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Franco Roberti parla dei veleni del Csm: Pd silente e quanto alla libera informazione…

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Franco Roberti è un ex magistrato. Nell’ordine giudiziario ha ricoperto ruoli apicali. Ha diretto uffici giudiziari di frontiera. Ha giocato un ruolo da regista in prima linea nella lotta alla mafia casalese. Ha poi coordinato la Procura nazionale antimafia. Ecco, per usare una espressione un po’ banale se volete, diciamo che é stato un signor magistrato. Uno di quelli che fanno bene all’ordine giudiziario. Finito il suo mandato di giudice, ha appeso la toga al chiodo e ha voluto fare politica. Francamente di lui si poteva dire la qualunque, ma mai nessuno poteva capire quale fosse il suo orientamento politico. Ed anche questo è un bene prezioso dei magistrati seri, ovvero la stragrande maggioranza. Sulla questione Palamara (il Pm di Roma indagato per corruzione, indagato non condannato), sulle autosospensioni di almeno 4 membri del Csm (per ora) e il discredito che questa vicenda ha gettato sull’intero ordine giudiziario, la ‘opinione di Roberti é preziosa. Ancor di più lo é oggi che ricopre un altro ruolo istituzionale (é parlamentare europeo eletto nelle liste del Pd da indipendente) che non gli fa velo rispetto a quello che é il suo legame viscerale per la toga. Perché un magistrato resta magistrato anche quando lascia per raggiunti limiti di età o per assumere altri incarichi. E Roberti, com’é suo stile, comincia nella sua veste odierna di politico a menare fendenti indovinate a chi? Comincia dal Pd, o meglio dal partito che l’ha portato a Bruxelles.


“Nel 2014 il governo Renzi, all’apice del suo effimero potere, con decreto legge, abbassò improvvisamente, e senza alcuna apparente necessità e urgenza, l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Quella sciagurata iniziativa era palesemente dettata da un duplice interesse:
1) liberare in anticipo una serie di posti direttivi per fare spazio a cinquantenni rampanti (in qualche caso inseriti in ruoli di fiducia di ministri, alla faccia della indipendenza dei magistrati dalla politica).
2) tentare di influenzare le nuove nomine in favore di magistrati ritenuti (a torto o a ragione) più “sensibili” di alcuni loro arcigni predecessori verso il potere politico”. Insomma a Renzi e al Governo di Renzi, Roberti imputa la responsabilità di aver contribuito ad ulteriormente politicizzare le nomine degli uffici giudiziari e l’errore di aver abbassato solo per questioni di poltrone l’età pensionabile”. Sin qui la dura ma assai efficace analisi di Franco Roberti che mostra la solita indipendenza di giudizio che nemmeno l’elezione al Parlamento europeo con i voti Pd ha scalfito. Poi, Roberti, spiega che “il disegno (il disegno di Renzi, pare di capire, ndr) é almeno in parte  riuscito perchè da allora, mentre il Csm si affannava a coprire gli oltre mille posti direttivi oggetto della decapitazione, si scatenava la corsa selvaggia al controllo dei direttivi, specie delle procure”. E così, nella spietata analisi dell’ex capo della Direzione nazionale antimafia, “il caso Palamara ne é, dopo cinque anni, la prova tangibile, sebbene temo sia soltanto la punta dell’iceberg”. E allora le conclusioni. Molto amare perchè troppo reali. Roberti non manda a dire nulla, è diretto. Se deve dire che quella una data situazione gli fa schifo, usa la parola giusta non quella politicamente corretta. “Chiedo alla libera informazione (sperando che esista ancora) – sostiene Roberti – di non perdere l’attenzione su questo scandalo. Chiedo al Partito Democratico, finora silente, di prendere una posizione di netta e inequivocabile condanna dei propri esponenti coinvolti in questa vicenda, i cui comportamenti diretti a manovrare sulla nomina del successore di Giuseppe Pignatone sono assolutamente certi, se vuole essere credibile nella sua proposta di rinnovamento e di difesa dello Stato costituzionale di diritto dall’aggressione leghista”. Parole che dicono due cose: Roberti è uno che ragiona in difesa delle istituzioni che vengono prima dei partiti e poi è uno che non parla in politichese. Meno male. Si è perso un eccellente magistrato per la pensione, si è recuperato un politico normale non  banale che quando parla dice cose non parole.

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Cronache

Gianni Berengo Gardin: “La vecchiaia fa schifo, ma morirò comunista con la mia Leica”

Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin, 95 anni, racconta la sua vita in una straordinaria intervista al Corriere: Sartre, Oriana Fallaci, le grandi navi a Venezia, la fotografia come racconto.

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A ottobre compirà 95 anni, ma Gianni Berengo Gardin (foto Imagoeconomica) continua a vivere come ha sempre fatto: con l’occhio attento, l’ironia tagliente e lo spirito battagliero. In una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, il maestro della fotografia italiana racconta una vita densa di storie, incontri memorabili e scatti diventati parte della nostra memoria collettiva.

Una vita tra Roma, Venezia, Parigi e due milioni di negativi

Nato per caso a Santa Margherita Ligure nel 1930, cresciuto tra Roma e Venezia, Berengo Gardin si è poi innamorato di Parigi, dove conobbe Jean-Paul Sartre, che lo portava al cinema a vedere western. Proprio nella capitale francese nasce la sua vocazione: «Lavoravo in un hotel la mattina, il resto della giornata lo passavo per strada con la macchina fotografica».

Oggi custodisce oltre due milioni di negativi, ma confessa: «Non so fare una foto col telefonino. Fotografare è raccontare, non scattare a caso milioni di immagini digitali».

Dai manicomi all’impegno civile

Il fotografo che ha documentato i manicomi prima della riforma Basaglia, con il celebre lavoro “Morire di classe”, confessa lo shock provato di fronte all’abbandono e al degrado delle strutture. «Non volevamo ferire, ma testimoniare. Uscimmo così sconvolti da prendere il treno sbagliato».

È stato lui a far conoscere al mondo lo scandalo delle grandi navi a Venezia, con immagini potenti bloccate da un sindaco che lo definì “nobile socialista”. Replica secca: «Sono comunista da una vita».

Sartre, Fellini e Oriana Fallaci: incontri e delusioni

Di Sartre conserva il ricordo di un uomo semplice e fissato con i western. Di Federico Fellini, invece, una profonda delusione: «Mi ricevette freddamente, volle scegliere l’inquadratura e fece telefonate mentre lo fotografavo». Ancora più faticoso il ritratto di Oriana Fallaci: «Tre rifiuti, poi finalmente accettò. Che fatica».

Sulla fotografia, non ha dubbi: «Deve essere buona, non bella. Deve raccontare. Per questo ho orinato su un teleobiettivo costoso: volevo liberarmi del feticismo degli strumenti».

Toscani, Dondero e Cartier-Bresson

Ironico anche su Oliviero Toscani: «Mi chiamò “fotografo di piccioni”, ma mi alzai e dissi: “Signori, sono io”». E con affetto ricorda Dondero, Scianna, e il suo mito Henri Cartier-Bresson, conosciuto grazie a Scianna: «Diceva che tre scatti per soggetto bastavano. Condivido».

“Non voglio funerali. E ogni sera mangio una Coppa del nonno”

Berengo Gardin non ha mai smesso di lavorare su se stesso. La sua giornata è scandita da piccoli riti: «Mi svegliano alle 8, leggo i giornali, pranzo leggero e la sera, immancabile, una Coppa del nonno. Prima era peggio: mangiavo chili di cioccolato».

E quando gli chiedono se gli farebbe una foto con lo smartphone, risponde sornione:

«E come diamine si fa?».

Un uomo antico, moderno nel pensiero e fedele al suo sguardo: quello di chi ha sempre saputo che la fotografia è un atto politico e poetico insieme.

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Ema Stokholma, dalla sofferenza alla libertà: arte, radio, pittura e il sogno di una vita tranquilla

Ema Stokholma si racconta tra arte, successi, infanzia difficile, analisi e sogni di libertà. Pittrice, deejay, scrittrice, vincitrice del Bancarella, oggi cerca solo serenità.

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Morwenn Moguerou, oggi conosciuta da tutti come Ema Stokholma (foto Imagoeconomica), ha trasformato le ferite dell’infanzia in linguaggi artistici. Conduttrice radiofonica, scrittrice premiata, pittrice, attrice e ora aspirante poetessa, Ema vive tra mille sfumature di sé e una sola costante: la libertà.

Un’identità costruita nel dolore

Nel 2009 Morwenn ha deciso di scegliere il proprio nome, Ema, spiega in una intervista al Corriere della Sera. «Chi mi conosce da prima, mi chiama ancora Morwenn. Ma oggi va bene anche Ema». L’infanzia, segnata da abusi fisici e psicologici, è raccontata nel memoir Per il mio bene, vincitore del Premio Bancarella 2021. Un’opera che Ema ha scritto e condiviso con il fratello Gwendal: «Senza il suo consenso non l’avrei pubblicato. I proventi li dividiamo: è la mia storia, ma anche la sua».

La resilienza come stile di vita

Nonostante il dolore, Ema non cede al vittimismo: «Io non sono mai giù di corda. Mi arrabbio, ma mi passa. Anche adesso mi capita di avere inappetenza, ma alle chips non so resistere». La figura della madre resta una presenza complessa: «La sogno raramente. E quando succede, è sempre la mamma giudicante che mi disprezza».

Arte, musica e pittura: una rinascita

Attraverso la radio, la scrittura e la pittura, Ema ha trovato modi nuovi per esprimere il suo mondo interiore. «Quando ho venduto il mio primo quadro ho provato una felicità autentica». Oggi le sue opere si vendono anche a cinquemila euro, grazie anche all’aiuto di amici come Gino Castaldo: «Mi ha detto: fai da sola, come i cantanti indipendenti».

I quadri, però, non entrano più in casa sua: «Li parcheggio dagli amici finché non li vendo. A casa mia non ci stanno più».

I legami veri: gli amici come famiglia

La sua vera famiglia è quella costruita tra amici: Andrea Delogu, «che ha una capacità rara di ascolto», e Luca Barbarossa, figura di riferimento, con cui condivide una visione serena della vita. «E poi Mirko Nazzaro, che mi ha messo sulle tracce di Marina Abramovic. Grazie a lui l’ho intervistata per RaiPlay, un sogno diventato realtà».

Il sogno della quiete

Dopo 40 traslochi, Ema oggi sogna solo pace: «Voglio vivere in una casa dove si sentono gli uccellini. Poco stress, tranquillità». Non ha mai desiderato figli, ma ha avuto un rapporto speciale con le figlie di un compagno: «Spero sappiano che possono contare su di me».

La conquista della libertà

Ema continua ad andare in analisi dal 2012: «Ho cambiato diversi terapisti, ma non ho mai smesso». Oggi sente di avere molto: «Sognavo una famiglia come quella di Friends, e ce l’ho. Sognavo di fare la cameriera, e l’ho fatto. Ho tutto quello che mi serve». E alla domanda su cosa le stia più a cuore, risponde senza esitazioni:

«La mia libertà».

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Lorenzo Insigne torna in Italia: “Sogno ancora la Nazionale, voglio restare e giocare in Europa”

Dopo tre anni in Canada, Lorenzo Insigne torna in Italia e sogna l’azzurro della Nazionale: “Aspetto la chiamata giusta, restare in Europa è la priorità. Con Sarri sarebbe un onore”.

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Tre anni lontano da casa, a Toronto, in Canada. Ora Lorenzo Insigne è tornato. E lo ha fatto con le idee chiare: restare in Italia, tornare protagonista in Europa e riconquistare la maglia azzurra della Nazionale. Lo ha raccontato in un’intervista a Il Mattino rilasciata ieri all’aeroporto di Fiumicino, appena atterrato da oltreoceano.

“Sto bene, pronto per una nuova sfida”

«Sto molto bene. Contento e sereno del mio rientro», ha esordito Insigne, sorridente e abbronzato, circondato da fan e ragazzini che non hanno perso l’occasione per un selfie. Nessuna nostalgia per Toronto, ma solo gratitudine per l’esperienza: «A livello calcistico non è andata come sognavo, ma ho conosciuto persone fantastiche. È stata un’esperienza importante».

Il sogno azzurro e il rapporto con Gattuso

La priorità per Insigne è chiara: «La maglia azzurra l’ho sempre sognata da bambino. Spero di tornare presto in Nazionale, ma prima devo fare bene nella mia nuova avventura». Parole cariche di stima anche per Gattuso, nuovo commissario tecnico: «Con lui ho un grande rapporto, ci sentiamo ancora. È una persona squisita. Farà bene».

Napoli nel cuore e il legame con Mertens e Hamsik

L’ex capitano azzurro non dimentica le sue radici e i compagni di una vita: «Sono felicissimo per i successi del Napoli, ho festeggiato a Toronto con i miei cari. Marek (Hamsik) è stato il mio capitano, gli auguro tutto il meglio. E con Dries (Mertens) ho condiviso tanto, l’ho anche aiutato a diventare il capocannoniere del Napoli!».

Lazio? “Con Sarri sarebbe un onore”

Quanto al futuro, Insigne lascia ogni decisione al suo agente, ma chiarisce le sue intenzioni: «Voglio restare in Italia, ho una voglia matta di tornare a giocare in Europa». Le voci sulla Lazio lo lusingano, anche se ammette: «Il blocco del mercato complica tutto. Ma tornare con Sarri sarebbe un onore. Prima di decidere bisogna sempre sedersi a tavolino».

L’attesa della chiamata giusta

Il telefono è acceso, la suoneria al massimo. Insigne aspetta quella chiamata giusta che potrebbe riportarlo sotto i riflettori del calcio italiano. Intanto, si concede qualche giorno di vacanza con la famiglia. Ma il richiamo dell’azzurro, stavolta, è più forte che mai.

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