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Dugin attacca Putin su Kherson, giallo sul post rimosso

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Il ritiro da Kherson fa “soffrire i russi come se il loro cuore fosse strappato”. Ora chi è al potere “non può più cedere nulla”, e se lo dovesse fare sarà chiamato a risponderne. Mentre perdura il silenzio delle autorità e lo sconcerto dei tanti russi che sostengono l’operazione militare in Ucraina, è stato Alexander Dugin a prendere la parola per puntare il dito dritto contro il Cremlino. Almeno secondo quanto emerso da un post apparso sul canale Telegram del filosofo ultranazionalista e poi rimosso, ma non prima che alcuni media ne prendessero nota. Un messaggio carico di rabbia e dolore in cui, senza mai nominarlo direttamente, Dugin sembra richiamare il presidente Vladimir Putin alle sue responsabilità, arrivando a fare un parallelo con i capi che nelle società primitive erano chiamati a pagare con la vita il tradimento delle speranze delle loro genti. Il misterioso messaggio, apparentemente proveniente dal più famoso ideologo della rinascita della Grande Russia, ha avuto l’effetto di un sasso nello stagno dopo giorni in cui anche i principali esponenti della linea dura si sono pubblicamente allineati alla scelta del ritiro. Il caso più curioso è forse quello di Margarita Simonyan, direttrice della televisione Russia Today, che ha paragonato l’abbandono di Kherson al ritiro da Mosca del generale Kutuzov nel 1812 davanti all’avanzata dell’esercito napoleonico. Una mossa tattica, insomma, in vista di future vittorie. Ma nello scritto attribuito a Dugin le cose vengono viste in modo ben diverso: Kherson, “il capoluogo di una delle regioni russe”, si è arresa, e “i russi oggi piangono e soffrono”. Poi arrivano le parole più sorprendenti. In un’autocrazia, si spiega nel testo, “diamo assoluta pienezza del potere” a chi deve “salvarci tutti, il popolo, lo Stato, i cittadini, in un momento critico”. Ma se non lo fa, lo aspetta “il destino del re della pioggia”. Una citazione di un saggio dell’antropologo britannico James Frazer in cui si parla appunto del potere supremo riconosciuto a un uomo in grado di far piovere, ma che se fallisce nella sua missione è messo a morte. Nell’operazione in Ucraina sono già state fatte diverse correzioni militari e politiche, ma non hanno funzionato. Perché la Russia ne esca vittoriosa quella in corso deve diventare pienamente “una guerra di popolo”, afferma ancora l’autore del testo. Se Dugin dovesse riconoscerne la paternità, si tratterebbe di un segnale di grandissimo impatto, considerato anche il rafforzamento dell’autorità morale del filosofo presso i suoi seguaci dopo l’uccisione della figlia ventinovenne Darya in un attentato avvenuto nell’agosto scorso che anche fonti americane hanno attribuito ai servizi ucraini e del quale lo stesso Dugin doveva probabilmente essere il bersaglio. Ma anche se non ci dovesse essere una conferma, sono comunque parole che esprimono la frustrazione di molti, nel momento in cui la Russia è davanti a una scelta: continuare a rafforzare le linee difensive in attesa dell’inverno e in vista di una possibile controffensiva o seguire la via del negoziato. A questo proposito qualche indicazione potrebbe venire dalla missione del ministro degli Esteri Serghei Lavrov, impegnato in colloqui bilaterali in questi giorni al vertice dell’Asean e poi a quello del G20 in Indonesia. Ma l’ex presidente Dmitry Medvedev si è incaricato come al solito di esprimere la posizione più intransigente cercando di fugare i dubbi su un possibile compromesso. In Ucraina, ha avvertito, “la Russia non ha ancora usato il suo intero arsenale” per evitare di “colpire il nemico nelle aree popolate”. Ma Mosca resta impegnata a “costruire l’ordine mondiale futuro” combattendo contro la Nato e l’Occidente e quindi continuerà a “recuperare i suoi territori”. Il ministro della Salute Mikhail Murashko, in un intervento a una riunione preparatoria al vertice del G20, gli ha fatto eco, ribadendo la motivazione addotta fin dall’inizio per l’operazione in Ucraina. Cioè “proteggere i civili che non hanno riconosciuto il colpo di Stato anticostituzionale del 2014 a Kiev e sono stati sottoposti a un’aggressione militare negli ultimi otto anni”.

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Mosca, 2 morti per attacco ucraino con droni a Belgorod

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E’ di due morti il bilancio di un attacco ucraino con droni nella regione russa di Belgorod. Lo annuncia il governatore Vyacheslav Gladkov. – “In seguito al rilascio di due ordigni esplosivi, un edificio residenziale privato ha preso fuoco – ha scritto su Telegram il governatore Vyacheslav Gladkov -. Due civili sono morti, una donna che si stava riprendendo da una frattura al femore e un uomo che si prendeva cura di lei”.

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La Nato verso nuovi Patriot e Samp-T all’Ucraina

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Da Capri a Bruxelles a Washington, l’Occidente imbocca la strada per concretizzare gli aiuti militari – compresa la difesa aerea – essenziali per Kiev in difficoltà nella guerra. Durante il Consiglio Nato-Ucraina con Volodymyr Zelensky, il segretario generale Jens Stoltenberg ha assicurato che “presto” ci saranno nuovi annunci sui sistemi di difesa per il Paese invaso. “L’Alleanza ha mappato le capacità degli alleati, ci sono sistemi che possono essere dati all’Ucraina”, ha riferito Stoltenberg al termine dell’incontro. “In aggiunta ai Patriot ci sono altri strumenti che possono essere forniti, come i Samp-T”, quelli a produzione franco-italiana. Un annuncio che arriva mentre prendono corpo i “segnali incoraggianti” evocati dal segretario di Stato Usa Antony Blinken: dopo mesi di stallo, la Camera americana ha spianato la strada ai quattro provvedimenti per gli aiuti a Ucraina, Israele e Taiwan, mettendo in agenda il voto per domani.

E il Pentagono si sta preparando ad approvare rapidamente un nuovo pacchetto di aiuti militari che include artiglieria e difese aeree: secondo una fonte americana, parte del materiale potrebbe raggiungere il Paese nel giro di pochi giorni. In generale, per Kiev in ballo ci sono gli oltre 60 miliardi di dollari di forniture per le forze armate che – ha ricordato Blinken – “faranno una differenza enorme”. “Se i nuovi aiuti non verranno approvati c’è il rischio che sia troppo tardi”, ha ammonito il ministro degli Esteri Usa, mentre Zelensky ha ribadito l’allarme: i soldati “non possono più attendere” la burocrazia occidentale, la Nato deve dimostrare “se siamo davvero alleati”. La situazione sul terreno “è al limite”, ha aggiunto il leader ucraino al segretario della Nato Da parte dell’Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha “confermato quello che ha detto il presidente del Consiglio” sul fatto che il nostro Paese “farà il possibile per la protezione aerea dell’Ucraina”, mentre Kiev vuole dagli alleati ogni sistema disponibile, dai moderni Patriot – “almeno altre sette sistemi” – ai Samp-T italo-francesi. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ha partecipato al Consiglio Nato-Ucraina, nel quale si è convenuto sulla necessità di uno sforzo ulteriore per sostenere Kiev. L’Italia ragiona sugli ulteriori aiuti militari da fornire quanto prima all’Ucraina e sul tavolo – si apprende – c’è la possibilità di un nuovo decreto per l’invio degli armamenti.

Anche se Crosetto ha più volte sottolineato che quasi tutto ciò che si poteva dare è stato dato. Già a Capri, dove ha partecipato al G7 Esteri, Stoltenberg aveva confermato la volontà degli alleati di accelerare sulla difesa aerea ucraina. E nel loro documento finale, i Sette ministri hanno espresso la “determinazione a rafforzare le capacità di difesa aerea” del Paese invaso, confermando l’impegno a lavorare per esaudire le richieste di Kiev, ribadite anche dal capo della diplomazia ucraina Dmytro Kuleba, tra gli ospiti del summit in Italia. Il sostegno del G7 è pronto a tradursi anche in ulteriori sanzioni contro Teheran “se dovesse procedere con la fornitura di missili balistici o tecnologie correlate alla Russia”.

Il Gruppo ha poi puntato il dito contro la Cina, chiedendo nel suo documento finale di “interrompere” il sostegno alla macchina bellica di Mosca. Infine, i Sette hanno ribadito l’impegno ad attuare e far rispettare le sanzioni contro i russi, minacciando di “adottare nuove misure, se necessario”. In vista del vertice dei leader in programma a giugno in Puglia, il G7 lavora inoltre alle “possibili opzioni praticabili” per usare i beni russi congelati a sostegno dell’Ucraina, “in linea con i rispettivi sistemi giuridici e il diritto internazionale”. Finora l’Ue ha trovato le basi legali solo per l’uso degli extraprofitti, ma bisogna ancora capire se si può fare un passo in più mettendo le mani direttamente sugli asset.

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Teheran avverte Israele, ‘non fate altri errori’

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“Un fallimento”, “fuochi d’artificio”, “la situazione è completamente normale”. La Repubblica islamica tace sulle esplosioni o minimizza l’attacco notturno, attribuito a Tel Aviv, che ha colpito una base militare a Isfahan nel giorno dell’85esimo compleanno della Guida suprema Ali Khamenei. Vari esponenti del governo e delle forze armate iraniane hanno continuato a minacciare una “risposta massima e definitiva” contro lo Stato ebraico mentre l’attacco veniva sminuito. Secondo Teheran, le esplosioni sentite nella notte sono dovute al sistema di difesa iraniano che ha preso di mira “mini droni di sorveglianza americani o israeliani”, lanciati a meno di una settimana dall’attacco dell’Iran contro Israele, in ritorsione per l’uccisione di sette membri delle Guardie della rivoluzione in un raid contro l’ambasciata iraniana di Damasco.

Dopo la chiusura, temporanea, dello spazio aereo su Teheran e altre città, i media della Repubblica islamica si sono affrettati ad assicurare che, in seguito all’abbattimento di “oggetti volanti sospetti”, la situazione era tornata alla completa normalità mentre i siti nucleari nella zona non sono stati danneggiati dall’attacco, come confermato anche dall’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea), e hanno continuato ad operare “in totale sicurezza”. L’attribuzione dell’attacco a Israele è stata inizialmente bollata come “un’assurdità” dal comandante in capo dell’Esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, mentre il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha negato di aver tenuto una riunione d’emergenza, smentendo indiscrezioni apparse sui “media stranieri”. Il governo di Teheran e i vertici militari hanno evitato in ogni modo di parlare direttamente dell’attacco, con l’eccezione del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian che, senza esplicitamente accusare lo Stato ebraico, ha definito l’attacco un “fallimento”, dipinto come una vittoria ed “esagerato dai media filo israeliani”, sottolineando che i droni sono stati abbattuti senza causare danni o vittime.

“La nostra prossima risposta sarà immediata e ai massimi livelli nel caso in cui il regime di Israele si imbarchi nuovamente in avventurismo e intraprenda azioni contro gli interessi dell’Iran”, ha ribadito Amirabdollahian, affermando che un eventuale risposta “decisiva e definitiva” contro Israele è già stata pianificata nel dettaglio dalle forze armate iraniane. La responsabilità di Israele è stata comunque indicata da figure politiche minori. Come il deputato Mehdi Toghyani, secondo cui “il disperato tentativo del regime sionista, con l’aiuto di agenti locali, di portare avanti un attacco con vari piccoli droni contro una base militare di Isfahan è fallito e ha portato loro ulteriore disgrazia”. Più cauto Javad Zarif, l’ex ministro degli Esteri e negoziatore per Teheran all’epoca dell’accordo sul nucleare del 2015, che ha chiesto alla comunità internazionale di fermare Israele “alla luce degli imprudenti fuochi d’artificio di Isfahan”.

Nessun commento sull’attacco da Khamenei, come anche da parte del presidente Ebrahim Raisi, che ha completamente ignorato i fatti di Isfahan durante un’apparizione pubblica a Damghan, nella provincia settentrionale di Semnan. “Questa operazione ha dimostrato l’autorità del sistema della Repubblica Islamica e la potenza delle nostre forze armate”, ha detto il presidente iraniano tornando a parlare della ritorsione di Teheran contro Tel Aviv per il raid di Damasco.

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