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Cronache

Eni, bufera in Procura di Milano: indagati 2 pm a Brescia

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Non si placa la bufera in Procura a Milano, dove da circa un mese si sta consumando una sorta di resa dei conti attorno alla complessa vicenda di Eni, con da un lato il procedimento per la corruzione internazionale in Nigeria in cui gli imputati sono stati mandati tutti assolti, e dall’altro l’inchiesta sul cosiddetto ‘falso complotto’ per depistare gli accertamenti su quella presunta, ma non provata, maxi tangente e nella quale l’avvocato Piero Amara ha adombrato una presunta loggia segreta chiamata Ungheria. Cosi’ da una decina di giorni il procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, appena diventato magistrato europeo, da accusatori per il caso nigeriano sono diventati accusati. Infatti, nei loro confronti e’ stata aperta a Brescia un’indagine con l’ipotesi di rifiuto e omissione di atti d’ufficio. Della loro iscrizione, che ha visto gia’ una perquisizione informatica dei loro pc da cui sono state copiate le mail che i due magistrati si sono scambiati, sono stati informati ieri il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il Csm e il ministero della Giustizia. E’ un “atto dovuto che merita rispetto istituzionale, tanto quanto l’assoluta professionalita’ dei colleghi”, ha commentato verso sera il Procuratore di Milano Francesco Greco venendo in ‘soccorso’ dei suoi due pubblici ministeri, uno dei quali da lui voluto a dirigere il dipartimento Affari Internazionali creato ad hoc. L’inchiesta bresciana, coordinata dal Procuratore Francesco Prete, e’ nata dall’interrogatorio del pubblico ministero, sempre di Milano, Paolo Storari, pure lui indagato sempre a Brescia ma per rivelazione del segreto di ufficio, in quanto, quando aveva affiancato l’aggiunto Laura Pedio nelle indagini sul depistaggio Eni, nell’aprile 2020 aveva consegnato, per autotutelarsi, i verbali resi da Amara (in carcere da due giorni su disposizione della magistratura di Potenza) a Piercamillo Davigo, allora al Csm. Storari sentito due volte, il 19 e il 28 maggio, ha spiegato di aver inviato a De Pasquale e Spadaro – mettendo in copia Pedio e Greco – materiale che avrebbe dimostrato come Vincenzo Armanna, ex manager ‘licenziato’ dalla compagnia petrolifera italiana e valorizzato dall’accusa nel dibattimento sul giacimento nigeriano, avesse ‘costruito’ prove in realta’ false per “gettare fango” sui vertici del gruppo di San Donato per poi ricattarli. Materiale che i due pubblici ministeri non hanno messo a disposizione delle difese e del Tribunale durante il processo pur avendo consapevolezza, questa e’ l’ipotesi, delle ‘false’ accuse mosse. Le omissioni riguardano in particolare una serie di chat ‘alterate’ dall’ex dirigente per screditare non solo l’ad Claudio Descalzi ma anche il capo del personale Claudio Granata. E altri messaggi ‘depurati’ per nascondere, come risulterebbe dai conti di Armanna, il versamento di 50 mila dollari a Isaac Eke, teste chiamato in aula dall’accusa indicandolo come il ‘vero Victor’ (ex poliziotto del paese africano) ma che non si e’ poi presentato ritenendo il ‘compenso’ non adeguato e mandando al suo posto un’altra persona. Sullo sfondo pure il video, che risale al luglio 2014, anch’esso non depositato alle parti processuali, in cui, come hanno spiegato nelle loro motivazioni assolutorie i giudici, e’ registrato un incontro tra Armanna e Amara che dimostrerebbe come il primo avesse orchestrato “un impressionante vortice di falsita’” contro i vertici Eni. Video che oggi e’ stato acquisito dai magistrati bresciani.

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Sangue infetto, la famiglia di un militare napoletano morto nel 2005 sarà risarcita con un milione di euro

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Dopo quasi vent’anni di battaglie legali, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per i familiari di un militare napoletano, deceduto nel 2005 a seguito di complicazioni derivanti da una trasfusione di sangue infetto. La sentenza storica condanna l’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina, stabilendo un risarcimento di oltre un milione di euro ai familiari del defunto.

Il militare, trasferitosi da Napoli a Sicilia per lavoro, subì un grave incidente durante il servizio che necessitò un intervento chirurgico d’urgenza e la trasfusione di quattro sacche di sangue. Anni dopo l’intervento, si scoprì che il sangue trasfuso era infetto dall’epatite C, portando alla morte del militare per cirrosi epatica. La complicazione si manifestò vent’anni dopo la trasfusione, rendendo il caso particolarmente complesso a livello legale.

In primo e secondo grado, i tribunali di Palermo e la Corte d’Appello avevano respinto le richieste di risarcimento della famiglia, giudicando prescritto il diritto al risarcimento. Tuttavia, la decisione della Corte di Cassazione ha ribaltato questi verdetti, affermando che la prescrizione del diritto al risarcimento non decorre dal momento del fatto lesivo ma dal momento in cui si manifesta la patologia collegata al fatto illecito.

Questa sentenza non solo porta giustizia alla vittima e ai suoi cari ma stabilisce anche un importante precedente per la tutela dei diritti dei pazienti e la responsabilizzazione delle strutture sanitarie. Gli avvocati della famiglia hanno sottolineato l’importanza della decisione, che apre nuove prospettive nel campo della giustizia sanitaria e sottolinea l’obbligo delle strutture ospedaliere di rispettare protocolli medici dettagliati, anche in situazioni di urgenza.

Il caso di Antonio (nome di fantasia) sottolinea la necessità di garantire la sicurezza nelle procedure mediche e di monitorare con rigore le condizioni di sicurezza del sangue donato, indipendentemente dalle circostanze. La sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore giustizia e sicurezza nel sistema sanitario italiano, ribadendo che nessuna circostanza può esimere dal rispetto delle norme di sicurezza e prudenza necessarie per proteggere la salute dei pazienti.

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Addio a Italo Ormanni, magistrato e gentiluomo napoletano

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Italo Ormanni, magistrato, è scomparso all’età di 88 anni. Dopo una vita dedicata alla giustizia e alla lotta contro la criminalità organizzata, Ormanni ci lascia ricordi indelebili di un uomo che ha saputo coniugare serietà professionale e un vivace senso dell’umorismo. È deceduto ieri a Roma, nella clinica Quisisana, dove era ricoverato e aveva subito un’angioplastica.

La carriera di Ormanni, iniziata nella magistratura nel 1961, è stata lunga e fruttuosa, con servizio attivo fino al 2010. Tra i casi più noti che ha seguito, ci sono stati quelli che hanno toccato i vertici della camorra a Napoli, sua città natale, e importanti inchieste su eventi di cronaca nazionale, come il rapimento di Emanuela Orlandi e l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Anche nel suo ruolo di procuratore aggiunto a Roma, Ormanni ha gestito casi di grande risonanza, contribuendo significativamente alla sicurezza e alla giustizia in Italia.

Oltre al suo impegno nel campo giudiziario, Ormanni ha avuto anche una breve ma memorabile carriera televisiva come giudice-arbitro nella trasmissione “Forum”, dove ha lasciato il segno con la sua capacità di gestire le controversie con saggezza e empatia.

Amante delle arti e della cultura, Ormanni ha sempre cercato di bilanciare la durezza del suo lavoro con le sue passioni personali, dimostrando che dietro la toga c’era un uomo completo e poliedrico. I suoi funerali si terranno a Roma, nel primo pomeriggio di lunedì, dove amici, familiari e colleghi avranno l’occasione di rendere omaggio a una delle figure più influenti e rispettate del panorama giudiziario italiano.

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Falso terapista accusato di stupro, vittima minorenne

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Accoglieva le sue pazienti all’interno di un finto studio allestito in una palestra di Fondi e, una volta solo con loro nelle stanze della struttura, le molestava nel corso di presunti trattamenti di fisioterapia, crioterapia e pressoterapia, facendo leva sulle loro fragilità psicologiche e fisiche affinché non raccontassero nulla. Dolori e piccoli problemi fisici che spingevano ciascuna delle vittime, tra cui anche una minorenne, a recarsi da lui per sottoporsi alle sedute, completamente all’oscuro del fatto che l’uomo non possedesse alcun titolo di studio professionale, né tanto meno la prevista abilitazione, e che non fosse neanche iscritto all’albo. È finito agli arresti domiciliari il finto fisioterapista trentenne di Fondi, per il quale è scattato anche il braccialetto elettronico, accusato di aver commesso atti di violenza sessuale su diverse donne, tra cui una ragazza di neanche 18 anni, e di aver esercitato abusivamente la professione.

Un’ordinanza, quella emessa dal giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Latina ed eseguita nella giornata di oggi dagli agenti del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, arrivata al termine di un’indagine di polizia giudiziaria svolta su delega della Procura di Latina. Durata all’incirca un anno, quest’ultima ha permesso di svelare, attraverso le indagini condotte anche con accertamenti tecnici, acquisizioni di dichiarazioni ed esami documentali, i numerosi atti di violenza da parte dell’uomo nei confronti delle pazienti del finto studio da lui gestito. Tutto accadeva all’interno di un'”Associazione sportiva dilettantistica” adibita a palestra nella città di Fondi, nel sud della provincia di Latina: quella che il trentenne spacciava per il suo studio, sequestrata in queste ore dalle fiamme gialle quale soggetto giuridico formale nella cui veste è stata esercitata l’attività professionale, in assenza dei prescritti titoli di studio, della prevista abilitazione e della necessaria iscrizione all’albo, nonché dei locali, attrezzature e impianti utilizzati. Un’altra storia di abusi a Lodi.

Vittima una ragazza siriana di 17 anni arrivata in Italia per sfuggire alla guerra e al sisma del 2023: finita nelle mani dei trafficanti è stata sottoposta a violenze e maltrattamenti e poi abbandonata. La Polizia, coordinata dalla Procura di Lodi e dalla Procura presso la Direzione distrettuale antimafia di Bologna, ha arrestato i due aguzzini.

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