero il divieto di accesso al gasdotto Nord Stream e una stretta sulle banche. I riflettori a questo punto tornano sulla Casa Bianca, che il Cremlino continua a considerare l’unico interlocutore. Trump, rientrando dalla sua missione in Medio Oriente, ha insistito di “volere incontrare Putin il prima possibile”, aggiungendo che nel frattempo potrebbe chiamare ancora una volta lo zar, per capire le sue reali intenzioni. Un vertice tra i due leader è considerato “necessario” anche dal Cremlino. Ma “prima”, ha osservato Dmitry Peskov, “occorre una preparazione adeguata”.

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A Gaza 53mila vittime. Trump, ‘la gente muore di fame’

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A nulla valgono gli appelli internazionali a fermare le bombe e riprendere gli aiuti umanitari. Israele continua a martellare Gaza con i raid che solo nelle ultime 24 hanno provocato 90 morti nella Striscia, come parte di un’escalation dell’offensiva ebraica che ha accumulato centinaia di uccisi negli ultimi giorni, fino a superare il tragico bilancio di oltre 53mila vittime dall’inizio della guerra, secondo il conteggio di Hamas. Mentre cresce l’allarme per la crisi umanitaria nell’enclave dove da ormai oltre due mesi Israele ha imposto un blocco degli aiuti umanitari che costringe alla fame la popolazione palestinese. Tanto che persino l’alleato di ferro dello Stato ebraico, Donald Trump, è voluto intervenire: “Molte persone stanno morendo di fame”, ha riconosciuto il tycoon da Abu Dhabi, ultima tappa del suo tour nel Golfo che non ha visto una fermata dall’amico Israele. “Stiamo tenendo d’occhio Gaza. E ci occuperemo di questo”, ha sottolineato.

Da settimane le agenzie umanitarie avvertono di una carenza critica di tutto, dal cibo all’acqua pulita, dal carburante ai medicinali. Tanto da spingere l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, a parlare di “una spinta verso un cambiamento demografico permanente a Gaza, che viola il diritto internazionale ed equivale a una pulizia etnica”. Israele ha giustificato la decisione di interrompere gli aiuti a Gaza con l’obiettivo costringere Hamas a fare concessioni, mentre decine di ostaggi israeliani restano nelle mani dei miliziani nella Striscia.

Lunedì, il gruppo palestinese ha liberato Edan Alexander, l’ultimo rapito vivente con cittadinanza Usa, dopo un dialogo diretto con Washington. Ora, i miliziani chiedono a Trump di rispettare la sua parte di accordo: l’alto funzionario di Hamas Taher al-Nunu ha dichiarato all’Afp che il gruppo “si aspetta che l’amministrazione statunitense eserciti ulteriori pressioni” su Israele “per aprire i valichi e consentire l’ingresso immediato degli aiuti umanitari”. Intanto, nella Striscia cresce la conta dei morti per l’offensiva israeliana, che secondo il ministero della Salute di Hamas ha provocato 2.985 uccisi solo dalla rottura della tregua avvenuta a metà marzo, portando il bilancio complessivo della guerra a 53.119 morti nel territorio palestinese.

Secondo i media israeliani, l’esercito ha effettivamente intensificato la sua offensiva in linea con un piano approvato dal governo di Netanyahu all’inizio di questo mese, sebbene non vi sia stato alcun annuncio formale di un’espansione della campagna. Contemporaneamente, l’aeronautica israeliana ha messo in atto la rappresaglia contro gli Houthi, dopo che giovedì i ribelli yemeniti hanno fatto scattare l’allarme antiaereo nel centro dello Stato ebraico per un attacco con un missile, intercettato dall’Idf.

Meno di 24 ore dopo, raid israeliani si sono abbattuti contro i porti yemeniti delle città di Hodeida e Salif, dei quali mercoledì l’esercito israeliano aveva chiesto l’evacuazione accusando i ribelli di utilizzarli per “attività terroristiche”. E non è finita, “c’è ancora molto da fare”, ha minacciato Netanyahu: “Non siamo disposti a rimanere in disparte e a lasciare che gli Houthi ci attacchino. Li colpiremo molto di più, compresi i loro leader e tutte le infrastrutture che permettono loro di colpirci”.

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