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Economia

Ferrari risponde ai dazi Usa con aumento prezzi

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La prima risposta ai dazi sull’auto imposti da Trump arriva dalla Ferrari che negli Stati Uniti nel 2024 ha consegnato 3.452 modelli, il 25% del totale. La casa di Maranello annuncia una modifica della politica commerciale con un aumento dei prezzi fino al 10%, ma conferma i target finanziari, anche se c’è il rischio – spiega – di una riduzione di 50 punti base sui margini percentuali di redditività (ebit ed ebitda). Le condizioni commerciali rimarranno invariate per gli ordini di tutti i modelli importati prima del 2 aprile 2025 e, indipendentemente dalla data, per gli ordini delle tre famiglie Ferrari 296, SF90.

Nel 2024 la quota di fatturato della Ferrari realizzata negli Stati Uniti è stata pari a circa il 29% del totale, 1,65 miliardi di euro, in crescita rispetto all’anno precedente quando era pari 1,35 miliardi di euro, il 26% dei ricavi complessivi. Secondo gli analisti i clienti statunitensi della Ferrari non saranno scoraggiati dai prezzi più alti. Non interviene Stellantis che dall’Italia esporta in Usa modelli come la 500 elettrica, l’Alfa Giulia, Tonale e Stelvio. Numeri comunque contenuti sui quali l’azienda aspetta di fare le sue valutazioni quando le misure saranno più chiare. Sul fronte americano parla l’associazione Aapc che rappresenta Ford, Gm e Stellantis: “le case automobilistiche statunitensi – afferma – sono impegnate nella visione del presidente Trump di aumentare la produzione automobilistica e i posti di lavoro negli Stati Uniti e continueranno a lavorare con l’Amministrazione su politiche durature che aiutino gli americani”.

“Nell’immediato sicuramente i dazi rappresentano un problema, ma la sensazione è che si tratti di iniziative temporanee, perché avranno a brevissimo effetti sulla stessa economia statunitense. Mi sembra un aspetto molto negoziale, tattico, non strategico, quindi la resilienza diventa essenziale” sostiene Silvio Angori, vicepresidente e ceo di Pininfarina. Tremano le aziende italiane della componentistica. I dazi imposti da Donald Trump su tutte le auto importate riguardano, infatti, anche i componenti, inclusi motori e trasmissioni. “I dazi avranno un effetto non devastante, ma importante. In un momento in cui i produttori e i componentisti stanno soffrendo è un ulteriore elemento di incertezza” commenta il direttore dell’Anfia, Gian Marco Giorda.

“Esportiamo dall’Italia circa 1,2 miliardi di componenti negli Stati Uniti e ne importiamo 230 milioni, mentre per quanto riguarda i veicoli esportiamo tre volte quelli che importiamo. Speriamo che sia una mossa negoziale e che ci sia spazio per fermare questa manovra. Una vettura potrebbe costare tra 6.000 e 10.000 dollari in più rispetto al prezzo attuale” spiega Giorda.

“Le stesse aziende che producono in Usa – osserva – avrebbero uno svantaggio perché dovrebbero acquistare da fuori componenti gravati di un dazio del 25%. Considerando che gli Stati Uniti importano molti componenti verrebbero penalizzate anche quelle aziende che già producono negli Usa e che comprano componenti dall’Italia, dalla Cina e da altri Paesi”. C’è anche un impatto indiretto dei dazi Usa sulla filiera italiana della componentistica: “vendiamo tanti componenti, circa 5 miliardi di euro, in Germania che vanno in parte su automobili esportate in Usa. Se ci fosse un calo delle esportazioni di vetture tedesche premium esportate questo potrebbe avere conseguenze sul fatturato delle nostre aziende”.

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Fondi pensione, 243 miliardi risorse nel 2024 (+8,5%)

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Previdenza complementare in ‘escalation’, nel nostro Paese, seppur gravata da un divario di genere e geografico: nel 2024, infatti, le risorse accumulate presso le forme integrative sono pari a “243,4 miliardi” nel 2024, con una crescita rispetto all’anno precedente dell’8,5%: un risultato che deriva “per circa due terzi dal risultato degli investimenti, per un terzo dal saldo contributi-prestazioni”. Al tempo stesso sono saliti gli iscritti, arrivati quasi a quota 10 milioni (4% in più del 2023), di cui meno di 4 su 10 sono donne, e oltre il 57% risiede al Nord. Questa la panoramica offerta dalla relazione della Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, illustrata alla Camera dal nuovo presidente Mario Pepe. Al 31 dicembre scorso, recita il documento, “operano nel sistema 291 forme complementari, di cui 33 fondi negoziali, 38 aperti, 69 piani individuali pensionistici (Pip) e 151 fondi preesistenti”.

I rendimenti, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, “sono stati positivi per tutte le tipologie”, tanto che “i comparti azionari hanno registrato rendimenti in media pari al 10,4% nei fondi negoziali e aperti e al 12,9% nei Pip. Le linee bilanciate hanno in media reso il 6,4% nei fondi negoziali, il 6,6% nei fondi aperti e il 7% nei Pip”. Quanto alle attività detenute dalle Casse di previdenza private dei professionisti “ammontano, a valori di mercato, a 124,7 miliardi, contro i 114 dell’anno precedente”. Un balzo di 10 miliardi a cui, recita la relazione della Covip, “hanno contribuito, oltre che il saldo tra contributi incassati e prestazioni erogate, l’andamento positivo dei mercati finanziari”, specie di quelli azionari. Investiti dagli Enti nell’economia italiana 46,5 miliardi (il 37,3% dei beni globali, -1,3% in un anno), dai Fondi pensione 40,1 miliardi (il 19,3% sui 243,4 miliardi totali).

“La spesa delle famiglie italiane per prestazioni sanitarie private è di circa 50 miliardi di euro” ed “i fondi sanitari, che raccolgono contributi da 18 milioni di iscritti, intermediano il 10% di tale spesa”, ha sostenuto Pepe, affermando di ritenere che, come i fondi pensione, anche quelli sanitari debbano essere regolamentati e vigilati”. E, così, con il controllo dell’organismo in merito ai loro profili economico-finanziari, tali fondi, ha chiuso il presidente della Covip, “possono contribuire a ridurre le liste d’attesa, senza gravare sulla spesa pubblica”.

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Economia

Mercati guardano a reazione iraniana, occhi sul petrolio

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L’attacco statunitense ai siti nucleari iraniani è sembrato quasi scontato ai mercati del Golfo, aperti di domenica. L’indice di riferimento dell’Arabia Saudita, quello del Qatar, di Kuwait e Oman, hanno tutti registrato sedute in leggero rialzo, senza grandi scossoni. Decisamente meglio è andata alla Borsa israeliana, che ha addirittura toccato i massimi di sempre, e a quella egiziana, in rialzo di oltre il 2%. Ma la stessa reazione non è affatto scontata alla riapertura dei mercati asiatici e nemmeno di quelli occidentali, dove gli occhi saranno puntati soprattutto sul prezzo del petrolio e, in Europa, su quello del gas.

Le previsioni sono al momento di un rialzo deciso, ma non ingestibile, compreso tra i 2 e i 5 dollari al barile, con un assestamento nei giorni successivi. A meno di reazioni iraniane che potrebbero influenzare il mercato molto più profondamente, provocando un’impennata dei prezzi e un’ondata di speculazioni che porterebbero i prezzi del petrolio a superare, secondo le grandi banche d’affari, i 100 dollari al barile. Nel caso estremo, per quanto improbabile, della chiusura dello stretto di Hormuz paventata dal Parlamento iraniano, si salirebbe anche a 200 dollari, secondo il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, che non crede però fino in fondo all’intimidazione di Teheran.

“Su Hormuz è dagli anni ’70 che arrivano minacce ma non è mai successo niente”, spiega. Alla riapertura dei mercati in Asia non ci si aspettano dunque al momento movimenti sconsiderati, piuttosto “un aumento moderato di circa due dollari” grazie ad approvvigionamenti che ora sono ancora abbondanti. Di petrolio nel mondo “ce n’è tantissimo”, sottolinea Tabarelli. Diverso invece il caso del gas che per l’Europa rappresenta una fonte primaria: nonostante i tentativi di diversificazione degli ultimi anni, senza le forniture russe il mercato resta ancora “più tirato”.

Per questo dai circa 40 euro a MWh di venerdì scorso, questa settimana il prezzo ad Amsterdam potrebbe salire fino a 45-50 euro, prevede Tabarelli. Più che le Borse del mondo arabo, finora a soffrire di fronte all’escalation militare sono state le criptovalute. Il Bitcoin, con un calo di quasi il 4% è sceso sotto i 100.000 dollari introno ai 99.780. Il Dogecoin ha segnato un ribasso di oltre il 7% a 0,14 dollari, ma il più colpito è stato l’Ethereum che ha perso il 10%, arrivando a 2.180 dollari. L’intero mercato cripto ha perso nel corso della giornata oltre il 4%.

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Disuguaglianza in crescita: il 5% degli italiani detiene quasi la metà della ricchezza nazionale

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La ricchezza in Italia si concentra sempre più nelle mani di pochi. Secondo Oxfam, il 5% più ricco della popolazione detiene oggi il 47,7% della ricchezza nazionale, oltre 20 punti percentuali in più rispetto a quella posseduta dal 90% più povero. Un dato che riflette uno squilibrio strutturale, aggravato da rendimenti crescenti e da un’imponente trasmissione ereditaria.

Crescono i patrimoni, ma non per tutti

Il Global Wealth Report 2025 pubblicato da UBS evidenzia che nel 2024 la ricchezza media per adulto in Italia è aumentata del 3,81% al netto dell’inflazione. Una crescita che colloca il nostro Paese al 23º posto su 56 nel mondo, ma con un incremento mediano del 15%, il sesto più alto a livello globale.

Attualmente in Italia ci sono circa 1,3 milioni di milionari, mentre i miliardari sono 71. Questi ultimi hanno visto salire il proprio patrimonio complessivo di 61,1 miliardi in un solo anno, pari a una media di oltre 166 milioni di euro al giorno. In totale possiedono 272,5 miliardi di euro.

Ricchezza ereditaria: un’eredità che rischia di aumentare le disuguaglianze

Il dato più impressionante riguarda la composizione della ricchezza: in Italia il 63% del patrimonio dei super-ricchi deriva da eredità, contro una media globale del 36%. Nei prossimi 20-30 anni si prevede che oltre 2.300 miliardi di euro verranno trasferiti tra famiglie benestanti, una cifra che rappresenta più di un quinto dell’intera ricchezza privata nazionale. Un processo che, secondo gli esperti, rischia di amplificare ulteriormente il divario economico e sociale.

I milionari del quotidiano: quadruplicati dal 2000

A livello globale, la ricchezza è cresciuta del 4,6% nel 2024, spinta in particolare dalle Americhe che hanno assorbito oltre l’11% dell’incremento complessivo. Il Nord America guida la classifica con una ricchezza media per adulto di 593.347 dollari, seguita da Oceania ed Europa occidentale. La Svizzera resta il paese con la ricchezza media pro capite più elevata, mentre tra i Paesi europei a crescere di più ci sono Danimarca, Irlanda, Corea del Sud, Svezia, Polonia e Croazia.

Il report UBS accende i riflettori anche sugli Everyday Millionaires, chiamati anche “Emilli”, ovvero persone con un patrimonio tra 1 e 5 milioni di dollari. Il loro numero è quadruplicato dal 2000, raggiungendo i 52 milioni nel mondo. Complessivamente, gli “Emilli” detengono 107.000 miliardi di dollari, una cifra ormai vicina ai 119.000 miliardi posseduti dai cosiddetti super-ricchi, coloro con più di 5 milioni di patrimonio.

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