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Capire la crisi Ucraina

Erdogan: l’ambiguità geopolitica e il prezzo dell’autocrazia

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Si è svolto nei giorni scorsi l’incontro della CICA (Conference on Interaction and Confidence Building Measures in Asia) ad Astana, capitale del Kazakistan, bellamente ignorato dai media nei suoi contenuti politico-economici e culturali. Come del resto la più parte degli eventi asiatici. Particolarmente miope è l’Europa, che continua a pensare se stessa come l’ombelico del mondo, mentre un grande spostamento del baricentro geopolitico si sta producendo in direzione dell’Asia centro-orientale. Di questo riassetto geopolitico, sono protagoniste sempre più evidente non già le “democrazie” di stampo più o meno neo-liberale, come le conosciamo e le pratichiamo noi, bensì delle “autocrazie” che basano la loro legittimazione sull’efficacia economica, securitaria o comunque stabilita, dell’azione di governo piuttosto che sul consenso della popolazione.

Astana

Il Presidente turco è un emblema forte di questo riassetto geopolitico. Recep Tayyip Erdogan consolida ad Astana, nell’incontro di ieri con Vladimir Putin, il suo profilo di grande figura della mediazione nella crisi russo-ucraina. Si pone, così tra le poche personalità mondiali che possono dare una mano ad uscire dall’impasse negoziale in cui l’insipienza politica dell’Occidente ha gettato questa crisi. Gli Stati continuano su una loro linea arcaica. Che è poi quella di considerare la guerra come uno scontro che termina con qualcuno che vince e qualcuno che perde, piuttosto che come una sconfitta della politica da cui occorre uscire al più presto. E’, quest’ultima, la posizione del Papa, per dire. In tal modo, i loro gesti –degli Stati, intendo e delle organizzazioni che li rappresentano- si nutrono di retoriche che infiammano piccoli ed ostinati orgogli ma sterilizzano i tentativo di pace. Retoriche che poi scaricano addosso alle loro ormai esauste popolazioni i costi di una guerra che, indipendentemente dalle ragioni e dai torti -che andranno comunque definiti- nessuno più vuole pagare perché stanno diventando insostenibili.

Così, da un lato la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen continua a raccontarci di essere al fianco dell’Ucraina e sostiene -come tutto il “fronte Biden”: Stati Uniti, NATO, Gran Bretagna- che occorre continuare ad armare Kiev. Del resto, è ciò che ha chiesto Volodimir Zelensky partecipando ieri l’altro al G7 con la sua ennesima “televisione cerimoniale”.
Dall’altro lato, c’è la gente sempre più preoccupata degli sviluppi nucleari del conflitto, sempre più angosciata dalla recessione incombente che fa perdere tantissimi posti di lavoro, sempre più schiacciata da bollette di luce e gas che non riesce a pagare. Ricordiamo che secondo gli ultimi sondaggi IPSOS, il 60% degli italiani ritiene sia giunto il momento per Zelensky di scendere a patti con Putin, mentre la maggioranza relativa dice basta all’invio di armi e un numero crescente di persone ritiene inefficaci (e dunque inutili) le sanzioni contro la Russia. Fatti salvi, si potrebbe aggiungere, gli effetti disastrosi di tali sanzioni sui Paesi che le comminano: a cominciare da un’inflazione altamente punitiva per gli strati più deboli della popolazione.


Erdogan cavalca la tigre della crisi nelle sue molteplici sfaccettature. Ad Astana è emerso il ruolo possibile della Turchia nel rimettere in un asse accettabile l’interscambio energetico della Russia. Nella stessa occasione, Ankara è stata investita di un ruolo più ampio, ponendosi ormai Erdogan come una sorta di “plenipotenziario” incaricato di formulare concrete ipotesi negoziali al fine di riunire gli attori primari della crisi attorno a un tavolo.
Vento in poppa ad Ankara, dunque, per quel che riguarda ciò che gli studiosi chiamano la “geopolitica esterna”. La scacchiera su cui si muove la Turchia è globale: Europa e NATO (vedi contrastata adesione dei Paesi scandinavi), Asia centrale e spazi turco-iranici, Medio Oriente e crisi siriana, Africa del Nord e crisi libica, politiche di influenza a Sud del Sahara.

In concomitanza, la “geopolitica interna” presenta aspetti sempre più preoccupanti. Sono ben note le attitudini repressive di Erdogan: contro gli intellettuali e le Università, contro le opposizioni politiche, contro i curdi. È notizia di ieri, invece, l’approvazione della “legge sulla stampa” che in realtà riguarda tutti i media: cartacei, radiotelevisivi, digitali. E prevede, tale fino a tre anni di carcere (art. 29) per coloro che diffondano informazioni false o che inducano in errore, “contrarie alla sicurezza del Paese o che attentino alla salute pubblica o all’ordine pubblico, spandendo la paura e il panico tra la popolazione”.
Insomma, un vero e proprio ulteriore cappio al collo alla libertà di stampa, in un Paese che nella classifica di Reporter sans Frontières figura al 149° posto su 180. E ciò, mentre si profilano le elezioni del giugno 2023, nella quali Erdogan si accinge a correre per un nuovo mandato.

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Zuppi, per l’Ucraina avere lo struggimento che ha il Papa

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“Papa Francesco ci chiede di non abituarci alla guerra. A me, come credo a tanti, ha commosso la commozione di papa Francesco l’8 dicembre a Piazza di Spagna, quando con tutto lo struggimento di far proprio il dolore del popolo ucraino, la sofferenza del popolo ucraino colpito dalla guerra, vi ricordate, non riusciva più ad andare avanti. Dobbiamo continuare ad avere quello stesso struggimento. Perché ogni giorno che passa è tante persone che muoiono, è un odio che diventa ancora più profondo, è un inquinamento che diventa ancora più insopportabile in tutto l’ambiente. E il rischio è che sia davvero una guerra mondiale, che nei suoi vari pezzi già coinvolge tanti”.

Lo ha detto il cardinale di Bologna e presidente della Cei Matteo Maria Zuppi intervenendo questo pomeriggio a Rimini, nella prima giornata del 44/o Meeting per l’amicizia fra i popoli, alla tavola rotonda moderata da Bernhard Scholz sulla Fratelli tutti. La missione di pace affidatagli dal Papa, ha detto Zuppi, “nasce da questo. Papa Francesco ci insegna a struggerci per la pace, a cercare tutti quanti i modi: spingere, trovare quello che può essere utile, ascoltare, manifestare la vicinanza, vedere gli spazi che possono favorire una composizione”. Secondo il cardinale, “questo non significa tradimento. Mi spiego. La pace richiede la giustizia, e richiede la sicurezza. Cioè non ci può essere una pace ingiusta, anche perché sarebbe la premessa di una continuazione dei conflitti. Dev’essere una pace giusta. E non dimentichiamo naturalmente che c’è un aggressore e c’è un aggredito”.

“E dev’essere una pace sicura – ha proseguito -, cioè che possa permettere alle persone di guardare con speranza al futuro. Poi certamente la sicurezza richiede il coinvolgimento di tutti, mai dare per scontato. Davvero se vuoi la pace prepara la pace. E’ questo il grande impegno che dobbiamo con consapevolezza e responsabilità cercare”. Nella missione, poi, “c’è l’attenzione soprattutto per la parte umanitaria, quindi i bambini ucraini che sono in Russia, provare a capire che cosa si può fare e quindi anche il ritorno di chi deve ritornare nelle proprie famiglie, nelle proprie case”. “E i frutti? – si è chiesto lo stesso Zuppi – Purtroppo la guerra lacera con profondità e qualche volta con rapidità, ma la guerra è sempre una preparazione, c’è sempre in terreno di coltura, c’è sempre una gestazione, non dobbiamo mai dimenticare. Sicuramente questo ci richiede, richiederà la capacità di mettere insieme tanti soggetti che possano spingere per trovare la pace”.

“Personalmente – ha detto ancora – lo vivo con una grande consapevolezza: quanta gente prega per la pace. E devo dire che questo mi dà, per certi versi, ancora più responsabilità, una responsabilità che ci coinvolge tutti quanti, ma anche il senso di una grande invocazione che ci spinge, ci deve spingere, ci spingerà anche nelle prossime settimane, nei mesi prossimi se serve, a trovare la via della pace, a rispondere a quel vero desiderio di tutti che è di liberarci della violenza e di fare tesoro di questa pandemia perché finalmente si possa combattere la guerra e si possa immaginare un mondo senza guerra”.

Per Zuppi, questa “non è un’ingenuità. ‘Ma come? con quello che succede? Anzi, con la tentazione del riarmo?’ – ha detto -. Ma a maggior ragione, come con la pandemia del Covid dobbiamo far tesoro, dobbiamo anche sapere far tesoro di questo e cercare tutti gli strumenti che possano comporre i conflitti. Perché il dialogo non è tradire le ragioni, non è accettare una pace ingiusta, ma è trovare una pace giusta e sicura, però non con le armi bensì con il dialogo. E questo credo che sia davvero indispensabile per questa tragica guerra in Ucraina e in tanti pezzi della guerra mondiale”. Nel corso della tavola rotonda, il cardinale ha ascoltato anche quattro testimonianze di imprenditori o operatori nel campo sociale sul tema dell'”amicizia operativa”, e ha voluto sottolineare come anche “l’amicizia sociale è costruzione di pace: è liberare da tanta rabbia, da tanto odio, da tanto individualismo. Questo discorso dell’amicizia sociale credo che papa Francesco ce lo rilanci perché altrimenti non c’è futuro. Quindi la Laudato sì per la casa comune, perché altrimenti non c’è più l’uomo che non ce la fa più a vivere, e la casa che non può essere una casa di estranei, ma Fratelli tutti”.

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L’India non invita Kiev al G20, ‘non è tema del summit’

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Dietro le quinte l’adagio si ripete da tradizione: il G20 non è palcoscenico per la sicurezza internazionale. E, fedele alla sua politica di non allineamento, l’India padrona di casa lo certifica con un segnale inequivocabile: a Delhi il 9 e 10 settembre l’Ucraina non ci sarà. Una scelta utile, nella visione del ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, a mantenere i riflettori puntati sui Paesi emergenti. Ma che lascia presagire tensioni e lunghi negoziati tra le diplomazie per arrivare a una dichiarazione finale capace di fare riferimento alla guerra e alle sue conseguenze al cospetto anche di Mosca, invitata di diritto al forum politico. Seppur con l’incognita della presenza, ancora tutta da confermare ma data assai improbabile, del presidente Vladimir Putin, sempre esposto al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.

Pubblicata sul sito della presidenza del G20 a poco più di tre settimane dal summit, la lista confezionata da Delhi conta ventinove ospiti: oltre ai consueti venti Paesi più industrializzati, l’invito è stato esteso anche alla Spagna, in qualità di membro permanente, ai Paesi Bassi, e poi a Bangladesh, Nigeria, Mauritius, Egitto, Oman, Singapore ed Emirati Arabi Uniti. Scorrendo l’elenco, dell’Ucraina nemmeno l’ombra. Del resto, si è giustificato il capo della diplomazia indiana, il G20 “non è il Consiglio di sicurezza dell’Onu, è una piattaforma focalizzata sulla crescita globale” che “deve restare al centro dell’attenzione”.

E il mancato invito, è il chiarimento, non mette certo in discussione le “relazioni buone e solide in campo economico, militare, tecnologico e di sicurezza alimentare” tra Delhi e Kiev, evidenziate anche dagli incontri – l’ultimo a margine del G7 di Hiroshima a maggio – tra il primo ministro Narendra Modi e il presidente Volodymyr Zelensky. L’esclusione dell’Ucraina – in discontinuità con la linea dettata nel novembre scorso anno dall’Indonesia al G20 di Bali – conferma però la fermezza dell’India nel mantenersi “indipendente” davanti al conflitto. E alimenta nuove polemiche intorno al supporto internazionale a Kiev all’indomani delle controverse parole del braccio destro di Jens Stoltenberg, Stian Jenssen, che aveva indicato la cessione di alcuni territori ucraini a Mosca come “una soluzione” per un’adesione del Paese alla Nato, facendo infuriare il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak.

Uscita di cui lo stesso Jenssen ha poi fatto mea culpa, definendola un “errore”, mentre la stessa Alleanza è corsa ai ripari riaffermando il suo sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale ucraina. Da parte sua, l’India assicura il pieno impegno sulla scena del G20 per arrivare a un testo finale “ambizioso”. In queste settimane – con l’intera nazione che attende il grande evento puntellata di manifesti dallo slogan scelto dalla presidenza ‘One Earth. One Family. One Future’ – il lavoro degli sherpa è fitto e destinato a protrarsi fino all’ultimo minuto utile. Tra i corridoi del segretariato del G20 nella capitale indiana circola un cauto ottimismo per il successo finale delle trattative nel segno di quanto espresso a Bali. Oggi come ieri, è l’annotazione di Jaishankar, le conseguenze della guerra “continuano a dominare l’economia mondiale”.

E a colpire anche quel Sud globale di cui l’India vuole rappresentare “la voce” e le istanze, dando più spazio – in una formula ancora da definire – anche all’Unione africana con l’intento di “plasmare un nuovo ordine mondiale”. Nuove architetture, soprattutto economiche, che prima di approdare a Delhi saranno all’ordine del giorno anche del vertice dei Brics, il club degli emergenti o ex tali – capeggiati da Russia, Cina, India e Brasile – il 22-24 agosto in Sudafrica. Le loro priorità, nella visione indiana, dovranno essere ascoltate dalle economie più sviluppate a settembre. Nessuno spazio, nemmeno a margine, per nuovi colloqui di pace nel solco di Gedda.

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Grossi all’Onu presenta il piano per Zaporizhzhia

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Un piano in cinque punti per salvare la centrale nucleare di Zaporizhzhia. E’ quello che il direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi ha presentato all’Onu, parlando di “impegni essenziali per evitare il pericolo di un incidente catastrofico”. I cinque punti prevedono che non ci sia “nessun attacco da o contro la centrale nucleare, di non usare l’impianto come deposito o base per armi pesanti o personale militare, non mettere a rischio l’alimentazione esterna dell’impianto, proteggere da attacchi o atti di sabotaggio tutte le strutture, i sistemi e i componenti essenziali per il funzionamento sicuro e protetto, non intraprendere azioni che compromettano questi principi”. Grossi ha spiegato che “la situazione della sicurezza nucleare e della protezione di Zaporizhzhia continua ad essere estremamente fragile e pericolosa, le attività militari continuano nella regione e potrebbero aumentare molto considerevolmente nel prossimo futuro”.

Per questo, ha avvertito, “siamo fortunati che non si sia ancora verificato un incidente nucleare”. Tuttavia, al termine dell’incontro in Consiglio di Sicurezza, il direttore dell’Aiea ha sottolineato con soddisfazione che “oggi è un giorno positivo per la sicurezza della centrale” e che “è stato fatto un passo nella giusta direzione”. Pur precisando che bisogna essere cauti, si è detto incoraggiato dalle espressioni di sostegno al lavoro dell’Agenzia che ha ricevuto, incluso ai principi elaborati dopo intense consultazioni con Russia e Ucraina. Alle quali ha chiesto “solennemente di osservare questi cinque punti, che non vanno a scapito di nessuno ma a vantaggio di tutti”. Nel corso della riunione è poi andato in scena il consueto scontro tra Russia e occidentali, Usa in testa.

Assicurare la sicurezza nucleare “è sempre stata e rimane una priorità per il nostro Paese”, ha detto l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia, sottolineando che “Mosca sin dall’inizio ha fatto ogni sforzo possibile per prevenire minacce alla sicurezza dell’impianto create dal regime di Zelensky e dai suoi alleati”. E affermando di condividere le preoccupazioni di Grossi sulle minacce alla sicurezza della centrale. Mentre la collega americana Linda Thomas-Greenfield ha puntato il dito contro la Russia, spiegando che “le sue azioni sconsiderate sono in netto contrasto con il comportamento responsabile dell’Ucraina e sono un attacco alla sicurezza della regione e del mondo”: “È interamente sotto il controllo di Mosca evitare una catastrofe nucleare”.

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