Gli Enti promotori, dalla Regione ai Comuni, ai Musei alle Accademie, alle Associazioni, alla fine hanno deciso così. Nel centenario della nascita, a Glorie di Bagnacavallo, Giulio Ruffini sarà dunque ricordato con una serie di mostre, allestite nei vari luoghi emiliani e romagnoli dell’artista, valendosi del contributo di diversi studiosi.
Frammenti documentali e celebrativi disseminati sul territorio. Si comincia tra primavera ed estate 2021 con la mostra di Bagnacavallo. Si prosegue con le esposizioni novembrine di Faenza e Bologna. Per terminare l’anno con gli appuntamenti di Ravenna e Rimini. Debbo dire che, un po’ sorpreso all’inizio, ho finito per apprezzare questa soluzione “geografica” delle esposizioni. Se da un lato, infatti, la frammentazione è rischiosa perché spezzetta –o replica- dall’altra essa rappresenta l’opportunità di ricomporre nuclei tematici o stilistici che rischierebbero altrimenti di non essere colti nel loro giusto spessore. Del resto, la distribuzione spaziale recupera in qualche modo l’artista alla sua territorialità. E ciò, in una indubbia unità identitaria, ma declinata nelle sue diverse espressioni culturali e storiche, oltre che nelle plurime sensibilità ispirative di una carriera artistica così lunga e proteiforme (Ruffini muore a Ravenna nel 2011).
A Bagnacavallo si è seguito il filo denominato “L’epica popolare e l’inganno della modernità, 1950-67”. Con un riferimento dominato dall’impegno civile, dalle lotte bracciantili, dalla voglia di riscatto dei ceti più umili, dalla furia repressiva. La “Pietà per il bracciante assassinato”, un dipinto di fortissima suggestione, emotivamente coinvolgente e pietra miliare di una pedagogia civile praticata senza retorica, risale agli inizi degli anni ’50. I germogli della nostra seconda modernità si innestano sul vecchio mondo contadino (così emblematicamente popolato di donne) e sugli antichi mestieri (“Operai alle saline di Cervia”, “Cavasabbia”). E però si mostrano nell’insostenibile passaggio da una violenza all’altra: dalle “fucilazioni” di ieri, agli “incidenti” stradali di oggi – quale che sia il colore delle lamiere contorte –, quelli portati dal miracolo economico.
A Faenza è la traccia di un intimismo polimorfo e non rassegnato che viene seguita, in un itinerario che trapassa, se posso dire, da niente a niente, pur conducendoci “Dalla meraviglia del vero al rimpianto del passato, 1942-2006”. Sono nature morte dai colori irrimediabilmente spenti che ci accolgono alla Galleria Comunale d’Arte. Sono i resti di universi che scompaiono, destinati a non lasciare traccia alcuna. C’è un intento compositivo in quei residui, che sono ordinati, è evidente, ma non riescono a strutturarsi in un qualche profilo. Lo stesso “Monumento alla madre” (1975-76), è una testimonianza affettiva di rara profondità, e tuttavia resa allegoricamente attraverso una disposizione di oggetti, sia pure tutt’altro che meccanica.

E tuttavia non è il “rimpianto”, ma, piuttosto, la sua qualità che Ruffini mette in gioco nella rappresentazione. Credo. Impiegherei perciò, per questa metamorfosi del mondo, termini che non esistono nella lingua italiana, ma che mi sembrano più consoni per descrivere la poetica della riflessività dell’artista, come hiraeth, acquisito dalla lingua inglese ma di provenienza gallese, oppure come il turco hüzün. Parole che esprimono, certo –come del resto saudade– il procelloso e mai concluso va e vieni dalla “tristezza” alla “nostalgia”, ma per dire, forse, il desiderio per qualcosa che non si è mai avuto. Un sentimento di afflizione causato non solo e non tanto da una perdita fisica, quanto piuttosto, e soprattutto, da una grave perdita spirituale.

A Bologna, Palazzo d’Accursio, in sala d’Ercole, un ulteriore frammento dell’opera di Ruffini. Mentre a Faenza prevalevano le evocazioni, l’hiraeth, qui è il presente che massimamente irrompe nella pittura. Intanto con una riproposizione delle allegorie della sofferenza: le crocifissioni, simboli universali, ma anche –di nuovo- gli “incidenti” stradali, le nuove forme attraverso cui la violenza della modernità –la violenza del benessere- si annuncia agli attoniti abitanti del mondo in mutazione. Non che manchino anche qui le evocazioni, beninteso: quelle che mettono insieme “la madre e il pane” sono tra le più toccanti (“Monumento alla madre e al pane, 1972). Per chiudere, un artista estremamente pudico, che si esprime per simboli e attraverso formalizzazioni visive ellittiche ma mai ammiccanti, ci viene presentato qui in un intenso autoritratto e al lavoro, nel suo atelier, con una (dolente) modella.
Giulio Ruffini. I prossimi appuntamenti di Ravenna e Rimini, ci racconteranno altri spezzoni di una storia artistica tra le più seduttive del Novecento.