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Gomorra – Le Origini: tra pecore, sogni e anni ’70, nasce il nuovo racconto del mito Savastano

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Sul set di Gomorra – Le Origini, scena 528 due, le pecore pascolano indisturbate tra carcasse di automobili, pareti scrostate e motorini d’epoca, nel cuore di San Giovanni a Teduccio, periferia orientale di Napoli. L’aria è impregnata di un odore antico, rurale, che restituisce il senso perduto di una Napoli che non esiste più. È il mondo da cui tutto comincia. È il tempo in cui Pietro Savastano era solo un adolescente a bordo di un Ciao, tra campi, case basse e sogni troppo grandi.

Il prequel che cambia tono: Napoli luminosa, non tenebrosa

Dimenticate la crudezza della serie madre. Qui tutto è solare, polveroso e umano. Prodotta da Sky Studios e Cattleya, la serie arriverà in esclusiva su Sky e in streaming su NOW a gennaio 2026, con già in scrittura la seconda e terza stagione. Marco D’Amore, alla regia dei primi quattro episodi, racconta: «Questa serie ha un quoziente di libertà che Gomorra non si era mai concessa». Il racconto abbandona i colori tenebrosi per restituire una Napoli pre-terremoto, quella degli anni ’70, povera ma viva, ingenua ma piena di desiderio.

Gli inizi di Don Pietro e la Napoli divisa in tre

La serie mostra l’ascesa di Pietro Savastano, adolescente cresciuto nella povertà con un sogno concreto: affrancarsi dal suo destino. Il mondo che lo circonda è fatto di tre Napoli diverse: quella popolare e disgraziata dei ragazzini, quella glam dei piccoli criminali, e quella ingessata della borghesia. Un contesto dove i primi traffici illeciti nascono quasi per sopravvivenza. Pietro “vo campà cient’anni”, mentre Ciro Di Marzio sognava solo di brillare per tre giorni.

Un casting da zero e un nuovo protagonista

Il protagonista è Luca Lubrano, 16 anni, figlio di una storica famiglia di macellai napoletani. Scelto dopo sei mesi di casting in tutte le scuole di teatro e cinema del territorio. «Luca mi ricorda molto me», rivela D’Amore, che ha voluto un cast di esordienti per raccontare con autenticità un’epoca perduta.

Un progetto ambizioso che non ha paura delle critiche

«Non è un’operazione di marketing», precisa Nils Hartmann di Sky Studios. «È un altro racconto». Gli fa eco Riccardo Tozzi di Cattleya: «Volevamo ricreare la Napoli degli anni ’70. Una sfida enorme sul piano scenografico». E D’Amore taglia corto sulle critiche: «Non ci dobbiamo difendere da nulla. Ogni scelta nasce dalla storia che volevamo raccontare».

Una Napoli inedita, tra documentari e memoria

L’ispirazione visiva e narrativa nasce dai documentari di Joe Marrazzo e Luigi Necco, testimoni visivi di quella Napoli povera e contraddittoria. La serie riprende quella tensione tra desiderio e disperazione, con una scenografia vintage, costumi retrò e motorini truccati, senza mai cedere al folklore.

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Ecco il Superman ‘immigrato’, alieno e super buono

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“Era già tutto previsto”, come dice la canzone di Riccardo Cocciante, ovvero che il Superman di James Gunn, in sala da domani distribuito da Warner Bros. Pictures., sarebbe stato il racconto di un inedito superhero, molto empatico, estremamente gentile e con un’innata fiducia nella bontà degli uomini. Tanto che c’è stato già chi aveva parlato, rompendo l’embargo che proteggeva il film, di un Superman campione di Superwoke, certamente non amato da Donald Trump. Di fatto l’uomo d’acciaio di Gunn è forse davvero troppo perdente per gran parte del film e solo alla fine si riscatta, ma non troppo. Coinvolto in conflitti all’estero e in patria, le azioni di Superman (David Corenswet) per proteggere l’umanità vengono infatti a un certo punto messe in discussione e la sua vulnerabilità permetterà al miliardario della tecnologia e maestro dell’inganno Lex Luthor (Nicholas Hoult) di sfruttare l’opportunità per eliminarlo una volta per tutte.

Tra le accuse al supereroe intanto il fatto che è un alieno, comunque un immigrato, e ancora peggio che la sua mission sulla terra non è affatto quella di servire l’umanità. Dalla sua parte c’è però l’intrepida reporter del Daily Planet, Lois Lane (Rachel Brosnahan), con la quale condivide il lavoro, e l’aiuto di altri metaumani di Metropolis, esattamente il trio della Justice Gang e del compagno a quattro zampe, l’incontenibile Krypto. Perché tutta questa bonarietà in Superman? Le ragioni le spiega nelle sue note lo stesso Gunn: “Mi sono innamorato del personaggio di ‘All-Star Superman’ (miniserie a fumetti di Grant Morrison del 2005) . Per me ha mostrato, meglio di altri, come Superman era un tipo bonario, con la mascella in fuori, sempre pronto a fare la cosa giusta, entusiasta, incredibilmente puro”.

E ancora il regista che dal 1º novembre 2022 è anche co-presidente, co-amministratore e direttore creativo dei DC Studios: ” Ho adorato la bontà che Grant Morrison ha attribuito a questo personaggio che per me è stata di grande ispirazione ed è diventato il fondamento del Superman di questo film. L’ho reso così meno potente, incapace di far tornare indietro il mondo nel tempo e non prende a pugni i pianeti. Certo è molto forte, può sollevare un grattacielo, ma non è completamente invulnerabile. All’inizio del film vediamo un Superman che sanguina. Quando ho immaginato questa scena, ho pensato: ‘Come siamo arrivati ;;a questo punto?’. Va detto che il film che mette in campo, insieme ai molti cattivi, anche la cattiveria dei social e la guerra virtuale dei droni e ambientazioni dark, ha dietro la macchina da presa appunto Gunn affiancato da collaboratori abituali, tra cui il direttore della fotografia Henry Braham, la scenografa Beth Mickle, la costumista Judianna Makovsky e il compositore John Murphy, insieme al compositore David Fleming e ai montatori William Hoy e Craig Alpert. Budget del film circa 250 milioni di produzione e poco meno di 400 milioni di dollari compreso il marketing.

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Romana Maggiora Vergano, la rivelazione del cinema italiano: «Da futura medico a protagonista sul set»

Romana Maggiora Vergano racconta al Corriere della Sera il suo percorso da Ostia a Bellocchio, dal sogno della medicina al Nastro d’Argento per “Il tempo che ci vuole”. Ora debutta anche in un horror.

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Ha cominciato con «tre pose in croce» nella serie Immaturi a soli 17 anni. Oggi, dieci anni dopo, Romana Maggiora Vergano (foto Imagoeconomica) è uno dei volti più apprezzati del nuovo cinema italiano, grazie a registi come Francesca Comencini, Paola Cortellesi, Marco Bellocchio e Roland Emmerich. La sua ultima affermazione? Il Nastro d’Argento 2025 per “Il tempo che ci vuole”, ex aequo con Valeria Golino.

La gavetta e la scuola sul set

«È stata una grandissima scuola», racconta nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Anche quando interpretava ruoli secondari, osservava ogni reparto, ogni dettaglio tecnico: «Mi trovavano accanto ai fonici, al direttore della fotografia. Mi facevo spiegare il cinema».

Il ruolo che ha cambiato tutto

Con Il tempo che ci vuole, delicato racconto autobiografico firmato da Francesca Comencini, ha interpretato il ruolo di una ragazza segnata da una dipendenza dall’eroina. Un’interpretazione che ha ribaltato le convinzioni di chi la riteneva inadatta a ruoli fragili per via del suo aspetto «pulito e ordinato». «Francesca è riuscita a guardarmi dentro», dice. «Ha capito le mie rotture interiori».

Un’identità costruita tra Ostia e il set

Cresciuta a Ostia con un fratello gemello – oggi medico – Romana aveva imboccato la stessa strada, ma si è fermata proprio davanti al test di Medicina. «Mi sono bloccata, bene così». Oggi, però, potrà finalmente indossare il camice bianco in una serie Netflix, ChiaroScuro, in cui interpreta un medico legale.

La lezione della Scuola Volonté

Alla Scuola Volonté, è stata smontata e ricostruita. «Ero la più giovane, con l’idea di dover essere perfetta. Mi hanno rotto in mille pezzi per riaggiustarmi ogni volta in modo diverso. E così ho avuto accesso a parti di me che tenevo tappate».

L’incontro con Bellocchio e il primo horror

Tra gli incontri più significativi, quello con Marco Bellocchio per la serie Portobello: «Mi ha colpito il suo silenzio. Ti osserva, ti studia, e così ti porta a dare il meglio». Intanto si prepara al debutto nell’horror: La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli, in uscita il 17 settembre.

Riferimenti, modelli e femminilità

Tra i suoi film del cuore c’è Malena di Tornatore: «Ammiravo quella femminilità spudorata. La vorrei raggiungere anch’io». Quanto alla parità sul set, dice: «Per me è normale vedere una donna che gestisce tutto. Ho lavorato spesso con registe. Oggi mi sento al sicuro».

Diplomazia sul caso Elodie-De Angelis

Alla domanda sul caso Matilda De Angelis-Elodie, risponde con equilibrio: «Credo che Matilda non volesse sminuire nessuno. Preferisco non entrare nella questione. Mi godo l’ex aequo con Valeria Golino, che è un esempio per tutte noi».

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Morto a Roma Alvaro Vitali, il cinema piange il suo Pierino

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Impossibile dimenticare il suo scanzonato Pierino, i suoi tantissimi ruoli nella commedia sexy all’italiana ma anche le imitazioni, su tutte quella di Jean Todt, che lo hanno fatto amare anche dal pubblico più giovane. E’ morto a Roma nel tardo pomeriggio Alvaro Vitali, attore e comico italiano che ha recitato in oltre 150 film. Nato il 3 febbraio 1950, Vitali era stato ricoverato due settimane fa per una broncopolmonite recidiva ma aveva firmato per tornare a casa. Proveniente da una famiglia numerosa aveva raccontato lui stesso di essere stato un vero combinaguai tanto da essere affidato dalla mamma alla nonna, che a sua volta lo aveva spedito in collegio. “Mamma – aveva detto in un’intervista – era impiegata in un’impresa di pulizie, papà guidava una ditta edile di pittura. Con 5 figli, lavoravano entrambi. Non è che avessimo tanti soldi, ma non soffrivamo”.

Scoperto da Federico Fellini durante un provino, esordì nel 1969 con una piccola parte in Fellini Satyricon. Poi prese parte a I clowns (1971) e a Roma (1972), nel quale interpreta un ballerino di tip-tap d’avanspettacolo, lo stesso ruolo che ebbe l’anno dopo in Polvere di stelle, diretto e interpretato da Alberto Sordi, affiancato anche da Monica Vitti) e in Amarcord (1973), con Ciccio Ingrassia. Dopo aver interpretato La poliziotta (1974), diretto da Steno, con Mariangela Melato e Renato Pozzetto, viene notato dal produttore Luciano Martino e comincia a lavorare con la Dania Film. Recita in numerosi film della commedia sexy, accompagnando Lino Banfi, Edwige Fenech e Renzo Montagnani. Poi la consacrazione con il personaggio di Pierino. Con il tramonto delle commedie sexy, sparì dalle scene per tornare a Striscia la notizia nei panni appunto di Jean Todt, allora direttore della Scuderia Ferrari, e di altri personaggi.

Nel 2006 ha partecipato alla terza edizione del reality La fattoria ma ha dovuto abbandonare il reality show per problemi di asma. Negli ultimi anni aveva spiegato di soffrire di depressione per essere stato dimenticato dal mondo del cinema: “Ho preso parte a 150 film ma vivo con una pensione da 1300 euro”. Proprio negli ultimi giorni era tornato alla ribalta per un botta e risposta con la ex moglie, la cantautrice Stefania Corona. L’attore ha scritto una lettera A DiPiù spiegando che lei lo avrebbe lasciato perché “invaghita dell’autista” ma che era disposto a perdonarla e a ritornare assieme. La risposta della donna non si è fatta attendere. “È un attore, gli servo solo per comodità. I suoi figli non hanno voluto che i nipoti mi chiamassero nonna”.

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