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Spettacoli

Gerry Scotti, a Sanremo vado in amicizia, senza cachet

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“Al festival vado in amicizia, senza cachet: è bello poterselo permettere. È l’unica ‘conditio sine qua non’ che ho posto a Carlo quando mi ha chiamato”. Lo dice Gerry Scotti, che Conti ha voluto insieme con Antonella Clerici sul palco dell’Ariston per la co-conduzione della prima serata di Sanremo, martedì 11 febbraio.

La liberatoria da parte di Mediaset è arrivata immediatamente: “Il mio editore ci ha messo 20 secondi a dirmi di sì quando gli ho riferito della telefonata di Conti. La domanda è stata: ti fa piacere? Ci tieni? Io ho risposto di sì. E allora vai, siamo felici anche noi, è stata la risposta di Pier Silvio. Forse perché – aggiunge scherzando Scotti – era un via libera solo per una serata. Qualcuno ha tirato in ballo la pax televisiva: ma io ho un tale rapporto con la mia azienda che non c’è bisogno di ricorrere a formule di questo tipo. E poi Sanremo viene visto dalla comunità dei media come un evento quasi a canale unificato, il programma nazional popolare per eccellenza che mette al centro la musica”.

Negli anni il nome di Scotti, volto caro al grande pubblico generalista ma anche alla generazione Z e al popolo dei meme, è stato spesso associato al festival, nel toto-conduttori: “Stavolta ho pensato: togliamoci questo sfizio, vediamo com’è, poi con quelle due persone lì”, sorride alludendo a Conti e Clerici. “Con Carlo – spiega – siamo stati spesso l’uno contro l’altro nei palinsesti, ma ci legano tante similitudini, tante passioni: la famiglia, il mare, la pesca, la barca, la musica, cose che contano più di tutto il resto”.

La musica, in particolare, sottolinea ancora il conduttore di Io Canto Senior su Canale 5, che si è anche misurato con la sfida canora con l’album natalizio Gerry Christmas (con l’intelligenza artificiale), resta uno strumento privilegiato per parlare a tutti, specie ai giovani: “I tempi cambiano, ma la musica è fondamentale, lo era per noi boomer con la chitarra davanti a un falò o con il mangiadischi, lo è per i ragazzi di oggi nell’era dei social”. E i brani in gara? “Li sto ascoltando, ma nessuno potrà chiedermi qual è la mia canzone preferita. Posso dire soltanto che i beniamini sono dentro, del resto con trenta canzoni…”, conclude sul filo dell’ironia.

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Spettacoli

Alba Parietti e il dolore nascosto: «Mia madre Grazia era malata, fingeva di stare bene per non essere scartata»

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Una madre bellissima, colta, ironica. Ma anche una donna fragile, segnata da una malattia mentale mai diagnosticata. È questo il ritratto che Alba Parietti (Le foto Imagoeconomica in evidenza e foto sotto) ha scelto di condividere pubblicamente per la prima volta in un toccante monologo a Le Iene e ora in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera che tocca corde profonde, familiari e collettive. Un racconto che rompe il silenzio su uno dei tabù più radicati nella nostra società: la malattia mentale in famiglia.

Due volti, una sola donna

«Se sentivi in casa la Primavera di Vivaldi, voleva dire che si era in pace. Se c’era l’Inverno, allora si avvicinava la burrasca». Così Alba descrive la madre, Grazia Di Pietromaria, morta nel 2010 a 78 anni. Un’anima doppia: accogliente e piena di vita, ma capace di trasformarsi in una presenza diffidente e a tratti aggressiva. «Si autoconvinceva che in casa ci fosse un complotto contro di lei», racconta. Nessuna diagnosi ufficiale, perché Grazia rifiutava ogni cura e visita medica. Ma i segni c’erano, forti e laceranti.

ALBA PARIETTI

Il dolore dell’infanzia

Alba ricorda pianti disperati alla minaccia di essere mandata in collegio, la paura, l’incomprensione, e quel dolore psichico che da bambina tentava di trasferire sul corpo. «Un giorno dissi a un’amica che mi avevano fatto una puntura per non sentire più dolore. Oggi ho una soglia altissima di sopportazione». Ma nonostante tutto, nessuna voglia di vittimismo: «Se oggi sono quella che sono, lo devo anche a mia madre».

I diari nascosti

Solo anni dopo, ritrovando i diari scritti da Grazia sin da bambina, Alba ha compreso la profondità della sua sofferenza. «Parlava di sé in terza persona. Era consapevole. Ha sofferto anche lei, non solo noi». Una consapevolezza che ha generato anche senso di colpa, per momenti di esasperazione o scelte difficili, come quella di autorizzare l’espianto degli organi della madre: «Poi mi sono chiesta: l’ho fatto per altruismo o per rabbia? Così mi sono iscritta anche io come donatrice. Per fare pace con me stessa».

Una famiglia segnata

Nei diari, anche altre verità: la malattia mentale era già presente in famiglia. Lo zio Aldo, schizofrenico, internato a Collegno. «Fino ai dieci anni non sapevo nemmeno di avere uno zio. Ricordo il suo sguardo perso, l’odore di borotalco». Solo oggi Alba riesce a dare un senso a quei ricordi: «Dietro la malattia mentale ci sono sensibilità uniche, menti geniali. Ma sono anche malati, e spesso sanno manipolare senza volerlo».

Il coraggio del racconto

Perché oggi ha deciso di parlare? «Perché non si deve provare vergogna. La vergogna è di chi non offre strutture, cure, sostegno alle famiglie. Mia madre fingeva di stare bene per non essere considerata uno scarto. Non possiamo più permetterci di nascondere». E lancia un messaggio a chi vive la stessa esperienza: «Ascoltate. Aprite il cuore. Non isolate chi soffre».

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Musica

Gigi D’Alessio: l’IA distruggerà i giovani autori

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“Bisogna assolutamente regolamentare l’intelligenza artificiale perché andremo incontro ad una generazione mediocre e sfaticata, passatemi il termine, perché con una macchina che lavora al posto mio non farò nulla e non imparerò nulla. Una macchina non ha mai espresso emozioni. L’intelligenza artificiale è un recipiente di contenuti che mischia le carte e tira fuori una canzone. Che fine faranno gli autori, i Mogol, i Migliacci e i Baglioni, che hanno scritto canzoni che sono nel nostro dna? La macchina non ha occhi, non ha sangue nelle vene, non sa cos’è il battito del cuore quando si scrive una canzone”. Lo ha detto Gigi D’Alessio, intervenuto in videocollegamento al seminario al Mic su musica e IA.

“Io ho dedicato la mia vita alla musica, ho studiato al conservatorio, ho fatto sacrifici”, anche se “io non parlo per me: quello che dovevo fare l’ho fatto, ma i giovani avranno grosse difficoltà con prodotti uguali ma soprattutto senza anima perché è l’amore che muove il mondo ed è generatore di sentimenti. Dobbiamo fare assolutamente qualcosa per impedire che questo accada” ha aggiunto D’Alessio ricordando di essere andato fino a Bruxelles per sollevare il problema e lanciare l’allarme: “Dobbiamo usare le macchine, non ci dobbiamo fare usare da loro. La creatività verrà meno e avremo tutti prodotti uguali. Le case discografiche potranno non più investire sugli artisti e fare dischi e musica con l’intelligenza artificiale. A noi resteranno solo il live ma perderemo tutta la creatività”, ha messo in guardia il cantante.

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Musica

L’uomo Pino e l’artista Daniele nel docu di Lettieri

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I video fatti in casa, quelli con i bambini che giocano e le coccole ai cani di famiglia, e le foto di famiglia da una parte, le immagini dei concerti leggendari, come quello in piazza Plebiscito a Napoli, il 19 settembre del 1981, insieme alla superband composta da Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tony Esposito, James Senese davanti a 200mila persone, dall’altra. C’è il Pino Daniele intimo, familiare e l’artista che partito da Napoli ha conquistato il mondo in Pino, il documentario con la regia di Francesco Lettieri, che sarà in sala il 31 marzo, 1 e 2 aprile, nell’anno delle celebrazioni per i 70 anni dalla nascita e i 10 dalla sua scomparsa.

“Spero di aver raccontato un Pino vero, di aver aperto qualche finestra sull’uomo, sulla sua intimità, su quella che è stata la sua storia. Anche gli aspetti più difficili da raccontare come i suoi genitori. Non c’è un solo Pino Daniele, io spero di aver contribuito ad averne uno in più”, racconta all’anteprima per la stampa a Roma il regista, che arriva dal mondo dei videoclip e ha voluto mantenere questa sua cifra stilistica anche nel docu, dove le canzoni del cantautore blues sono accompagnate da brevi film. “Per sottolineare come le canzoni di Pino abbiano attraversato questi anni e siano ancora contemporanee. Si respirano nei vicoli della città”. Nel documentario, è il giornalista e critico musicale Federico Vacalebre a ripercorrere i luoghi in cui l’artista ha vissuto per andare alla ricerca di un Pino inedito, attraverso il racconto e il punto di vista di chi lo ha conosciuto bene: familiari, amici d’infanzia, colleghi, musicisti (la maggior parte dei quali presenti solo in voce, “perché l’attenzione deve essere su Pino e tutti si sono messi al suo servizio”).

Tra loro Vasco Rossi, Jovanotti, Loredana Bertè, Eric Clapton, Rosario Fiorello. Ed è così che emergono i sogni, le paure, i bisogni di un uomo che è diventato “parte per il tutto”, con il difficile compito di rappresentare una città intera. Quella Napoli che lo ha generato e che tanto lo amò, da costringerlo ad abbandonarla, quando divenne impossibile vivere la quotidianità. Ma da Napoli, Pinotto, come lo chiamavano i fratelli per via delle sue rotondità, il ragazzo con gli occhiali spessi e l’aria da impiegato comunale, è riuscito a conquistare il mondo. “Questo film parte da un tesoro, che è quello custodito dalla Fondazione Pino Daniele – spiega Vacalebre -. Con tutto il materiale a disposizione avremmo potuto dare vita a una serie. Il film musicale, perché di questo si tratta, tiene insieme le radici e le ali di Lazzaro felice. E il duplice anniversario è solo una scusa per raccontare qualcosa che andava comunque raccontato e contestualizzarlo nel presente”.

Una delle voci che accompagnano il racconto è quella del figlio di Pino Daniele, Alessandro, presidente della Fondazione. “Per la prima volta abbiamo aperto gli archivi della Fondazione e quelli di famiglia. L’intenzione è far vivere e rivivere Pino nel racconto degli altri. La sua opera continua a essere presente”, spiega, aggiungendo che dal corposo materiale che è stato digitalizzato stanno emergendo chicche dimenticate come le immagini del concerto del 1981, ma anche brani accantonati durante le lavorazioni degli album, come l’inedito – di cui Tony Esposito ricordava perfettamente parole e melodia – Tiene ‘n’mmane (e come Una parte di me, dedicato al figlio Francesco e pubblicato a sorpresa pochi giorni fa). “Questi pezzi o le versioni alternative di brani che hanno visto la luce raccontano la sua ricerca musicale. Scrisse anche un inno del Napoli che fece cantare a Roberto Murolo. Vedremo cosa fare dei brani che stiamo scoprendo. Ne stiamo parlando”. Il documentario, prodotto da Groenlandia, Lucky Red e Tartare Film, sarà anche su Netflix a luglio. (

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