Polvere, grida, rombi minacciosi, lamenti, pianti. Il cielo è rosso vivo, mi dice la mia amica Pauline che mi chiama tardi nella notte da Kigali, la capitale ruandesee che è riuscita a raggiungere.Il terrore è negli occhi dei bambini, delle madri che li portano sul dorso, degli uomini carichi di tutto quello che possono portare: materassi, coperte, pentole. Sanno che dovranno affrontare giorni terribili. Quanti? Non si sa. Nessuno sa niente. Tutti hanno solo paura. E fuggono verso un dove sicuro che però non esiste: il confine ruandese, la cittadina di Sake.
Siamo a Goma, nell’est della RDC (Repubblica Democratica del Congo), sul lago Kivu. Sì, ricordate bene: da quelle parti, il 22 febbraio scorso, fu ucciso il nostro ambasciatore Luca Attanasio insieme alla sua scorta -il carabiniere Vittorio Iacovacci- e al suo autista, il congolese Mustapha Milambo. Goma è la capitale del Kivu, un inferno ordinario, violento e senza legge, a migliaia di Km da Kinshasa, la capitale del Congo. Tenuto in ostaggio da decine di bande armate. Dove il colera è una malattia endemica che ogni tanto esplode in epidemie virulente che le organizzazioni internazionali cercano di fronteggiare come possono.
La storia che raccontiamo materializza un’apocalisse nell’inferno ordinario. Comincia una settimana fa. Un’eruzione scuote sabato 22 maggio il Nyiragongo, una montagna di 3470 m, più alta dell’Etna, che sovrasta Goma. E’ uno dei diversi vulcani in questa zona di intensa attività tellurica. La lava corre verso la città. La gente fugge: ha imparato a temere il vulcano, che ha già dato segni mortali da tempi remoti e, da ultimo, nel 2002. Lo Stato è assente, ognuno fa quel che può, come può: ONG comprese. L’eruzione si placa. Il rientro. Poi comincia lo sciame sismico.
Scosse di lieve entità, ma che bastano a far crollare un’infinità di case costruite alla bell’e meglio. Arriva l’ordine di evacuazione di massa, giovedì 27: da 400.000 a un 1.000.000 di persone si rimettono in strada. Un dramma di proporzioni bibliche di cui i media parlano poco. Si teme per la contaminazione dei pozzi e dei canali, con la prevedibile impennata del colera sempre in agguato. Si temono, anche, esplosioni del lago Kivu, ove le sacche di metano contenute in questa fossa tettonica entrassero in contatto con le colate laviche. Come successe in Camerun, nel 1986, con il lago Nyos, molto più piccolo del Kivu: 2.000 persone, forse di più, asfissiate dal gas tossico carbonico.
Manca l’acqua ora, manca il cibo per una moltitudine tramortita. Gli aiuti umanitari tardano a venire. Forse potrebbero organizzarsi delle logistiche più stringenti dal Ruanda invece che da Kinshasa. Spero che la comunità internazionale sappia guardare oltre il proprio ombelico: rapidamente. Spero che il Papa ne parli nel discorso di oggi in Piazza San Pietro. Spero che l’Europa, per bocca di Ursula von der Leyen, sappia battere un colpo. Spero che a Washington abbiano tempo anche per questo genere di faccende. Così, magari, i media seguono…..
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
Si allargano anche alle possibili negligenze dei vertici della struttura sanitaria locale le indagini idella polizia britannica sulla “strage di neonati” del Countess of Chester Hospital: l’ospedale del nord dell’Inghilterra in cui un’infermiera addetta al reparto maternità fece morire – deliberatamente secondo le accuse – 7 neonati fra il 2015 e il 2016, esponendo a sovradosaggi di farmaci almeno altri 6, per motivi deliranti che in parte restano oscuri. Il primo capitolo della vicenda si è chiuso nell’agosto scorso con la condanna all’ergastolo dell’ex infermiera 33enne Lucy Letby, ribattezzata dai tabloid “la nurse killer del Chestershire”. Mentre è di oggi l’ufficializzazione della notizia dell’apertura formale di un secondo fascicolo parallelo da parte della polizia della contea sull’ipotesi di reato di complicità in omicidio colposo plurimo a carico di responsabili dell’ospedale o di figure addette sulla carta alla sorveglianza in seno al servizio sanitario nazionale (Nhs). Figure al momento non identificate. Il sovrintendente detective Simon Blackwell ha sottolineato che le verifiche riguarderanno anche i massimi vertici dell’epoca della struttura, precisando che esse sono tuttavia “a uno stadio iniziale”. E che quindi non vi sono per ora specifici individui nel registro degli indagati.
Un gioco al rialzo o rivendicazioni a uso e consumo interno? Il presidente tunisino Kais Saied ha rifiutato un primo assegno da 127 milioni dell’Unione europea, bollandolo come “elemosina”, con un rigurgito – almeno all’apparenza – di anticolonialismo. O, piuttosto, per alzare la posta, brandendo la minaccia dell’invasione di migliaia di migranti pronti a salpare da Sfax verso le coste italiane. Con un duplice obiettivo: ricevere una somma più alta, sul modello dell’accordo da 6 miliardi di euro raggiunto dall’Ue con la Turchia di Erdogan nel 2016 per chiudere i rubinetti della rotta balcanica; e riuscire ad ottenere i 900 milioni di assistenza macrofinanziaria previsti dal memorandum del luglio scorso, sganciandoli dai quasi 2 miliardi che l’Fmi tiene bloccati in attesa di riforme. Riforme che Saied – che dal 2021 si presenta come nuovo autocrate del Nord Africa – non sembra intenzionato nemmeno ad avviare.
La Commissione europea aveva annunciato nei giorni scorsi di aver stanziato i 127 milioni da versare “rapidamente” a Tunisi. Bruxelles aveva precisato che si trattava di 67 milioni per combattere l’immigrazione illegale (i primi 42 milioni dei 105 milioni di aiuti previsti dal memorandum firmato due mesi fa e altri 24,7 milioni nell’ambito di programmi già in corso) e 60 milioni legati al sostegno del bilancio tunisino. Ma Saied ha bloccato tutto: “La Tunisia accetta la cooperazione, ma non accetta nulla che somigli a carità o favore, quando questo è senza rispetto”, ha dichiarato il presidente dopo aver rinviato e sospeso nei giorni scorsi anche le visite delle delegazioni europee, prima parlamentare e poi della Commissione. Questo rifiuto, ha tenuto a sottolineare Saied, “non è dovuto all’importo irrisorio ma al fatto che questa proposta va contro” l’accordo firmato a Tunisi e “lo spirito che ha prevalso durante la Conferenza di Roma” di luglio, “iniziativa avviata da Tunisia e Italia”.
“Non abbiamo capito ancora cosa volesse dire Saied. Non abbiamo avuto la trascrizione e stiamo lavorando per avere più informazioni”, ha ammesso un alto funzionario Ue, intuendo però che il tunisino “avrebbe preferito più aiuti” rispetto alla prima tranche. Sullo stato dell’intesa la fonte ha ricordato che il Consiglio “non è stato coinvolto” nei negoziati. Ma, ha sottolineato, “non possiamo dire che il Memorandum sia un fallimento”. E se anche a Bruxelles l’intesa con Tunisi trova un ostacolo nelle diverse posizioni dei 27, preoccupa lo stato dei diritti umani nel Paese, dove la democrazia sognata dalla rivoluzione dei Gelsomini è ormai naufragata e dove lo stesso Saied ha di fatto aizzato una caccia al migrante subsahariano, ormai poco tollerato da una popolazione alle prese con una grave crisi economica e alimentare.
Resta il fatto che l’Europa e l’Italia non possono fare a meno di lavorare con la Tunisia per arginare gli sbarchi che rischiano di mettere in crisi l’Unione e il suo futuro dopo le elezioni di giugno. E Saied lo ha capito, rilanciando ogni giorno, non solo per sedare le tensioni interne ma anche e soprattutto per spingere l’Europa, di fronte ad una crisi migratoria senza precedenti, a fare pressione su Washington per lo sblocco degli 1,9 miliardi del Fondo Monetario Internazionale.
La Camera ha approvato la mozione per destituire lo speaker repubblicano Kevin McCarthy, facendo precipitare il Capitol nel caos e nell’incertezza. E’ la prima volta nella storia Usa. A proporre la mozione il deputato del suo partito Matt Gaetz, un fedelissimo di Donald Trump ed esponente di una fronda parlamentare alla Camera legata al tycoon.
La votazione si è conclusa con 216 voti a favore e 210 no. Otto repubblicani hanno votato contro McCarthy. Quest’ultimo ora dovrà indicare il suo sostituto provvisorio sino all’elezione di un nuovo speaker, passaggio che non sarà certo facile e che rischia di paralizzare il Congresso proprio quando deve negoziare la prossima legge di spesa.