Il giorno delle donne, l’8 Marzo, una donna ha dato una grande lezione politica all’Europa e al mondo. “La Svezia” ha detto in una breve ma intensa dichiarazione la premier socialdemocratica Magdalena Andersson, “è responsabile della sua sicurezza…E se decidesse in questo momento di presentare la richiesta alla NATO, si destabilizzerebbe ulteriormente questa parte dell’Europa”.
La dichiarazione è fatta d’intesa con un’altra donna, la premier finlandese Sanna Marin, anch’ella socialdemocratica, classe 1985. E fa seguito a una consultazione con tutte le forze politiche svedesi. Essa viene dopo la dura presa di posizione dei tradizionalmente neutrali Paesi scandinavi, seguita all’invasione russa dell’Ucraina, che resta oggetto di una netta condanna, generando propositi e concrete azioni solidali. Come nel resto d’Europa. Di più, fatto degno di nota, viene dopo che due sondaggi -di cui conosciamo ormai il potere nelle democrazie-spettacolo- hanno mostrato come in reazione alla guerra l’opinione pubblica dei due Paesi vada assumendo profili sempre più inclini all’ingresso di Stoccolma ed Helsinki nella NATO. In Svezia, i favorevoli che a gennaio ammontavano al 42%, nei giorni scorsi raggiungono il 51%. Il divario in Finlandia, rispetto all’ultimo sondaggio, risalente al 2017, è clamoroso: 53% contro il 19%.La gente è spaventata, evidentemente, e i governi scontano gli effetti di questa paura, assumendosi le proprie responsabilità politiche e pronti a pagarne anche eventuali prezzi elettorali.
Donne premier scandinave. Magdalena Andersson (a sinistra) è primo ministro della Svezia, Sanna Marin è la premier finlandese
L’attenzione dedicata dai media a queste forti decisioni politiche baltiche è stata tutto sommato frettolosa. Eppure, si tratta di una risposta esplicita, la prima per quanto ne sappiamo, al Memorandum russo di dicembre, di cui abbiamo più volte parlato su questo giornale, incentrato -di là da ogni altra considerazione- sulla concezione moscovita della sicurezza nazionale russa, ed articolato su tre punti:
i. Stop ad ogni ulteriore allargamento della NATO (condizione che avevamo giudicato e giudichiamo non negoziabile);
ii. Ritiro delle truppe NATO dai Paesi confinanti con la Russia (negoziato da aprire e portare avanti);
iii. Smantellamento degli arsenali nucleari americani sul suolo europeo (Idem).
Russia. Al Cremlino pronti a tutto pur di evitare l’allargamento a Est della NATO
Troppo tardi, qualcuno potrà dire. E a guerra ormai scatenata, troppo poco. Fossero venute, che so, in un discorso di Capodanno, fossero state oggetto di discussione formale a Bruxelles in gennaio e quindi prima dei giochi olimpici a Pechino, queste dichiarazioni avrebbero avuto un altro significato e, dunque, un altro effetto. Di fronte ad esse, probabilmente, l’irresponsabile logorrea di un B. Johnson si sarebbe infranta. Sarebbe apparsa in tutta la sua pericolosa ipocrisia la sicumera di J. Biden, che minaccia tanto e non rischia niente, con uno spregio per la Russia almeno pari a quello per l’UE. Il teatro dell’assurdo non basta più, ormai, a rappresentare faccende come quelle dell’embargo del petrolio dichiarato nei giorni scorsi unilateralmente da Washington. Ormai, dobbiamo far ricorso al teatro di rivolta, dobbiamoinvocare B. Brecht, se vogliamo dare una qualche forma aquello che vogliamo provare a chiamare per nome: il sovranismo americano in politica estera. La fattura di un atlantismo cieco scaricata sull’Europa, nel momento in cui gli USA si infilano in quello che considerano il loro “vero” tunnel, vale a dire il confronto “epocale” con la Cina.
E forse, parlando a figlia perché nuora intenda, poteva essere la fiaccola scandinava a costruire le premesse per un negoziato sull’Ucraina basato su una dichiarazione unilaterale di neutralità da parte di Kiev che escludesse, perciò stesso, l’adesione ad ogni e qualunque alleanza militare.
Oggi le cose, credo, sono a questo punto. Se l’imperativo è “fermare la guerra” –e sottolineo se, come diceva la canzone- l’imperativo è “fermare la guerra”, NON “fermare Putin”. Le retoriche belliciste, comunque mimetizzate –tipo fornire armi all’Ucraina o aggiungere altre sanzioni alle oltre 400 già in atto contro la Russia- non portano da nessuna parte. Anzi, portano al sempre peggio! Il gioco a chi urla più forti improperi e più gravi minacce, ha stancato tutti, anche se nessuno, per ora, ancora lo dice. Basta bombe, basta, morti, feriti, sofferenze del popolo ucraino, basta profughi. Ma basta anche scudisciate indiscriminate al popolo russo. Si riprenda a fare politica. E la politica, questo il contenuto irrinunciabile del dispaccio proveniente da Stoccolma, passa attraverso una dichiarazione di neutralità dell’Ucraina, solennemente dichiarata da V. Zelenskye garantita internazionalmente dall’UE, dalla Cina, dagli USA, dalla Russia, con ratifica da parte delle Nazioni Unite. Il resto viene, nell’interesse di tutti.
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
Kiev torna a denunciare la deportazione dei suoi bambini in Russia o nei territori occupati e fornisce nuove drammatiche cifre: sarebbero quasi 4.400 i minori rimasti soli che i russi hanno portato via dagli orfanotrofi. A renderlo noto è la vicepremier e ministra ucraina per la Reintegrazione dei territori occupati, Irina Vereshchuk, che parla di almeno 4.390 sottrazioni illegali e annuncia che l’Ucraina sta raccogliendo le prove da sottoporre alla Corte penale internazionale (Cpi). Dopo l’emissione del mandato di arresto per Putin si ripone grande speranza nella stretta collaborazione con la Corte dell’Aja, confermata dall’imminente apertura nella capitale ucraina di un ufficio della Cpi – annunciata dal procuratore generale ucraino – per una sempre maggiore cooperazione sui casi di deportazione. Resta intanto alta la tensione per le operazioni militari che nelle scorse ore si sono nuovamente avvicinate alla capitale, in un attacco che ha visto l’impiego di 15 droni kamikaze Shahed-136, di cui 14 sono stati distrutti dalle forze di Kiev, stando al resoconto dello Stato Maggiore delle Forze Armate.
Nel complesso i russi hanno lanciato 24 raid aerei, 12 attacchi missilistici e 55 attacchi con sistemi di razzi a lancio multiplo, fa sapere. Nessun ferito, ma i frammenti dei droni distrutti dalla contraerea che sono precipitati sul quartiere di Sviatoshynsky, nell’ovest della città, hanno colpito un edificio adibito ad uso commerciale e provocato incendi. Mentre il presidente Zelensky ha fatto visita alle truppe ucraine a Sumy, la battaglia continua a infuriare nell’est: la città di Avdiivka, nel Donetsk, “sta per essere cancellata dalla faccia della Terra” sotto l’intensificarsi dei bombardamenti russi, ha dichiarato Vitaliy Barabash, capo dell’amministrazione militare della città. E si sta trasformando in una Bakhmut: dista soltanto 90 chilometri dalla città simbolo del braccio di ferro fra Kiev e Mosca ed è adesso bersaglio continuo dei bombardamenti mentre, secondo l’Istituto per lo studio della guerra (Isw), la leadership militare russa ha probabilmente già schierato i mercenari della brigata Wagner per consolidare i limitati progressi registrati di recente nella zona.
I combattimenti si sono intensificati anche intorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, ha riferito poi il capo dell’Aiea, Rafael Grossi, ritenendo però che un accordo per la sicurezza dell’impianto sia “vicino”. Dopo aver incontrato lunedì Zelensky proprio a Zaporizhzhia, Grossi ha fatto sapere che “molto probabilmente” andrà in Russia nei prossimi giorni. Ciò che invece ancora non si intravede all’orizzonte è una apertura diplomatica che faccia anche pensare a possibili colloqui. Le posizioni restano granitiche e in queste ore il ministro ucraino degli Esteri, Dmytro Kuleba, ricorda che “la pace ad ogni costo è un’illusione”. Parlando ad un evento virtuale in vista della preparazione del secondo Summit for Democracy voluto dal presidente Usa Joe Biden, ha ribadito che “nessun’altra nazione vuole la pace più dell’Ucraina. Ma la pace ad ogni costo è un’illusione. Il popolo ucraino accetterà la pace solo se garantirà la cessazione completa dell’aggressione russa, il completo ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino e il ripristino dell’integrità territoriale del nostro stato all’interno dei confini riconosciuti a livello internazionale”, è tornato a sottolineare Kuleba.
“Le cose diventeranno molto più difficili. Ci vorrà molto, molto tempo”. Il commento sulla durata della guerra in Ucraina non arriva da una persona qualunque, bensì dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Secondo quanto riportato dal Guardian, Peskov si sarebbe espresso in questo modo durante una cena a fine dicembre alla presenza di importanti rappresentanti dell’élite russa. Stando alle fonti del giornale britannico, il suo brindisi avrebbe oscurato l’atmosfera della serata tra gli invitati, molti dei quali hanno dichiarato in privato di essere contrari alla guerra in Ucraina. “È stato scomodo ascoltare il suo discorso. Era chiaro che stava avvertendo che la guerra sarebbe rimasta con noi e che avremmo dovuto prepararci per il lungo periodo”, ha detto un ospite rimasto anonimo.
“Silvio Berlusconi non cerca di dipingere tutto in bianco e nero, non cerca di intensificare tensioni nel mondo sotto lo slogan della lotta della democrazia contro l’autocrazia”. Non è la prima volta che Serghei Lavrov loda la “ragionevolezza” del leader di Forza Italia, ma questa volta il ministro degli Esteri pronuncia queste parole trovandosi per caso nello stesso momento, nello stesso hotel di Giorgia Meloni, a Nuova Delhi. La premier in una pausa della missione in India, il capo della diplomazia russa in conferenza stampa dopo un G20 Esteri in cui non sono mancate scintille. E di fronte a una domanda della stampa italiana Lavrov non ha perso occasione per elogiare l’ex presidente del Consiglio, su cui ancora una volta rimbalzano commenti da titolo dall’estero. La settimana scorsa era stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante la visita di Giorgia Meloni a Kiev, a rispondere a una domanda sul Cavaliere notando come le sue posizioni sul conflitto fossero dovute al fatto che “la sua casa non è mai stata bombardata”. Di ben altro tenore sono le considerazioni che arrivano da Mosca sul presidente di Forza Italia. Secondo Lavrov, “Berlusconi comprende la necessità di risolvere i problemi da cui dipende la nostra vita”. Come invece, dal punto di vista di Mosca, non fa il governo. Il ministro degli Esteri russo di recente ha sottolineato come l’Italia, da Paese con le “relazioni tra le più amichevoli” con Mosca, si è trasformata rapidamente in uno “dei leader delle azioni e della retorica antirusse”. Un netto cambio di scenario rispetto a quando a Palazzo Chigi c’era il Cavaliere.