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Giuristi: indagare Cpi si può ma lo ha fatto Mosca

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Indagare i funzionari della Corte penale internazionale (foto Imagoeconomica in evidenza) è possibile, ma il precedente è scomodo: porta dritto a Mosca, dopo il mandato d’arresto per crimini di guerra spiccato contro Vladimir Putin. Le sanzioni annunciate da Donald Trump contro la Cpi e lo scontro tra il governo italiano e la stessa Corte sul caso Almasri hanno lasciato frastornati gli esperti di diritto umanitario internazionale, divisi tra chi preferisce restare in silenzio e chi cerca di analizzare gli sviluppi – distinti, ma intersecati tra loro – da un punto di vista legale.

Non senza un certo rammarico nell’osservare che è stata proprio l’Italia nel 1998 a essere la culla della Corte con lo Statuo di Roma. Il caso russo – con il procuratore della Cpi Karim Khan (nella foto Imagoeconomico sotto), la presidente Tomoko Akane e il giudice italiano Rosario Salvatore Aitala finiti sotto accusa – “non è certo un precedente che fa onore all’Italia”, è la prima riflessione di Gabriele Della Morte, professore ordinario di diritto internazionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano. Senza sconfinare nel dibattito politico, il giurista evidenzia a più riprese che il mancato rispetto del mandato d’arresto della Cpi per il generale libico Nijeem Osama Almasri, rappresenta “una chiara violazione di una norma di diritto internazionale e di un obbligo di cooperazione con la Corte”, sancito proprio nello Statuto.

KARIM AHMAD KHAN. PROCURATORE CAPO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

“Forse dovremmo cambiare il nome al trattato, ma c’è una norma che prevede un obbligo di cooperazione”. E ora l’Italia potrebbe trovarsi di fronte a “una procedura particolare”, in cui la Cpi “avrà autonomia, dopo un’interlocuzione con il governo, nel decidere il da farsi” e scegliere “se deferire la mancata attuazione degli obblighi all’Assemblea degli Stati o portarla davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu”, che sulla Libia è responsabile. Che la questione possa arrivare fino al Palazzo di Vetro è un’ipotesi condivisa anche da No Peace Without Justice e da diversi giuristi dal profilo internazionale, alcuni anche profondamente legati alla Corte dell’Aja. Seppur la denuncia depositata da un cittadino sudanese contro Meloni, Nordio e Piantedosi non sia sufficiente da sola, nelle descrizioni dei più, ad aprire un’indagine sulla violazione dell’articolo 70 dello Statuto, resta il principio cardine che invece nessuno mette in discussione: “Ogni Paese membro ha l’obbligo di eseguire i mandati di arresto della Cpi”.

“Se uno Stato ha bisogno di documenti tradotti, può richiederlo ai sensi dell’articolo 87(2) dello Statuto al momento dell’adesione”, sottolinea Alison Smith, board member e legal counsel di Npwj, soffermandosi poi sul nodo più ampio: un sistema giudiziario internazionale “sempre più sotto attacco, sia dall’interno che dall’esterno”. “Sempre più Stati membri mettono in discussione l’obbligo di arrestare e trasferire all’Aja latitanti internazionali e l’Italia – osserva Smith -, in quanto membro fondatore e culla dello Statuto, dovrebbe avere un ruolo di spicco nella difesa dei valori cardine”.

Un ruolo ancora più cruciale oggi, con Donald Trump che soffia sul fuoco e alimenta “un clima ostile”. A rischio, è la constatazione della consulente legale, “c’è il lavoro della Corte proprio mentre è impegnata in indagini e processi in tutto il mondo”, dal Darfur all’Afghanistan. Senza dimenticare “tutti quei casi in cui la Cpi rappresenta l’unica speranza di giustizia e risarcimento per le vittime”.

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Cina contro l’accordo sui porti di Panama, cita patriottismo

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I media statali cinesi hanno rinnovato e intensificato le critiche a CK Hutchison, la conglomerata basata a Hong Kong di proprietà del magnate ultranovantenne Li Ka-shing, sostenendo che l’accordo di vendita delle attività portuali del Canale di Panama al consorzio guidato dal colosso americano BlackRock è antipatriottico. Ta Kung Pao, quotidiano in lingua cinese controllato dall’Ufficio di collegamento del governo centrale, l’autorità che rappresenta Pechino nell’ex colonia britannica, ha pubblicato un altro articolo nel fine settimana dal titolo ‘I grandi imprenditori sono tutti eminenti patrioti’.

Toni simili rispetto a quello di giovedì, ma con due differenze: la citazione del patriottismo e la pubblicazione integrale dell’articolo sui siti web dell’Hong Kong and Macao Work Office del Partito comunista cinese, dell’Hong Kong and Macao Affairs Office del governo centrale e anche dell’Ufficio di collegamento, indicando quindi opinioni che riflettono quelle di Pechino.

L’accordo in questione prevede che CK Hutchison accetti in linea di principio di trasferire al consorzio il 90% nella Panama Ports Company, insieme al suo 80% effettivo e di controllo in 43 porti comprendenti 199 attracchi in 23 Paesi con un valore complessivo dell’operazione di 22,8 miliardi di dollari. L’articolo ha invitato gli imprenditori cinesi a resistere alla tempesta così come la Cina sta “affrontando l’egemonia e il bullismo americano” e le aziende di “stare saldamente unite alla madrepatria”.

Coloro che soccombono a comportamenti egemonici e prepotenti per fare un “affare” una tantum, passeranno alla storia come “infamia storica”. L’articolo ha messo in discussione la natura dell’accordo come “commerciale” e ha parlato di patriottismo con allusioni a imprenditori cinesi del passato, da Chang Chien che aprì un cotonificio privato alla fine del XIX secolo a Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, che “salvò la sovranità tecnologica dell’industria delle telecomunicazioni cinese”. Pertanto, “le vere qualità degli eroi si rivelano chiaramente in tempi di mare agitato”.

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Nyt, Usa via da organismo indagini crimi di guerra Russia

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L’amministrazione Trump ha deciso di ritirarsi dall’organismo internazionale istituito nel 2023 dall’Unione europea per indagare sui leader responsabili dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, tra cui il presidente russo Vladimir Putin: lo scrive il New York Times (Nyt), che cita persone a conoscenza della situazione. La decisione è l’ultima indicazione dell’allontanamento dell’amministrazione Trump dall’impegno del presidente Biden di ritenere Putin personalmente responsabile dei crimini commessi contro gli ucraini, commenta il giornale.

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Ucraina: il dramma dei bambini deportati in Russia e la difficile operazione di recupero

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Oltre 20.000 bambini ucraini sarebbero stati deportati in Russia e sottoposti a programmi di rieducazione forzata, secondo le stime più basse. Un numero che, secondo le dichiarazioni ufficiali di Maria Lvova-Belova, Commissaria per l’infanzia nominata da Vladimir Putin, potrebbe addirittura arrivare a 720.000.

Quelli riportati indietro finora sono meno di 600. Un numero drammaticamente esiguo rispetto alla portata della tragedia. Lvova-Belova, anziché ammettere il crimine, rivendica con orgoglio di averli “salvati” dalla guerra, adottandone persino alcuni. È anche per questo motivo che la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti e in quello di Putin, riconoscendo la deportazione dei minori come crimine di guerra.

IL “LAVAGGIO DEL CERVELLO” E LA RIEDUCAZIONE FORZATA

Molti di questi bambini vengono trasferiti nei campi di rieducazione russi, dove vengono indottrinati con la propaganda di Mosca. Sono costretti a dimenticare la loro famiglia e la loro identità ucraina, imparando a considerare la Russia come “madrepatria” e gli ucraini come nemici. In alcuni casi, vengono addirittura trasformati in “mini-soldati”, addestrati con lo scopo di combattere contro il loro stesso popolo.

Non è raro trovare immagini di bambini ucraini che sventolano bandiere russe negli stadi di Mosca, indottrinati a credere di essere diventati parte di un nuovo mondo. Alcuni, quando vengono contattati dalle loro famiglie, rifiutano persino di tornare in Ucraina, segno della profonda manipolazione psicologica subita.

IL PROGRAMMA DI “DE-OCCUPAZIONE COGNITIVA”

Per coloro che sono riusciti a tornare, in Ucraina è stato attivato un programma di “de-occupazione cognitiva”, ideato da Oksana Lebedova, fondatrice dell’organizzazione Gen Ukrainian. L’obiettivo è aiutare i bambini a disintossicarsi mentalmente dalla propaganda a cui sono stati sottoposti.

Al Sunday Times, che ha dedicato diversi reportage alla vicenda, Lebedova ha raccontato che questi bambini “hanno negli occhi qualcosa di diverso, come fossero adulti con occhi molto vecchi”. Sono eccessivamente educati e disciplinati, al punto da avere paura anche solo di arrivare in ritardo di un minuto.

La diffidenza nei confronti degli adulti è altissima: hanno visto insegnanti e vicini di casa diventare collaborazionisti, il che li ha resi incapaci di fidarsi di chiunque.

LE DIFFICOLTÀ DEL RIMPATRIO

Recuperare i bambini rimasti in Russia è un’impresa quasi impossibile. Mykola Kuleba, capo dell’organizzazione Save Ukraine, ha spiegato che il governo ucraino sta cercando di farlo attraverso la mediazione del Qatar e degli Emirati Arabi, ma il processo è estremamente lento.

“Putin blocca i rientri perché capisce che ogni bambino rapito è un testimone dei crimini di guerra della Russia”, ha dichiarato Kuleba.

Molti di loro, prima di tornare in Ucraina, vengono trasferiti in Georgia o Bielorussia, dove vengono spostati da un campo all’altro, rendendo ancora più difficile il loro recupero.

IL DRAMMA DEGLI ORFANI NASCOSTI

Tra le storie più toccanti c’è quella di Vova Petukhov e del fratellino Sasha, di 16 e 13 anni. Due anni fa si trovavano in un istituto per minori svantaggiati a Mykolaiv, nel sud dell’Ucraina. Dopo che molti bambini furono recuperati dalle famiglie, 15 orfani furono costretti a nascondersi nel seminterrato per tre mesi, senza luce né acqua, insieme alla direttrice e a parte dello staff.

Quando i soldati russi li scoprirono, diedero loro 30 minuti per raccogliere tutto, li trasferirono a Kherson occupata e girarono un video di propaganda, per mostrare al mondo che li stavano evacuando in sicurezza. In realtà, vennero portati in un centro di riabilitazione per minori a Stepanivka, poi in un sanatorio sul Mar Nero ad Anapa.

Un 15enne di Kherson ha raccontato che un soldato russo lo ha preso a calci, dicendogli:

“Fabbricherai i proiettili con cui uccideremo gli ucraini”.

IL LUNGO PERCORSO DI GUARIGIONE

Ora, alcuni di questi bambini stanno cercando di tornare alla normalità. In un campo speciale vicino a Lutsk, nel nord-ovest dell’Ucraina, cinquanta di loro tra i 7 e i 17 anni hanno trascorso undici giorni insieme, partecipando a sedute di psicoterapia individuale e di gruppo, facendo sport e guardando film come Harry Potter.

Ma le ferite della guerra e della deportazione sono profonde e difficili da guarire. Dietro le immagini di bambini in fila per lo zucchero filato, si nascondono traumi incancellabili, segnati dal terrore della separazione e dalla perdita della loro identità.

Nel frattempo, il mondo resta a guardare, mentre la Russia continua a trattenere migliaia di bambini rapiti, negando a intere famiglie la possibilità di riabbracciare i propri figli.

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