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Donne bandite anche dalle ong, bufera sui talebani

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L’ultimo schiaffo talebano ai diritti delle donne, che non possono nemmeno più lavorare nelle ong, ha scatenato un putiferio di reazioni critiche che il regime stenta a soffocare, con manifestazioni andate in scena addirittura nella città simbolo dei fondamentalisti islamici afghani, Kandahar. Sabato scorso le ong locali e internazionali presenti nel Paese, che si occupano principalmente di assistenza e fanno filtrare gli aiuti alla popolazione, hanno ricevuto una nota siglata dal ministero talebano dell’Economia che disponeva di non far lavorare più le donne. “Ci sono state gravi lamentele sul mancato rispetto dell’hijab islamico e di altre norme e regolamenti relativi al lavoro delle donne nelle organizzazioni nazionali e internazionali”, recita la direttiva del ministero.

Un dicastero strategico perché responsabile dell’approvazione delle licenze per le ong, che infatti minaccia la cancellazione dei permessi alle organizzazioni che non dovessero rispettare la nuova direttiva. Nell’arco di 48 ore sette delle principali organizzazioni internazionali presenti in Afghanistan sono state costrette a chiudere le attività o a ridurle al minimo. “In attesa che questo annuncio venga chiarito, sospendiamo i nostri programmi chiedendo che uomini e donne possano ugualmente proseguire nel salvare vite umane”, hanno scritto in un comunicato congiunto Save the Children, il Norwegian Refugee Council e Care International. A loro si sono uniti l’International Rescue Committee, che annovera oltre tremila afghane nel proprio staff, Christian Aid e Action Aid, mentre l’Islamic Relief ha sospeso tutte le attività non essenziali denunciando che il bando “avrà un impatto umanitario devastante su milioni di persone vulnerabili”.

Unanime la condanna della diplomazia internazionale, dall’Onu all’Ue, dagli Usa all’Italia, che tramite la Farnesina ha espresso “forte preoccupazione” per una decisione “inaccettabile e contraria ai principi del diritto umanitario”, mentre la Germania chiede “una chiara reazione” e la Francia parla di “oscurantismo”. Il portavoce talebano ha rinviato le critiche al mittente, prendendo di mira in particolare – in un raro tweet in inglese – l’incaricata d’affari degli Stati Uniti per Kabul, Karen Decker: “I funzionari americani dovrebbero smetterla di interferire nei nostri affari interni. Chiunque voglia operare nel Paese è obbligato a rispettare regole e regolamenti.

Non consentiamo a nessuno di dire sciocchezze e di minacciare i nostri leader sotto l’ombrello degli aiuti umanitari”, ha scritto Zabihullah Mujahid rispondendo alle critiche della diplomatica statunitense. Ma quest’ultima mossa dei talebani rischia davvero di incendiare le polveri della protesta in un Paese dilaniato dalla devastante crisi economica e umanitaria. Sabato sera sono andate in scena le proteste, questa volta non solo delle donne: a Herat, dove in serata un corteo di donne che protestava contro il bando alle università era stato disperso con i cannoni ad acqua, a mezzanotte in centinaia si sono affacciati da finestre e balconi per intonare ‘Allahu Akbar’ in segno di solidarietà con le studentesse.

E a Kandahar, capitale morale dei talebani, centinaia di studenti maschi hanno boicottato gli esami di fine semestre all’università Mirwais Neeka. I talebani “hanno cercato di disperderci con la forza, abbiamo iniziato a cantare slogan, allora loro hanno cominciato a sparare in aria”, ha raccontato un dimostrante. Il grido di rabbia si è diffuso velocemente nel Paese, studenti e professori chiedono a gran voce la fine delle restrizioni per le donne in scuole e università, tanto che – a sorpresa – la protesta è finita sui pochi media locali rimasti aperti nonostante la censura e il bavaglio alla stampa.

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Mamma a 68 anni con la surrogata, in Spagna è polemica

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Dalla copertina di una rivista di gossip a un dibattito sulla bocca di tutti, compresa la politica. Nel giro di qualche ora, il caso dell’attrice spagnola Ana Obregón, affidatasi alla gestazione per altri in Florida per diventare madre a 68 anni, ha scatenato un grande dibattito in Spagna. Con il governo di centrosinistra pronto a ribadire la propria posizione nettamente contraria agli “uteri in affitto” e “l’illegalità” della “maternità per sostituzione” in patria (le registrazioni di bimbi nati in questo modo all’estero sono però generalmente consentite) e una parte del centrodestra e delle famiglie che vi hanno fatto ricorso invocano “una discussione seria” sul tema. Lo scoop sulla decisione di Obregón, volto arcinoto della tv spagnola e che in passato ha collezionato partecipazioni anche in film e serie italiane, è arrivato dall’ultimo numero del magazine Hola!. La prima pagina mostra l’attrice e presentatrice su una sedia a rotelle, all’uscita di un ospedale di Miami e con la figlia neonata in braccio.

“È arrivata una luce piena di amore nella mia oscurità”, ha poi confermato su Instagram la diretta interessata, colpita tre anni fa dal grave lutto della scomparsa del figlio 27enne Aless per un tumore. In Spagna, adozioni e prese in affidamento di minori da parte di coppie gay sono legali dal 2005. Ma il caso della presentatrice ha aperto il dibattito su un tema che fa molto discutere anche in Italia. Nel mondo politico la discussione ha toccato i risvolti bioetici e sociali della gestazione per altri. “Come sapete, è una pratica illegale in Spagna – ha ricordato ad esempio la ministra delle Pari Opportunità Irene Montero (Podemos) – non dimentichiamoci delle donne che ci sono dietro questi casi, vittime di una chiara discriminazione per povertà”. Sulla stessa linea il ministro della Presidenza Félix Bolaños (Partito Socialista), considerato braccio destro del premier Pedro Sánchez.

“Non commento circostanze personali – ha dichiarato – ma ricordo che i corpi delle donne non possono essere né comprati né affittati”. Da parte sua, il Partito Popolare (centrodestra) ha chiesto di rivedere la normativa. “Ma il dibattito esiste e sulla questione va messo ordine, perché se da un lato la pratica è illegale, ci sono spagnoli che vi stanno facendo ricorso in altri Paesi”, ha osservato il leader della formazione, Alberto Núñez Feijóo. Apertamente favorevole invece a una maternità “altruista” il partito liberale Ciudadanos.

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Putin richiama altri 147.000 coscritti per primavera

La Russia in guerra chiama alle armi altri 147 mila cittadini in una coscrizione di primavera, Kiev prepara la controffensiva per riconquistare i territori occupati.

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La Russia in guerra chiama alle armi altri 147 mila cittadini in una coscrizione di primavera, mentre Kiev prepara la controffensiva per riconquistare i territori ucraini occupati da avviare prima dell’estate. Con il conflitto che non vede tregua all’orizzonte, rimpinguare le truppe significa più forza offensiva russa in una guerra troppo importante per il futuro di Vladimir Putin. E della quale, secondo Kiev, ha totale responsabilità il leader russo: l’intelligence di Difesa ucraina sostiene infatti che solo tre o quattro persone nella sua cerchia ristretta erano a conoscenza dei preparativi per l’invasione. Insieme al leader russo, a prendere in particolare la decisione di iniziare la guerra fu il segretario del Consiglio di sicurezza, Nikolai Patrushev. “Effettuare dall’1 aprile al 15 luglio 2023 la coscrizione dei cittadini russi di età compresa tra i 18 e i 27 anni che non fanno parte della riserva e sono soggetti al servizio militare, per un ammontare di 147 mila persone”, si legge nel decreto firmato da Putin.

In Russia, la coscrizione è periodica: nell’autunno del 2022 erano state chiamate 120 mila persone, mentre la scorsa primavera 134,5 mila. Ma l’annuncio della nuova coscrizione desta preoccupazione, tanto più che giunge tra le notizie dei media russi – riportate dall’intelligence britannica – secondo cui le autorità di Mosca si stanno preparando ad avviare una grande campagna di reclutamento per arruolare 400.000 soldati. E’ chiaro che Mosca si muove, mentre le bombe cadono in tutta l’Ucraina e crescono i timori sulla centrale di Zaporizhzhia: l’impianto “non può essere protetto” perché “l’attività militare sta aumentando in tutta la regione”, ha avvertito il capo dell’Aiea Rafael Grossi dopo aver visitato la struttura.

Ancora non c’è un accordo per una zona cuscinetto per la centrale: secondo Mosca, la colpa è degli ucraini e degli Usa, che hanno “una posizione distruttiva” in merito. Kiev continua a chiedere gli F-16 mentre i Mig-29 slovacchi stanno già proteggendo Kharkiv. Nel frattempo, pensa alla ricostruzione per la quale chiede il contributo dell’Italia: dopo la telefonata tra Meloni e Zelensky, il capo dell’ufficio del presidente ucraino, Andriy Yermak, ha sentito il ministro delle Imprese Adolfo Urso trasmettendogli grandi aspettative per la conferenza sulla ricostruzione del 26 aprile a Roma e l’interesse a “coinvolgere le imprese italiane nella ripresa” del Paese. Sul fronte diplomatico, la tensione è alle stelle dopo l’arresto in Russia del giornalista del Wall Street Journal, Evan Gershkovich, accusato di spionaggio.

E ha suscitato polemiche l’annuncio che il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov presiederà una riunione del Consiglio di sicurezza Onu a New York, la cui presidenza russa inizia il primo aprile. “E’ un brutto scherzo”, ha commentato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. Infine, anche gli intoccabili banchieri svizzeri fanno i conti con la guerra e pagano per i legami con Sergey Roldugin, il violoncellista soprannominato “portafoglio di Putin”, stretto amico dello zar. Un tribunale distrettuale di Zurigo ha condannato quattro dirigenti di un istituto elvetico per aver aiutato Roldugin a depositare milioni di franchi in conti bancari svizzeri tra il 2014 e il 2016. I banchieri – tre russi e uno svizzero – sono stati giudicati colpevoli per mancanza di diligenza nelle transazioni finanziarie, e sono state inflitte loro condanne sospese di sette mesi ciascuno.

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Alvin Bragg, il procuratore che sfida Trump

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Laureato a Harvard e il primo afroamericano procuratore di Manhattan, Alvin Bragg è l’uomo che sfida Donald Trump, colui che lo ha incriminato per il pagamento da 130.000 dollari alla pornostar Stormy Daniels in cambio del suo silenzio sulla loro relazione. Eletto nel 2021, Bragg è nato a Harlem ed è cresciuto a New York, la città che è anche dell’ex presidente. Nel corso della sua carriera si è occupato di casi di primo piano. Nel 2014 ha rappresentato la madre di Eric Garner, l’afroamericano ucciso dalla polizia, contro il New York Police Department. Oltre a essere stato il responsabile della supervisione del caso di Harvey Weinstein, l’ex re di Hollywood travolto dalle accuse di molestie.

Alla guida della procura di Manhattan Bragg ha preso il posto di Cyrus Vance, aspramente criticato per non aver avuto successo nel perseguire Trump, tema su cui Bragg si è impegnato personalmente da quando è stato eletto. Al ruolo di procuratore è stato scelto al termine di una campagna elettorale giocata sulla necessità di rendere le forze di polizia più responsabili delle loro azioni. Una battaglia per lui personale visto che, ha raccontato più volte, quando aveva solo 15 anni un agente gli ha puntato una pistola alla testa. Un episodio che ha condizionato tutte le sue scelte, spingendolo a studiare giurisprudenza e a divenire un legale per la difesa dei diritti civili. Da procuratore di Manhattan ha creato una ‘Special Victims Division’ dedicata ai reati sessuali e alla violenza domestica e ha rafforzato la ‘Hate Crimes Unit’ nel tentativo di riportare fiducia nelle forze dell’ordine.

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