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Giancarlo Pittelli, l’ex senatore che voleva diventare membro del Csm con l’aiuto dei boss della ‘Ndrangheta

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Nella operazione Rinascita Scott appare inquietante, nel racconto dei magistrati della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, la figura di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare e avvocato, più volte parlamentare di Forza Italia tra il 2001 e il 2013 e poi dal 2017 esponente di Fratelli d’Italia. Quella che vi presentiamo è la fotografia scattata dalla procura di Catanzaro. Pittelli era – secondo gli inquirenti –  l’elemento di congiunzione tra due mondi, quello mafioso ‘ndranghetista e quello delle banche, delle società straniere, delle università, delle istituzioni. Pittelli è considerato uomo capace di mescolare l’alto e il basso, i famosi mondi di sotto e di sopra incontrati nella inchiesta Mafia Capitale, per capirci. Legale di fama, ex componente della commissione Giustizia e ideatore di una discussa proposta di legge che secondo Magistratura democratica aveva lo scopo di salvare gli imputati eccellenti, “accreditato nei circuiti della massoneria più potente” e pure “perfettamente inserito” nelle famiglie ‘ndranghetiste, Pittelli “brigava” per diventare anche membro laico del Csm. Insomma, il “colletto bianco” perfetto per i boss del clan Mancuso di Limbadi: non a caso il suo nome compare tante volte quanto quello del capo Ndrangheta Mancuso nell’ordinanza di custodia cautelare dei 330 arresti disposti dal giudice Barbara Saccà (vedi nelle foto sotto tutti i nomi degli indagati). In carcere Pittelli ci è finito anche lui, con accuse gravissime. Avrà tutto il tempo di dimostrarsi innocente. Anche per lui vale il principio sacrosanto della presunzione di innocenza. Certo le accuse sembrano molto ben documentate. In ogni caso si vedrà. Per ora è in cella. E per ora davanti al gip, al primo interrogatorio di garanzia, ha fatto scena muta. Ne ha facoltà. E lui lo sa perchè è un avvocato.

Il rapporto circolare politica, imprenditoria e ‘ndrangheta di Pittelli è descritto con minuzia di particolari dai magistrati. Pittelli  è ritenuto dal gip la chiave di una “sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico-professionista-faccendiere, l’operatore di impresa e la cosca mafiosa”.

In questa triade, l’ex parlamentare “ottiene e concede favori, in forza dei suoi legami con le istituzioni e la ndrangheta, fungendo da “cerniera” tra i due mondi”, l’imprenditore colluso “cresce e/o risolve problemi grazie all’influenza mafiosa ed alla politica collusa” e la ‘ndrangheta “rafforza il suo radicamento nel tessuto politico ed economico”. Per il Gip Saccà Pittelli era persona  a disposizione della cosca Mancuso. Con gli alti esponenti della ‘ndrangheta, della massoneria e delle forze dell’ordine, è emerso che l’avvocato fosse stato in grado di riferire a Luigi Mancuso alcune “indiscrezioni” relative al contenuto della collaborazione di Andrea Mantella. “In effetti – è scritto nella ordinanza di arresti – il legale era puntuale nel dire che ci sarebbero stati duecentocinquanta omissis nel verbale del collaboratore, che sarebbe accaduto il macello su Vibo Valentia, che ci sarebbero stati numerosissimi arresti”. Nel prosieguo delle conversazioni intercettate, poi, il Pittelli si rammaricava del fatto che la Procura, con l’arrivo del nuovo Procuratore Gratteri, era stata “blindata”, non riusciva ad avere le stesse informazioni assicurate prima dai suoi canali e, in un’altra occasione, parlando con Giuseppe Mazzei, in data 2 maggio 2018, affermava (a proposito della sua necessita di scoprire notizie utili sul processo detto “Gli intoccabili” celebratosi a Roma) che se ci fosse stato “Michele” sarebbe stato “diverso”.

Il Michele a cui il Pittelli – scrive il gip Saccà – fa riferimento è risultato essere, senza dubbio, M. M., Maresciallo della Guardia di Finanza in servizio presso la Sezione Operativa della Direzione investigativa antimafia di Catanzaro e successivamente alle dipendenze della Presidenza del Consiglio.

I rapporti tra il Pittelli e il M.M. sono dimostrabili dall’analisi dei tabulati telefonici relativi all’utenza in uso al Fatali e che registrano numerosissimi contatti tra i due. A ciò si aggiungano le seguenti emergenze.
A seguito di delega da parte dell’autorità giudiziaria del 15 maggio 2019 al R.O.S. di Roma – che conduceva all’acquisizione dei tabulati a cui si è fatto cenno (riportato da p. 568 a p. 582 del secondo seguito) – veniva accertato che in data 14 dicembre 2016, il collaboratore Andrea Mantella, interrogato dal personale della DIA (che provvedeva anche alla scorta e all’accompagnamento del Mantella – era stato materialmente sentito dal Maresciallo Michele Di Somma e dal Maresciallo capo M.M. , all’epoca in servizio alla Dia di Catanzaro.  Da questo maresciallo arrivavano molte informazioni riservate alla cosca Mancuso per tramite di Pittelli. Nelle conversazioni tra i mafiosi della cosca Mancuso e l’avvocato Pittelli, spesso si fa riferimento al “clima di segretezza impostato in Procura dal nuovo Capo dell’Ufficio, dott. Nicola Gratteri”.

I mafiosi tra loro si lamentano molto del fatto che la procura di Catanzaro è diventata “segreta” e che sebbene a differenza di prima non arrivassero più notizie, tuttavia “qualche informazione dalla Dia sta arrivando, capito? A quello gli danno tutte le informazioni possibili ed immaginabili…ma dalla DIA. Di qua, da Gratteri e dalla DDA non sta uscendo niente.., eh?!”.

Da una serie di comportamenti e “da una pluralità di elementi investigativi, l’analisi dei tabulati telefonici dai quali emerge che il Pittelli si sentisse con il Marinaro in prossimità dei giorni in cui riusciva a fornire informazioni riservate ai Mancuso, la circostanza rappresentata dal fatto che il M.M avesse interrogato, proseguendo in un interrogatorio ufficioso e non verbalizzato, il Mantella, unitamente all’osservazione che il Pittelli oramai poteva avere notizie soltanto dalla DIA e non più dalla DDA e che “M.M” senz’altro era un amico, conducono a ritenere che verosimilmente, non certamente, la fonte informativa del Pittelli fosse stata il M.M”. Nonostante tanti indizi e qualche prova, e in mancanza di ulteriori accertamenti, il gip ritiene “non si può ritenere raggiunta la gravità indiziaria a carico di M.M per il delitto di cui al capo A sexies della rubrica”. I Pm e con loro il gip Saccà, traggono conclusioni  sulla condotta pienamente partecipativa di Giancarlo Pittelli all’associazione criminale denominata ‘ndrangheta, con accertati legami alla “mammasantissima”, nel ruolo di massone “sussurrato all’orecchio”.

Procuratore Gratteri. Il boss Mancuso si lamenta perchè dalla procura di Catanzaro non arrivano più spiate con l’arrivo del nuovo capo dell’ufficio inquirente

Riprendendo le considerazioni già sopra svolte sul ruolo di Pittelli all’interno della “mammasantissima”, va in conclusione ribadito perché l’apporto dell’avvocato non è riducibile ad una partecipazione esterna. E da qui dunque la intraneità di questi alla cosca dei Mancuso. “Va intanto osservato – scrive il gip Saccà – che la messa a disposizione del Pittelli nei confronti di Luigi Mancuso (ma come osservato, anche di Saverio Razionale, di altri esponenti della ‘ndrangheta reggina e via discorrendo) è costante e sistematica e non legata a momenti particolari di fibrillazione o ad uno scambio di voto o ad un affare particolare.

A ben vedere, poi, il suo “apporto” alla consorteria non si è limitato alla incondizionata e costante messa a disposizione, ma il Pittelli ha condiviso le modalità di conduzione della cosca, aderendo alla “politica gestionale” di Luigi Mancuso. Sono numerosissime le conversazioni, sopra riportate o richiamate, in cui l’avvocato elogia il Mancuso….per il suo carattere, il suo carisma, affermando in più di una occasione che la sua presenza sul territorio “da uomo libero” assicura gli equilibri e garantisce la pax mafiosa.

Scrive sempre il Gip Saccà che “la condivisione della politica del mammasantissima Luigi Mancuso non è puramente adesione ad un metodo, ma è partecipazione all’attuazione degli obiettivi della cosca di ‘ndrangheta: il Pittelli mette a disposizione le sue conoscenze sparse in Italia e fuori dall’Italia onde consentire il radicamento e la forte penetrazione della ‘ndrangheta in ogni settore della società civile: nelle università, negli ospedali più rinomati, all’interno degli stessi servizi segreti, nella politica, negli affari, nelle banche, così consentendo ai Mancuso di rafforzare il proprio potere criminale obiettivo che, per come argomentato nel precedente paragrafo 1 e relativi subparagrafi (a proposito della “strategia pacifista” adottata da Luigi Mancuso), non si realizza con le armi ma creando e moltiplicando le adderttellature nei settori dell’impresa, dell’economia, della finanza, della politica, del lavoro, attraverso la potente “autostrada” universale (per utilizzare la stessa decrizione fattane dal Pittelli nel suo discorso di iniziazione al collega Contestabile) della massoneria.

Sempre secondo quanto scoperto dai carabinieri del Ros su coordinamento della procura antimafia di Catanzaro, il Gip, che condivide l’esito delle indagini, Pittelli fa “tutto questo per ottenerne un ritorno nel proprio interesse, come viene fuori dalle vicende relative alla “Trust Plastron”, al villaggio “Valtur” (collegati all’obiettivo “Copanello”), alle nomine nei grossi processi, all’avanzamento in politica, all’ambizione di essere eletto membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, utilizzando la potenza criminale di Mancuso e degli altriboss e vertici di Indrangheta per i quali (proprio in cambio di questo) spende le sue “amicizie”.

Il Pittelli è, in defintiva l’affarista massone dei boss della ‘ndrangheta calabrese. Colpisce, dunque, il complessivo atteggiamento dell’avvocato che ha sovente manifestato un vero e proprio bisogno (così si esprimeva con il Giamborino) di incontrare Luigi Mancuso, recandosi nei suoi nascondigli anche nel periodo della sua irreperibilità, adottando, per incontrarlo in sicurezza, tutte le cautele tipiche degli altri componenti della consorteria per evitare pedinamenti da parte delle forze dell’ordine: in luoghi isolati, praticando a piedi posti impervi (vedi relazioni dei servizi di osservazione, controllo e pedinamento), facendosi accompagnare da auto staffetta, potendo recarsi agli appuntamenti solo quando stabilito “dal medico”, con le modalità dallo stesso Mancuso impartite. Le descritte modalità di incontro sono tipiche dell’associato alla ‘ndrangheta e non di un avvocato, che pure è stato senatore della Repubblica italiana.

Il Pittelli incontra Mancuso soprattutto al di fuori di rapporti lavorativi, condividendone un’amicizia basata su un senso di profondo rispetto tra personalità, come traspare, in primo luogo, dal linguaggio utilizzato tra i due che non si spendono vezzeggiativi (come il Pittelli usa fare con il novero dei suoi “amici” importanti), ma utilizzano, come d’uso nei codici della ‘ ndrangheta, in senso di rispetto reciproco, il “voi”. Pittelli può appellare il Mancuso con il nome di battesimo e anche rispetto agli altri ostenta sicurezza nei suoi rapporti con il boss. In tal senso è significativo quanto accadeva con il Palenzona al quale assicurava che avrebbe risolto in quindici giorni la questione relativa al villaggio Valtur in Nicotera, mostrando una sicurezza senza uguali, che nessuna persona estranea al contesto associativo o con una posizione differente e meno prestigiosa nelle gerarchie massoniche e criminali, avrebbe posseduto. Va evidenziato ancora una volta, precisando ulteriormente quanto finora affermato, che il Pittelli ha rapporti costanti (come sopra riportato, ogni settimana scendeva a Limbadi dal Mancuso, talvolta anche fremendo per incontrarlo) con i capi della ‘Ndrangheta, ciò a significare la sua collocazione in alto grado della massoneria (parlando con l’avv. Guido Contestabile, nel contesto prima descritto in cui il legale si prodigava a far inserire il collega all’interno della loggia di appartenenza, dichiarava di aver raggiunto il livello 33).

Ed è sempre il Gip a disegnare relazioni, capacità di persuasione e soprattutto possibilità di Pittelli di incidere nelle istituzioni e nelle imprese per fare favori al boss Mancuso. “D’altro canto è significativo che tanto Mancuso che Razionale – scrive il gip – , che i Piromalli tramite il Mancuso, si rivolgessero al Pittelli in maniera ordinaria per risolvere questioni legate al mondo della cosiddetta “società civile”.

Tanto per esemplificare: al Pittelli il Mancuso si rivolgeva perché aiutasse la figlia Maria Teresa a superare un esame universitario, perché Pittelli mettendo a disposizione del boss (e della figlia del boss) la sua “amicizia” con il Rettore dell’Università di Messina; il Razionale si rivolgeva al Pittelli per far sì che il figlio, medico a Roma, potesse inserirsi al policlinico “Gemelli”; il Mancuso chiedeva di intercedere presso la Regione Calabria per il trasferimento di un direttore delle Poste legato ai Piromalli (per cui si faceva anche latore di imbasciate su Cutro).

Per un verso, come è stato più volte messo in evidenza, l’avvocato era un porto sicuro per tutti questi affari, per altro verso, dal modo di affrontare i temi e per il riferimento stabile e sicuro rappresentato dal legale, non sorgono dubbi sul fatto che costui svolgesse un ruolo sistematicamente deputato alla risoluzione delle questioni in discorso. Tutto quanto finora messo in evidenza, è indicativo del molo ben definito e costante del Pittelli in seno alla consorteria, in quella particolare frangia di collegamento con la società civile, rappresentata dal limbo delle logge coperte, su cui si è riferito prima”.

Ebbene questo coacervo di relazioni tra i “grandi” della indrangheta calabrese e i “grandi” della massoneria, tutti ben inseriti nei contesti strategici (giudiziario, forze armate, bancario, ospedaliero e via dicendo), “è l’effetto – scrive il gip Saccà – del pactum sceleris in forza del quale il Pittelli si è legato stabilmente al contesto di “Ndrangheta massona”, stabilmente a disposizione dei boss (e dunque delle sfere più alte della consorteria: si rinvia alla ricostruzione operata nella parte iniziale) alla “mammasantissima” e al “Crimine” dei Mancuso”.

Non va nemmeno sottovalutato che nella vicenda Trust Plastron, nel momento in cui si era creata “maretta” tra Basile e il Pittelli per il credito vantato dal primo nei confronti del secondo, interveniva Luigi Mancuso per “imporre” al Pittelli il comportamento da seguire, anche al fine di “rammentargli” l’obbligo di corrispondere una parte del denaro allo stesso Mancuso (In data 19 novembre 2016 Pittelli, trasportato dal Giamborino, avrebbe incontrato Luigi Mancuso e, prima di recarsi all’appuntamento in Nicotera, il Gimaborino gli raccomandava di restituire mano a mano i soldi al Basile (“siccome voi siete un galantuomo, lui pure è un galantuomo […] quando avete la disponibilità gli date qualche cosa e chiudiamo la partita”).

Si comprendeva che il Pittelli aveva ricevuto da Di Sora una cifra di 500.000 euro circa e che di questa somma una parte era di Basile e sull’affare, in generale, il Mancuso avrebbe dovuto ricevere pure la sua parte. Simile discorso, oltre a segnalare la condizione di sottoposizione del Pittelli a Luigi Mancuso, evidenzia anche la condizione di obbligo a cui è tenuto il Pittelli nei confronti del capo che gli impone di versare una parte dei proventi dei suoi affari alla consorteria. “Tutto ciò, per come emerso in maniera incontroversa e placida – scrive il gip – , porta ad escludere la ricostruzione, rigorosamente alternativa, di un contributo meramente esterno del legale, orientato alla conservazione o al rafforzamento della consorteria. D’altro canto lo stesso Pittelli riceve dalla consorteria il suo costante contraccambio ove si pensi che: i boss lo nominano avvocato loro e dei loro sodali (in quanto capace di mettere mano ai processi con le sue ambigue conoscenze e rapporti di “amicizia” con magistrati, come dimostrano le vicende giudiziarie su Salerno già definite e ripercorse nell’ambito della richiesta cautelare; con alte personalità delle forze dell’ordine; con i vertici dell’Accademia e del mondo ospedaliero); lo stesso gestisce i propri grossi affari combinando le conoscenze del mondo civile con quello sotterraneo della criminalità, anche d’ispirazione massonica (vedi vicenda Copanello e Valtur, o quelle da sfondo ai delitti A bis 1- A bis 5)”. Sono tutti elementi questi descritti dal Gip che fanno dell’avvocato Pittelli non un concorrente esterne all’associazione mafiosa ma un soggetto intraneo e pienamente consapevole. All’interrogatorio di garanzie, il primo dopo l’arresto, ha fatto scena muta davanti al gip Saccà e al procuratore Gratteri. È evidente che siamo nella fase più delicata dell’inchiesta. C’è stata una prima discovery degli atti. Ci sono le prime prove mostrate contro Pittelli. Prove e indizi che sembrano schiaccianti. Per Pitelli, come per tutti ovviamente, vale la presunzione di innocenza. Dunque quelle che leggete in questo servizio sono accuse mosse dalla procura distrettuale antimafia di Catanzaro, vagliate e ritenute fondate dal Gip e che hanno portato alla misura cautelare degli arresti in carcere dell’ex senatore Pittelli.

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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