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Esteri

‘Dovevamo rispondere ma non vogliamo la guerra’

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“Non cerchiamo la guerra, è Israele che ci spinge a reagire”. Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian accusa il nemico di aver costretto Teheran a colpire con una pioggia di missili Tel Aviv, promette “una risposta più forte in caso di rappresaglia di Israele” ma sostiene che la Repubblica islamica non sta cercando la guerra. L’operazione iraniana “ha dimostrato ancora una volta che la presunta cupola di ferro (il sistema di Difesa ‘Iron Dome’) dei sionisti è più fragile del vetro”, ha detto il presidente celebrando l’attacco, ma già subito dopo il raid aveva affermato che “l’Iran non è belligerante” e invitato il premier israeliano Benjamin Netanyahu a “non entrare in conflitto con l’Iran”.

Dopo il lancio di 200 missili contro il territorio israeliano, celebrato dalla stampa iraniana e anche in Parlamento da alcuni deputati, Teheran pare non essere interessata ad un’ulteriore aumento delle tensioni, nella speranza che l’attacco contro lo Stato ebraico possa avere un effetto deterrente contro la risposta già annunciata da parte di Israele. Subito dopo il raid, il ministro degli Esteri Abbas Araghchi aveva affermato che “l’Iran ha usato solo il suo diritto alla legittima difesa, basato sulla Carta delle Nazioni Unite”, come è stato ribadito anche dalla missione diplomatica della Repubblica islamica presso l’Onu.

In conversazioni telefoniche con gli omologhi di Francia, Germania e Gran Bretagna – i partecipanti europei all’accordo sul nucleare del 2015 – il capo della diplomazia di Teheran ha sottolineato che lo strike ha interessato soltanto obiettivi militari e, invitando parti terze a non interferire, ha avvertito Israele dichiarando che “se i sionisti reagiranno, Teheran darà una risposta più severa”.

Nella sua prima apparizione pubblica dopo l’attacco missilistico, Ali Khamenei si è scagliato contro l’Europa e gli Stati Uniti durante una conferenza con i migliori studenti universitari del Paese. “La radice dei problemi della regione è la presenza di forze come gli Usa e alcuni Paesi europei che in modo falso sostengono di difendere la pace e la tranquillità”, ha detto la Guida suprema, sostenendo che se la loro influenza diminuisse “senza dubbio questi conflitti, queste guerre e scontri scomparirebbero completamente”. Sebbene non abbia nemmeno menzionato il raid iraniano, Khamenei nel suo discorso ha comunque omaggiato il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, la cui uccisione è stata citata dalle Guardie della rivoluzione come uno dei motivi del lancio di missili contro lo Stato ebraico, assieme all’assassinio a Teheran il 31 luglio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh.

“Sono profondamente addolorato, la perdita di Nasrallah è un evento significativo. Tuttavia, questo lutto deve fungere da forza che ci spinge in avanti”, ha detto la Guida suprema, che secondo alcune fonti iraniane sarebbe stata a conoscenza del piano israeliano per uccidere il leader di Hezbollah e lo avrebbe invitato a rifugiarsi in Iran pochi giorni prima del raid che lo ha ucciso. È possibile che lo scontro tra Iran e Israele troverà spazio nel sermone durante la preghiera del venerdì che Khamenei ha in programma di tenere questa settimana.

“Presto parlerò delle questioni di Gaza e del Libano”, ha annunciato il leader, che interviene durante la preghiera del venerdì soltanto in rare occasioni, ritenute momenti critici. L’ultima volta risale al 2020, quando celebrò l’attacco di Teheran contro una base americana in Iraq, in segno di ritorsione per l’uccisione a Baghdad da parte degli Stati Uniti del comandante delle forze Quds delle Guardie rivoluzionarie, Qassem Soleimani, colpito da un drone qualche settimana prima.

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Giudice sospende caso contro Trump per assalto al Capitol

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Tanya Chutkan, la giudice che supervisiona il caso contro Donald Trump per l’assalto al Capitol, ha accolto la richiesta del procuratore speciale Jack Smith di sospendere le procedure in corso e ha annullato tutte le scadenze pendenti nella fase pre-processuale. Un passo legato alla consolidata prassi del Dipartimento di Giustizia secondo cui un presidente in carica non può essere perseguito.

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Discussioni al Pentagono su come reagire a ordini illegali Trump

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Dirigenti del Pentagono stanno tenendo discussioni informali su cosa fare se Donald Trump dovesse dare un ordine illegale, come ad esempio dispiegare l’esercito internamente, e si stanno preparando all’eventualità che possa modificare le regole per poter licenziare numerosi funzionari pubblici di carriera. Lo riferisce la Cnn. Durante la campagna elettorale, Trump ha ventilato l’ipotesi di impiegare l’esercito contro i suoi nemici politici e anche per respingere i migranti al confine col Messico. La legge americana generalmente vieta l’impiego delle truppe attive per scopi di ordine pubblico. Esistono anche timori che possa smantellare il ruolo dei civili nel Pentagono e sostituire il personale licenziato con dipendenti scelti per la loro lealtà nei suoi confronti.

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Il futuro di Harris dopo la sconfitta

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Kamala Harris non pensa ancora al futuro. La ferita della sconfitta è ancora troppo fresca per consentirle di guardare avanti con lucidità. Ipotizzare la strada che intraprenderà, riferiscono amici e consiglieri, è prematuro ma la vicepresidente potrebbe avere varie opzioni fra cui scegliere una volta che i tempi saranno maturi. La possibilità che resti in politica è la più remota. Al momento anche solo pensare a una sua ricandidatura alle elezioni del 2028 appare un miraggio, considerata la facilità con cui Donald Trump ha vinto. Ma quattro anni in politica sono un’eternità e Harris ha accesso a una vasta rete di donatori che, se il mandato del presidente-eletto dovesse essere caotico, forse potrebbe sostenerla ancora nel cercare di realizzare il sogno di infrangere il soffitto di cristallo. Harris difficilmente – riporta il New York Times – potrebbe decidere di ricandidarsi per il Senato: i due senatori che rappresenteranno la California sono appena stati eletti ed è improbabile che lascino a breve. Nel suo stato Harris potrebbe aspirare a diventare governatrice, raccogliendo l’eredità di Gavin Newsom qualora decidesse, come si vocifera da tempo, di scendere in campo nel 2028.

Fra gli incarichi istituzionali c’è chi sogna che Joe Biden la nomini alla Corte Suprema prima del suo addio alla Casa Bianca. Un’ipotesi irrealizzabile visto che i democratici dovrebbero prima convincere la giudice Sonya Sotomayor a lasciare e poi premere sull’acceleratore per confermare Harris prima del 20 gennaio. Le ipotesi che, al momento, sono le più accreditate fra i sui alleati sono il settore privato, anche nei panni di lobbista, o l’ingresso in un think tank dove avrebbe la possibilità di portare avanti le sue cause senza le restrizioni imposte dal ruolo di vicepresidente di Biden. Harris potrebbe optare anche per scrivere un libro, sulla scia di quanto fatto da Hillary Clinton nel 2016 dopo la sconfitta contro Donald Trump. Quello che appare certo è che la vicepresidente, trascorsi questi ultimi 70 giorni alla Casa Bianca, si prenderà del tempo per sé stessa e per riflettere sulle sue prossime mosse fra passeggiate e cibo non consumato in aereo. Poco prima del voto, per l’esattezza il 27 ottobre, Harris aveva infatti chiarito che fra i suoi piani post-elezioni ci sarebbe stato “ingrassare qualche chilo”. “Mi stanno consumando”, aveva scherzato ignara di quello che l’avrebbe attesa solo qualche giorno dopo.

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