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Cronache

Ergastolo ostativo, Avvocatura dello Stato: stop ad automatismi

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Un’apertura inattesa. All’udienza pubblica davanti alla Corte costituzionale sull’Ergastolo ostativo – la cui legittimita’ e’ stata messa in discussione dalla Cassazione – a sparigliare le carte e’ l’Avvocatura dello Stato, che nel giudizio rappresenta il governo. A sorpresa ha riscritto le sue conclusioni. Non ha chiesto piu’ di bollare come inammissibile o infondata la richiesta degli “ermellini” di dichiarare incostituzionale la norma che preclude ai condannati all’Ergastolo ostativo la liberazione condizionale se non collaborano. Ma ha invitato la Consulta, pur lasciando in vigore la norma , a sgombrare il campo dagli automatismi e a riconoscere, con una sentenza interpretativa di rigetto, il potere del giudice di sorveglianza di valutare caso per caso le ragioni della mancata collaborazione del condannato, che ha comunque portato a termine un percorso di ravvedimento. Gli effetti si vedranno domani quando i giudici cominceranno a discuterne in camera di consiglio e forse arriveranno alla sentenza. E’ comunque una svolta, che potrebbe essere legata anche all’ approccio diverso del nuovo governo su giustizia e carcere rispetto ai precedenti. “Attendiamo la sentenza della Consulta”, ma la scelta di non collaborare non puo’ essere “un elemento ostativo” alla concessione dei benefici penitenziari , ha detto alla vigilia dell’udienza il sottosegretario alla Giustizia Paolo Sisto. E se Marta Cartabia non si e’ espressa da ministra sul tema specifico, e’ nota la sua attenzione alla funzione rieducativa della pena, anche alla luce della sua pregressa esperienza di presidente della Corte costituzionale. Un quadro mutato e che sembra lontano dal clima politico teso nel quale piombo’ nel 2019 la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha riconosciuto per la prima volta la possibilita’ di ammettere ai permessi premio i mafiosi, anche se non collaborano, a condizione che abbiano reciso i rapporti con i clan e che sia reale la loro partecipazione al progetto rieducativo. Le reazioni furono accese con tanto di allarmi ( che si sono rivelati infondati)sull’uscita dal carcere di pericolosi boss. Qualche mese prima era stata la Corte europea di Strasburgo a chiedere all’Italia di modificare la legge sull’Ergastolo, perche’ quello ostativo e’ un “trattamento inumano e degradante”. Una pronuncia a cui occorre dar seguito se si vuole evitare una procedura di infrazione. Stavolta e’ stata la prima sezione della Cassazione a riportare il tema al vaglio della Consulta. Al centro del caso un uomo condannato all’Ergastolo ostativo per mafia. Ha gia’ scontato quasi 30 anni, 4 in piu’ dei 26 dopo i quali e’ possibile agli ergastolani comuni chiedere di scontare la pena residua in liberta’ vigilata e dopo altri cinque l’estinzione, se e’ dimostrato che si sono ravveduti. Ma nessun giudice puo’ pronunciarsi sulla sua richiesta perche’ c’ e’ una presunzione assoluta di pericolosita’ per chi, come lui, non collabora. Per l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, che lo difende, negare questa possibilita’ a lui e agli altri nelle sue condizioni significa “etichettare questa categoria dei detenuti come non risocializzabili”, segnarli con una “lettera scarlatta”. E “buttare la chiave” in questi casi sarebbe “una resa per lo Stato”. Non solo il cambiamento di un condannato “non puo’ essere misurato con la collaborazione con la giustizia” , ma fare i nomi dei propri sodali non e’ prova di “sicuro ravvedimento”, ha avvertito Araniti, richiamando i casi dei collaboratori di giustizia “blasonati” che dopo aver parlato con gli investigatori sono tornati a delinquere. Alla fine della sua arringa l’avvocata si e’ fatta portavoce dell’appello dei 1271 condannati all’Ergastolo ostativo : sono il 71% di chi deve scontare il carcere a vita e “chiedono di avere l’opportunita’ di dimostrare di essere persone diverse” .

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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