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Cronache

Finanza e Polizia riportano in carcere Elvira Zagaria, ma Pasquale Zagaria continua il suo turismo sanitario

Elvira Zagaria torna in carcere ma il dibattito sulla pericolosità del clan dei casalesi é sempre più a bassa voce. La parola mafia é bandita dal dibattito politico. Eppure la mafia è il cancro del Belpaese.

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Ieri è stata riportata in galera una delle sorelle di Michele Zagaria per violazione delle prescrizioni imposte dai giudici che le avevano concesso gli arresti domiciliari.
Non è la prima, né sarà l’ultima volta che dei mafiosi ritornano in carcere, propensi come sono -in genere- a non rispettare le regole. Non è una novità, né una sorpresa, ma una predisposizione quasi naturale a non rispettare gli ordini dello Stato.

Ma questo non è un arresto come gli altri, perché la cattura di Elvira Zagaria nella sua lussuosa villa di Boville Ernica, in provincia di Frosinone, dimostra che il clan dei casalesi è ancora vivo e vegeto.

E con l’altro fratello Pasquale, graziato dagli errori del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) ed ancora libero di scorrazzare tra la sua casa nel bresciano e le strutture sanitarie più congeniali alla cura delle sue patologie, il gruppo più pericoloso del clan ha ripreso coraggio e riacquistato appeal criminale.
La signora Zagaria, a cui era stato affidato, dopo la morte del marito, il delicato compito di “curare” molti appalti dell’ospedale di Caserta e gli ingenti capitali illeciti che ne derivavano, solo poco più di un anno fa, in data 28 marzo 2019, era stata condannata con sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Napoli alla pena di 7 anni di reclusione per il reato di associazione di stampo mafioso.

Dal 31 maggio dell’anno scorso agli arresti domiciliari ha resistito poco alla tentazione di violare gli obblighi imposti dai giudici.
Nel suo soggiorno beato nel comune che fa parte del circuito dei borghi più belli d’Italia, sembra ricevesse altri pregiudicati facendoli entrare da una specie di passaggio segreto.
Forse sapeva e contava nella inespugnabilità del borgo che grazie alla sua posizione strategica ed al baluardo costituito dalle mura sorrette da 18 torri medievali,nel 1204 riuscì a respingere gli attacchi delle truppe del Regno di Napoli che intendevano attaccare lo Stato Pontificio.
Lo stemma di Boville Ernica è costituito da una torre con tre finestre, sovrastata da due chiavi e una corona muraria.

Forse proprio la seconda chiave avrà attirato l’attenzione e stimolato la fantasia evocativa della signora Zagaria.

L’episodio dimostra che l’opportunità che i mafiosi hanno di tornare, seppur agli arresti domiciliari, nelle loro case viene sistematicamente sfruttata per riattivare rapporti e relazioni criminali, che sono funzionali alle loro attività illecite. Praticamente i mafiosi sfruttano un “favore” concesso dalle leggi dello Stato, per andare contro lo Stato stesso.
Ma lo fanno, come dovrebbe ormai esser noto, perché la comunicazione è per loro vitale almeno quanto la disponibilità di soldi e di armi. Un clan che non riesce a comunicare è un clan sconfitto.
Di conseguenza spezzare queste reti ed interrompere il flusso di notizie è e deve continuare ad essere l’obiettivo principale della lotta antimafia.
Ed anche il sistema penitenziario dovrebbe essere improntato su questo principio.
Non mi sembra però che sul punto ci sia la giusta sensibilità ed il corretto approccio.
Fortunatamente la magistratura inquirente e le forze dell’ordine sono vigili e pronte ad intervenire, come dimostra il caso di Elvira Zagaria.
Ma quante notizie sfuggono al controllo? Quanti canali di comunicazione non vengono mai scoperti?
È sempre la solita storia. Si pensa che la repressione sia la soluzione. Mentre è solo un palliativo.
Come i medicamenti che si limitano a combattere provvisoriamente i sintomi di una malattia, non abbiamo bisogno di provvedimenti che non risolvono il problema, ma ne allontanano solo per poco le conseguenze.

Sono stati bravi ed attenti gli investigatori della Procura, della Polizia e della Guardia di Finanza di Frosinone.

Alcuni li ricordo personalmente, fanno parte del gruppo che aveva sviluppato la giusta sensibilità e le adeguate competenze alla scuola della DDA di Napoli ai tempi del cd. “Modello Caserta”.
Ed anche l’uso dei mezzi aerei del nucleo Aereonavale della Guardia di Finanza mi ha riportato alla mente vecchie entusiasmanti operazioni.
Questo è il sistema che mi piace e che dimostra ancora di funzionare bene. Complimenti alla loro competenza ed al loro coraggio.
Peccato che quel MODELLO, invece che essere replicato ed istituzionalizzato per l’utilizzo sapiente in altri fronti caldi, sia stato sciaguratamente smantellamento e messo nel dimenticatoio.
Proprio questo dimostra che quello che è ancora molto indietro è il sistema Stato che sulle mafie continua a rimanere latitante, pervicacemente, ostinatamente latitante, peggio di come è stato Michele Zagaria, capace di sfuggire per oltre 16 anni al suo destino. O peggio di Matteo Messina Danaro, ormai eterna primula rossa.
Non so quanti commenteranno l’arresto di Elvira Zagaria nei prossimi giorni. Io spero siano in molti, a partire dai rappresentanti delle istituzioni, che oggi non mi sembra di aver ancora letto. Perché proprio questo sarà il metro dell’interesse e della volontà dello Stato di continuare la battaglia antimafia secondo una equazione semplice: nessun commento=nessun interesse; molti commenti=molto interesse.
I segnali di una ripresa forte delle mafie nel nostro Paese sono già più che evidenti.
Attendo con ansia di capire quale sia la strategia di prevenzione del Governo per spezzare l’intreccio mafia-corruzione, che già sta emergendo da molte operazioni di polizia su tutto il territorio nazionale.

Attendo di comprendere quale sia la “nuova politica” di gestione delle carceri e le scelte sul regime del carcere duro, del 41 bis, pesantemente indebolito dai recenti interventi della corte di giustizia europea.

Attendiamo un segnale. Credo che tutti gli Italiani ne abbiamo diritto, prima che sia troppo tardi e prima di dover essere costretti a commentare gli effetti della nuova stagione di Gomorra, non la fiction, ma quella vera.

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Sangue infetto, la famiglia di un militare napoletano morto nel 2005 sarà risarcita con un milione di euro

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Dopo quasi vent’anni di battaglie legali, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per i familiari di un militare napoletano, deceduto nel 2005 a seguito di complicazioni derivanti da una trasfusione di sangue infetto. La sentenza storica condanna l’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina, stabilendo un risarcimento di oltre un milione di euro ai familiari del defunto.

Il militare, trasferitosi da Napoli a Sicilia per lavoro, subì un grave incidente durante il servizio che necessitò un intervento chirurgico d’urgenza e la trasfusione di quattro sacche di sangue. Anni dopo l’intervento, si scoprì che il sangue trasfuso era infetto dall’epatite C, portando alla morte del militare per cirrosi epatica. La complicazione si manifestò vent’anni dopo la trasfusione, rendendo il caso particolarmente complesso a livello legale.

In primo e secondo grado, i tribunali di Palermo e la Corte d’Appello avevano respinto le richieste di risarcimento della famiglia, giudicando prescritto il diritto al risarcimento. Tuttavia, la decisione della Corte di Cassazione ha ribaltato questi verdetti, affermando che la prescrizione del diritto al risarcimento non decorre dal momento del fatto lesivo ma dal momento in cui si manifesta la patologia collegata al fatto illecito.

Questa sentenza non solo porta giustizia alla vittima e ai suoi cari ma stabilisce anche un importante precedente per la tutela dei diritti dei pazienti e la responsabilizzazione delle strutture sanitarie. Gli avvocati della famiglia hanno sottolineato l’importanza della decisione, che apre nuove prospettive nel campo della giustizia sanitaria e sottolinea l’obbligo delle strutture ospedaliere di rispettare protocolli medici dettagliati, anche in situazioni di urgenza.

Il caso di Antonio (nome di fantasia) sottolinea la necessità di garantire la sicurezza nelle procedure mediche e di monitorare con rigore le condizioni di sicurezza del sangue donato, indipendentemente dalle circostanze. La sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore giustizia e sicurezza nel sistema sanitario italiano, ribadendo che nessuna circostanza può esimere dal rispetto delle norme di sicurezza e prudenza necessarie per proteggere la salute dei pazienti.

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Addio a Italo Ormanni, magistrato e gentiluomo napoletano

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Italo Ormanni, magistrato, è scomparso all’età di 88 anni. Dopo una vita dedicata alla giustizia e alla lotta contro la criminalità organizzata, Ormanni ci lascia ricordi indelebili di un uomo che ha saputo coniugare serietà professionale e un vivace senso dell’umorismo. È deceduto ieri a Roma, nella clinica Quisisana, dove era ricoverato e aveva subito un’angioplastica.

La carriera di Ormanni, iniziata nella magistratura nel 1961, è stata lunga e fruttuosa, con servizio attivo fino al 2010. Tra i casi più noti che ha seguito, ci sono stati quelli che hanno toccato i vertici della camorra a Napoli, sua città natale, e importanti inchieste su eventi di cronaca nazionale, come il rapimento di Emanuela Orlandi e l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Anche nel suo ruolo di procuratore aggiunto a Roma, Ormanni ha gestito casi di grande risonanza, contribuendo significativamente alla sicurezza e alla giustizia in Italia.

Oltre al suo impegno nel campo giudiziario, Ormanni ha avuto anche una breve ma memorabile carriera televisiva come giudice-arbitro nella trasmissione “Forum”, dove ha lasciato il segno con la sua capacità di gestire le controversie con saggezza e empatia.

Amante delle arti e della cultura, Ormanni ha sempre cercato di bilanciare la durezza del suo lavoro con le sue passioni personali, dimostrando che dietro la toga c’era un uomo completo e poliedrico. I suoi funerali si terranno a Roma, nel primo pomeriggio di lunedì, dove amici, familiari e colleghi avranno l’occasione di rendere omaggio a una delle figure più influenti e rispettate del panorama giudiziario italiano.

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Falso terapista accusato di stupro, vittima minorenne

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Accoglieva le sue pazienti all’interno di un finto studio allestito in una palestra di Fondi e, una volta solo con loro nelle stanze della struttura, le molestava nel corso di presunti trattamenti di fisioterapia, crioterapia e pressoterapia, facendo leva sulle loro fragilità psicologiche e fisiche affinché non raccontassero nulla. Dolori e piccoli problemi fisici che spingevano ciascuna delle vittime, tra cui anche una minorenne, a recarsi da lui per sottoporsi alle sedute, completamente all’oscuro del fatto che l’uomo non possedesse alcun titolo di studio professionale, né tanto meno la prevista abilitazione, e che non fosse neanche iscritto all’albo. È finito agli arresti domiciliari il finto fisioterapista trentenne di Fondi, per il quale è scattato anche il braccialetto elettronico, accusato di aver commesso atti di violenza sessuale su diverse donne, tra cui una ragazza di neanche 18 anni, e di aver esercitato abusivamente la professione.

Un’ordinanza, quella emessa dal giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Latina ed eseguita nella giornata di oggi dagli agenti del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, arrivata al termine di un’indagine di polizia giudiziaria svolta su delega della Procura di Latina. Durata all’incirca un anno, quest’ultima ha permesso di svelare, attraverso le indagini condotte anche con accertamenti tecnici, acquisizioni di dichiarazioni ed esami documentali, i numerosi atti di violenza da parte dell’uomo nei confronti delle pazienti del finto studio da lui gestito. Tutto accadeva all’interno di un'”Associazione sportiva dilettantistica” adibita a palestra nella città di Fondi, nel sud della provincia di Latina: quella che il trentenne spacciava per il suo studio, sequestrata in queste ore dalle fiamme gialle quale soggetto giuridico formale nella cui veste è stata esercitata l’attività professionale, in assenza dei prescritti titoli di studio, della prevista abilitazione e della necessaria iscrizione all’albo, nonché dei locali, attrezzature e impianti utilizzati. Un’altra storia di abusi a Lodi.

Vittima una ragazza siriana di 17 anni arrivata in Italia per sfuggire alla guerra e al sisma del 2023: finita nelle mani dei trafficanti è stata sottoposta a violenze e maltrattamenti e poi abbandonata. La Polizia, coordinata dalla Procura di Lodi e dalla Procura presso la Direzione distrettuale antimafia di Bologna, ha arrestato i due aguzzini.

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