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Fazio, sul Nove la domenica e un ruolo editoriale

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Il suo spazio, quello della domenica sera, il suo talk, tra attualità, interviste e intrattenimento leggero, e un ampio ruolo editoriale: è il futuro che attende – a quanto si apprende – Fabio Fazio nella sua nuova casa, il Nove, in base all’accordo quadriennale firmato con Warner Bros. Discovery. Con il conduttore traslocano il suo gruppo di autori e Luciana Littizzetto con i suoi monologhi cult. In forse Filippa Lagerback, evocata nel tam tam sui social. Il titolo dovrebbe restare Che Tempo Che Fa: per l’ufficializzazione bisogna attendere il termine del contratto con la Rai.

E così anche la produzione, che dovrebbe essere affidata a Banijay cui fa capo l’OFFicina. Quanto agli ospiti, non dovrebbe essere un problema per una major come Warner approcciare grandi talent. Ma l’obiettivo della società non è solo arricchire l’offerta del canale, accendendo la domenica sera che parte da una media del 2-2.5% di share. L’accordo di ampio respiro – e a quanto pare chiuso a condizioni più favorevoli rispetto all’ingaggio Rai – prevede infatti che Fazio possa portare la sua esperienza, in un gruppo che spazia dal cinema alla tv allo streaming, per lo sviluppo di nuovi progetti editoriali. Intanto il conduttore, acquisito il divorzio dalla Rai, si sfoga nella sua rubrica su Oggi, accusando la “strabordante ingordigia” della politica. Nessun vittimismo, è la premessa, ma “negli anni scorsi ho sperimentato sulla mia pelle che cosa vuol dire essere adoperato come terreno di scontro senza alcuna possibilità di difesa se non quella dei risultati del proprio lavoro. Anche se servono a poco o a niente, soverchiati come sono dalla potenza di fuoco che ti viene scaricata addosso.

La sensazione di essere merce pericolosa e non una risorsa della propria azienda non è gradevole”. Con lui si schiera Roberto Saviano: “Fazio non lascia la Rai, viene cacciato dalla Rai. Questa è la verità”. Bruno Vespa parla di “grande perdita” per l’azienda, mentre Fiorello sceglie come sempre la cifra dell’ironia. A Viva Rai2! mostra una foto del conduttore scarabocchiata con scritto Che Tempo Che Faceva, poi, ai sodali Biggio e Casciari: “Ragazzi io non voglio essere epurato, occhio a quello che dite. Già immagino la riunione dei vertici Rai: ‘C’è uno bravo, che facciamo? Cacciamolo via. C’è uno che fa guadagnare la Rai, via’”, ironizza citando il tormentone costi vs benefici, budget vs ascolti e pubblicità garantiti. Non la pensa così Nicola Porro: “Che Tempo Che Fa era un vero e proprio sistema di potere”. E ai colleghi giornalisti: “Vi siete forse dimenticati quando all’inizio del 2000 Fazio non ci pensò due volte ad abbandonare la Rai di fronte a 13 miliardi di lire offerti da La7 (che all’epoca si chiamava Telemontecarlo) per fare un programma con Gad Lerner?”. Poi Tmc passò “nelle mani di Tronchetti Provera che, vedendo i conti in rosso, optò per rinunciare alle puntate di intrattenimento costosissime di Fazio”. Torna a farsi sentire anche il vicepremier Matteo Salvini: “C’è una libera scelta di un libero conduttore che ha accettato liberamente un’offerta”, “nessuno ne faccia una questione di Stato”.

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Esteri

La mappa delle basi Usa (e occidentali) nell’area

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Basi militari note e altre segrete, installazioni logistiche e soldati sul campo per addestrare forze locali: è molto articolata la presenza delle truppe statunitensi e occidentali in Medio Oriente che potrebbero finire nel mirino di Teheran e delle milizie alleate. A cominciare dalle basi in Iraq e Siria, che già hanno dovuto fare i conti con la reazione all’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza scatenata all’indomani delle stragi del 7 ottobre compiute da Hamas. In Iraq in particolare, dove il premier Muhammad Sudani ha chiesto il ritiro delle truppe americane e l’esercito di Baghdad giudica la loro presenza “fonte di instabilità”, già si contano diverse decine di attacchi.

La gran parte sono rivendicati dal gruppo “Resistenza islamica in Iraq”, che secondo Washington è sostenuto da Teheran. Nel Paese i soldati americani sono quasi 2.500, inquadrati nella Coalizione anti-Isis creata nel 2014. La situazione è talmente tesa che le forze Usa hanno colpito a Baghdad nel gennaio scorso il comandante di una fazione filoiraniana. L’ultimo attacco nella capitale irachena risaliva al 2020: venne ucciso in un raid Qasem Soleimani, il capo delle forze al Quds iraniane. Allora, per rappresaglia, Teheran lanciò diversi missili balistici sulla base di Al-Asad. Tra le altre strutture, l’aeroporto militare di Erbil, nel Kurdistan iracheno, finisce spesso nel mirino. Nell’area sono dislocati anche i militari italiani inquadrati nell’operazione Prima Parthica (oltre mille soldati tra Iraq e Kuwait), soprattutto per l’addestramento delle forze locali. In Siria la base militare Usa più nota è quella di al Tanf, un’ex prigione che sorge strategicamente al confine tra Iraq e Giordania, poi ci sono quelle di al Omar e al Shaddadi, nel nordest, tutte e tre già prese di mira dal 7 ottobre. I soldati schierati in Siria sarebbero almeno 900, ufficialmente per l’addestramento delle Forze democratiche siriane (Sdf) che ancora combattono contro il governo di Damasco.

Nel nord ci sarebbero poi 200 militari francesi dispiegati in una manciata di basi: le informazioni però arrivano soprattutto da Ankara, che accusa Parigi di addestrare in loco i “terroristi” del Pkk, mentre ufficialmente addestrano, anche loro, le Sdf. In Giordania, 3mila i soldati Usa schierati, il presidente Emmanuel Macron ha acceso i riflettori sulla base aerea nel nordest desertico da cui sono partiti i caccia per intercettare i droni iraniani nell’attacco a Israele. Lo aveva già fatto a dicembre, andando a visitare per Natale i 350 soldati della struttura. Ma la base giordana che desta le maggiori preoccupazioni è la ‘Torre 22’: situata al confine siriano – si staglia a una manciata di chilometri dalla base di al Tanf – è stata attaccata dai droni delle milizie filoiraniane a gennaio con un bilancio di tre soldati americani uccisi e oltre 40 feriti. La presenza militare americana in Medio Oriente si snoda poi con le molteplici basi in Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Baharein, Kuwait, Gibuti, Oman che ospitano oltre 40mila soldati, a cui vanno aggiunti i britannici. Ma si tratta di Paesi che difficilmente potrebbero finire oggi nel mirino di Teheran, a meno di non voler correre il rischio di dare il là alla Coalizione regionale anti-Iran evocata da Tel Aviv.

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Economia

L’Alfa Romeo cambia nome alla Milano, si chiamerà Junior

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La nuova Alfa Romeo Milano dopo la polemica con il governo cambia nome: la prima compatta sportiva del Biscione si chiamerà Junior. “Pur ritenendo che il nome Milano rispetti tutte le prescrizioni di legge, e in considerazione del fatto che ci sono temi di stretta attualità più rilevanti del nome di una nuova auto, Alfa Romeo decide di cambiare il nome da Milano a Junior, nell’ottica di promuovere un clima di serenità e distensione”, ha spiegato Jean-Philippe Imparato, amministratore delegato del brand, che ha confermato la produzione a Cassino della nuova Stelvio nel 2025 e della nuova Giulia nel 2026, mentre nulla è stato ancora deciso sui modelli del 2027. “La cautela è importante, faremo il nostro piano industriale sulla base di considerazioni che riguardano competitività e clienti. Questo vale per tutte le vetture che faremo in Italia”, ha sottolineato.

Soddisfatto il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che nei giorni scorsi aveva definito “illegale” la scelta del brand Stellantis di produrre in Polonia il nuovo modello Alfa Romeo con il nome Milano “perché viola la legge sull’Italian Sounding”. “Credo sia una buona notizia – ha commentato Urso – che giunge proprio nella giornata del made in Italy che esalta il lavoro, l’impresa, la tipicità e la peculiarità del prodotto italiano che tutti ci invidiano nel mondo. Una buona notizia, che penso possa esaltare il lavoro e l’impresa e consentirci di invertire la rotta, anche per quanto riguarda la produzione di auto nel nostro Paese”. Il presidente dei senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, parla di “una vittoria del governo Meloni che dal giorno del suo insediamento sta portando avanti una battaglia per la tutela e il rilancio del Made in Italy”.

Per Imparato, che non ha sentito il ministro, “il caso è chiuso”: “Non procediamo legalmente, abbiamo da lavorare. Il nome sarà cambiato su tutti i mercati dove l’auto sarà venduta. Per noi il senso non è fare polemica, ma fare business” ha spiegato il manager che ha incontrato anche i concessionari. “In una delle settimane più importanti per il futuro di Alfa Romeo – ha detto il ceo del brand del Biscione – un esponente del governo italiano dichiara che l’utilizzo del nome Milano, scelto dal marchio per chiamare la nuova compatta sportiva appena presentata, è vietato per legge. Il nome Milano, tra i favoriti del pubblico, era stato scelto per rendere tributo alla città dove tutto ebbe origine nel 1910. Non è la prima volta che Alfa Romeo chiede il parere del pubblico per scegliere il nome di una vettura. Successe già nel 1966 con la Spider 1600: in quel caso il nome scelto dal pubblico era stato Duetto”. Il nuovo nome junior è un omaggio al passato.

“Una scelta del tutto naturale, essendo fortemente legato alla storia del marchio ed essendo stato fin dall’inizio tra i nostri preferiti e tra i preferiti del pubblico. Era al secondo posto dopo Milano”, ha sottolineato Imparato. “Siamo perfettamente consapevoli – ha affermato il manager – che questo episodio rimarrà inciso nella storia del marchio. E’ una grande responsabilità ma al tempo stesso è un momento entusiasmante. Come team scegliamo ancora una volta di mettere la nostra passione a disposizione del marchio, di dare priorità al prodotto e ai clienti. Decidiamo di cambiare, pur sapendo di non essere obbligati a farlo, perché vogliamo preservare le emozioni positive che i nostri prodotti generano da sempre ed evitare qualsiasi tipo di polemica. L’attenzione riservata in questi giorni alla nostra nuova compatta sportiva è qualcosa di unico, con un numero di accessi al configuratore online senza precedenti, che ha provocato il crash del sito web per alcune ore”. Imparato ha concluso con una battuta: “è come avere lanciato due modelli in pochi giorni, prima la Milano e poi la Junior. Siamo davvero unici”.

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Esteri

Trump alla sbarra, ‘processarmi è un attacco all’America’

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Tra ingenti misure di sicurezza e centinaia di rappresentanti dei media accampati fuori dal tribunale sin dalle quattro di mattina, Donald Trump è arrivato a Manhattan per il primo processo ad un ex presidente nella storia degli Stati Uniti. Trentaquattro capi di imputazione e almeno due mesi di udienze, il procedimento per i pagamenti alla porno star Stormy Daniels è l’unico dei quattro a suo carico che arriverà a sentenza prima delle elezioni di novembre.

“Lotto per la libertà di 325 milioni di americani. Questo processo è un attacco all’America”, ha attaccato Trump poco prima di entrare in aula ribadendo di essere vittima di una “persecuzione politica”. Il tycoon è accusato di aver falsificato documenti aziendali per nascondere un pagamento di 130.000 dollari all’attrice e regista hard nel 2016 in modo che non rivelasse la loro relazione. Secondo il procuratore Alvin Braggs, l’ex faccendiere Michael Cohen, uno dei testimoni chiavi, ha materialmente staccato gli assegni e poi è stato rimborsato dalla società di Trump che ha fatto passare le rate come “spese legali”. Non solo, la procura di Manhattan imputa all’ex presidente altre due mazzette in cambio del silenzio sulle sue sregolatezze: una da 30.000 dollari ad un portiere della Trump Tower ed un’altra da 150.000 dollari alla coniglietta di Playbow Karen McDougall con la quale The Donald ha avuto una storia sempre nel 2016. Insomma, per l’accusa il tycoon aveva messo in piedi uno schema più ampio per tutelarsi dagli scandali durante la corsa alla Casa Bianca che poi ha vinto.

Anche per questo la procura chiamerà sul banco dei testimoni McDougall, l’editore del National Enquirer, il tabloid vicino all’ex presidente che si sarebbe fatto carico dei pagamenti a quest’ultima, e Hope Hicks, ex manager della campagna e poi direttrice delle comunicazioni alla Casa Bianca. Gli avvocati di Trump hanno elaborato una strategia difensiva basata, come riferiscono i media americani, sulle tre ‘d’, delay, deny and denigrate ovvero ‘ritarda, nega e denigra’. Per la parte diffamazione, il lavoro è quasi esclusivamente affidato a Trump che, nonostante l’ordine del silenzio da parte del giudice Juan Merchan, continua a pubblicare post al vetriolo contro Daniels e Cohen accusandoli di volta in volta di essere “bugiardi, opportunisti” e perfino “sacchi della spazzatura”.

Per quanto riguardi i tempi del processo i legali dell’ex presidente puntano sulla lentezza fisiologica del sistema giudiziario americano – devono ancora essere scelti i membri della giuria su oltre 200 candidati – e su una serie di espedienti piò o meno efficaci. Il giudice ha già bocciato la loro richiesta di ricusazione per un presunto conflitto di interessi (sua figlia lavora per un’azienda legata al partito democratico) sostenendo che si basava su “una serie di riferimenti, allusioni e speculazioni non supportate”. Ha invece lasciato una porta aperta su un’altra mozione della difesa, quella di non permettere a Trump di non essere presente alla seduta del 17 maggio per poter partecipare al diploma del figlio 18enne Barron.

“Vedremo a che punto del processo saremo”, ha risposto Merchan che ha anche stabilito che non ci saranno udienze il mercoledì. Sull’esito del procedimento è ancora troppo presto per esprimersi. Le accuse contro il tycoon sono tutti crimini di classe E, la categoria più bassa a New York, e ognuno comporta una pena detentiva massima di quattro anni di carcere. Merchan ha già chiarito che prende sul serio “i reati di colletti bianchi”, perché di questo Trump è accusato al di là degli affaire con le sue amanti, e potrebbe mandarlo dietro le sbarre ma potrebbe anche concedergli la libertà vigilata. In ogni caso, a meno di un passo indietro suo o del partito repubblicano, nulla impedirà a The Donald di continuare a correre per la Casa Bianca e, in caso di vittoria, a guidare gli Stati Uniti anche con la tuta arancione.

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