“Diritto alla pizza” è un libro/viaggio tra sapori e dissapori delle famiglie storiche di pizzaioli napoletani che si contendono il business del futuro
“Diritto alla pizza” è un viaggio, inaspettato, nei meandri storici, giuridici e sociologici del piatto più famoso del mondo: la pizza. L’avvocato Angelo Pisani, autore del testo, è riuscito nell’impresa di cimentarsi, con professionalità e originalità, in uno dei meandri sino ad oggi inesplorati dell’Universo culinario. Si parte dal racconto delle tante faide che si sviluppano nelle famiglie dei pizzaioli per chi può utilizzare il cognome di famiglia o godere della tradizione donata da nonni per stigmatizzare egoismi ed ingiustizie che non fanno onore ai veri valori e diritti della prelibata tradizione gastronomica napoletana .
“La Pizza, grazie anche ad un movimento del quale in particolare i napoletani hanno l’onore e il piacere di far parte, è un caposaldo non soltanto della cucina italiana ma è un manifesto culturale capace di sprigionare tutte le migliori tradizioni da tavola di Napoli e della Campania”. Il primo libro sulla pizza porta in dote la prefazione del magistrato Nicola Graziano, attento alle dinamiche sociali, oltre che giuridiche, della regione di appartenenza. La pizza è dunque considerata come un caposaldo del volgo, ovvero del ceto popolare, senza dimenticare le proprie aderenze storiche. L’associazione di pensiero, libera ed immediata, fra Napoli e la Pizza è un assaggio retorico quanto mai pertinente sul perché la meravigliosa città del regno borbonico ed il suo prodotto culinario più riuscito siano indissolubilmente legate. “Mangiare una pizza Margherita significa portare con sé un po’ di Napoli: tutto questo ha un valore unico”. La guerra fra le famiglie per i marchi, la voglia di misurare la forza nella diffusione di un prodotto che nessun chef stellato potrà mai disarcionare dalla darsena della città più bella del mondo: Napoli.
“Il mio personale disciplinare prevede tre comandamenti. Due tagli per quattro fette: la pizza sopporta la lama massimo due volte. Usare solo le mani: una pizza tagliuzzata troppo si avvilisce. Poi bisogna mangiarla bollente: la fusione degli elementi (pomodoro, olio evo, parmigiano, fiordilatte e basilico) avviene esclusivamente a caldo. E le lacrime non sono causate soltanto dal calore, ma da una commozione generale che produce una pizza fatta a regola d’arte…”. Così l’avvocato Angelo Pisani, nella sua ultima fatica letteraria “Diritto alla pizza” per Rogiosi Editore. Eh no, non siamo in presenza di un ricettario, di una guida del gusto, di un ennesimo libro “sulla” pizza , ma siamo davanti al primo libro “per” la pizza, la prima opera che guarda a un aspetto mai affrontato del tema: la pizza come diritto universale, di farla o di mangiarla, al di là di tutto. L’autore, con una sapiente abilità narrativa sviscera le diatribe legali che si sono consumate e si consumano intorno al piatto più famoso al mondo. Contenziosi legali familiari per l’uso del cognome di famiglia, per stabilire la paternità di eventi ad esso legati, e per innumerevoli altre motivazioni. E lo fa alternando il racconto ai ricordi personali, alle sensazioni, alle emozioni, facendo parlare i testimoni delle vicende, lasciandosi guidare e al tempo conducendoci in un viaggio nella storia della pizza che passa per vi(n)coli giuridici e dinamiche sociali. Il libro si propone come un “sincero e sentito grido d’allarme”, come afferma il magistrato Nicola Graziano nella prefazione, per la salvaguardia del valore della pizza, e di ciò che rappresenta a livello culturale, sociale e anche economico, un bene che potrebbe unire e arricchire e invece divide e inaridisce gli animi nelle aule di Tribunale, tra le carte bollate.
Non è sempre stato così ricorda Franco Manna, presidente e fondatore del marchio Rossopomodoro, autore della seconda prefazione al volume: fino agli anni 90 la pizza era un prodotto locale, lo sviluppo, la fama legata alla sua arte e ai suoi protagonisti era ancora lontana, non c’erano guerre tra famiglie e si era “uniti nella lotta nel tirare a campare”. La lotta è ora invece lotta di potere, gioco forza per il predominio della diffusione del marchio, che dimentica origini, tradizione, valori e legami. E coinvolge i più famosi artigiani della pizza: Sorbillo, il celebre Gino contro il cugino Luciano; Condurro, delle pizzerie“Da Michele”, quelli di Forcella ora anche a Roma, Londra o in Giappone, in lotta con quelli di Fuorigrotta e Chiaia; battaglie anche nella famiglia Salvo dove Umberto, decano di una generazione di pizzaioli, è stato diffidato dai nipoti, quelli del locale di San Giorgio a Cremano o di “50 Kalò” a piazza Sannazaro, dall’uso del suo cognome per la sua pizzeria; e tra i Fiorenzano, che si contendono la celebrità del nome a suon di trippa da un lato e pizze fritte dall’altro; e interessa anche i “Figli del presidente” e Brandi per la contestazione della nascita della Margherita.
Querelle poi per la “pizza small”, la cui vendita, in una storia che ha dell’incredibile, è costata il posto di lavoro a 15 dipendenti di una pizzeria a Casoria; e contro la pizza congelata; o per la concorrenza sleale di alcuni spot “americani”; o ancora per la proprietà del festival “Napoli Pizza Village”; e in ultimo per la pizza “pezzottata”, quella del famoso chef Cracco, che della margherita, quella vera, non ha niente. Non solo battaglie però.
La seconda parte del libro narra storie di vita, storie di successo, storie di pace e unione: quella di Franco Pepe o di Isabella De Cham o di Giuseppe Pignalosa; quella di Vincenzo, il pizzaiolo di papa Francesco; quella della pizza sorrentina di Antonio Esposito e della sua Napoli “sognata più che posseduta, però sempre davanti agli occhi”; quella di Angelo Ranieri, campione del mondo dei pizzaioli nel 2017; e quella di Gorizia, Michele, Starita a Materdei, Portalba, Capasso, Lombardi (a via Foria), Trianon, Mattozzi, Ciro a Santa Brigida, le pizzerie centenarie riunitesi in un’associazione. Sono storie che accendono la speranza e che fanno guardare oltre alle lotte per il monopolio di questo cibo tanto semplice e tanto prezioso, oltre le battaglie tra le carte bollate, perché come afferma Pisani nel libro, “se tutte queste imprese marciassero compatte, costituirebbero una filiera in grado di resuscitare un’economia”. Il resto allora sono solo chiacchiere e alla pizza non servono: “la pizza vuole amore e unità” e nulla più.
“Diritto alla Pizza” di Angelo Pisani. Editore Rogiosi. Pagg 156, euro 15
“Siamo diventati una civiltà di gente che vuol vedere, non sente più, sente male, per mancanza di conoscenza, per ignoranza”. Polemico, anche se “felice di essere qui con i miei giovani musicisti dell’Orchestra Cherubini”, Riccardo Muti ieri sera al Teatro Pergolesi di Jesi, in provincia di Ancona, ha inaugurato le celebrazioni per i 250 anni dalla nascita (avvenuta nella vicina Maiolati) di Gaspare Spontini, con un concerto al termine del quale ha attaccato l’oblio in cui è caduta tanta parte del patrimonio musicale italiano. Un discorso molto politico, “anche se la politica dal podio non si fa”, diretto soprattutto “a chi ha in mano le sorti del nostro Paese” per chiedere più attenzione per la musica, lungo oltre 20 minuti, punteggiato dagli applausi del pubblico.
La musica italiana “ha dominato il mondo con Spontini a Berlino, Mercadante a Madrid, Cherubini a Parigi, Salieri e, ancora prima, Porpora e a Vienna, Cimarosa e Paisiello a San Pietroburgo. I nostri compositori hanno fatto l’Europa, prima dei nostri politici ed economisti”. Muti ha elogiato le Marche, una regione che “ha dato i natali a tantissimi artisti, non solo nel campo dell’architettura e della pittura, ma anche della musica. Voi avete a distanza di pochi chilometri Giovan Battista Pergolesi (nato proprio a Jesi, ndr) e Spontini”. E ha elogiato le due città che “si stanno prodigando per sottolineare l’importanza di questi due giganti della musica”, ma “molte persone non sanno chi sono e questa è una vergogna per noi”. Perché “la musica italiana non è semplicemente l’espressione sguaiata di note acute tenute all’infinito, ma la nostra storia è una storia di nobili e grandi compositori”. Compositori che “hanno fatto l’Europa prima dei nostri politici ed economisti”.
“Pensate che Spontini era un re prima a Parigi e poi a Berlino – ha detto ancora Muti -, e nelle memorie di Wagner si legge che quando Spontini arrivò a Dresda per dirigere La Vestale scese da una carrozza principesca venendo da un’umile casa di Maiolati. Wagner s’inginocchia addirittura davanti a lui”. Due colossi della musica “dimenticati”: “Pergolesi era ammiratissimo da Bach, all’età di 26 anni muore lasciandoci dei capolavori incredibili”. Capolavori raramente eseguiti e lo stesso accade per La Vestale o l’Agnese di Hohenstaufen di Spontini o altre opere. “Va bene il ‘Vincerò’ che dura mezz’ora ed è anche piacevole – ha ironizzato il maestro – ma non rappresenta tutta la nostra musica”. E “se andate a vedere la partitura di Puccini, non esprime ‘ad libitum’ fino a quando tutti quanti, presi da frenetici orgasmi, urlano uau”. “Cosa è successo al nostro Paese? – si è chiesto Muti -. E’ successo che nelle grandi occasioni ci si veste bene, si compare nei palchi e poi si scompare? O dobbiamo metterci in testa che la musica e la storia della musica insegnata bene e portata alle nuove generazioni possa migliorare il futuro del nostro Paese?”.
Tutto queste però “non succede” e per questo il pubblico non sa più ascoltare. “Noi abbiamo in debito verso il nostro passato – si è accalorato -, abbiamo una storia infinita di bellezza e arte che molti ragazzi oggi non conoscono e che sta diventando solamente un’occasione di ascolto per alcuni privilegiati. Non sono un politico, ma con grande malinconia mi avvicino alla fine della vita perché noi non siamo più degni delle radici su cui abbiamo fatto spuntare fiori, o alberi o foglie”. “Verdi rimane il Michelangelo del musica e ha coperto tutto l’Ottocento”. E anche Puccini è rappresentativo di un certo periodo. Ma “quando Spontini scrive la Vestale, dentro c’è tutto quello che poi Wagner prenderà. Questo siamo e questo dovrebbero sapere quelli che guidano l’Italia e questo dovrebbero insegnare a scuola”.
La parola d’ordine è trasparenza. Quella chiesta a gran voce dall’industria culturale e creativa davanti allo sviluppo vertiginoso dell’intelligenza artificiale generativa (IA). L’appello è stato raccolto dall’Ue, che con l’AI Act, appena vidimato dal Parlamento europeo, sta provando a creare uno scudo a tutela di giornalisti, scrittori, musicisti, registi, chi vive insomma della propria creatività. Si parla di professioni che rischiano di essere travolte dalla nuova tecnologia alimentata dal petrolio dell’economia digitale: i dati. Le loro opere – canzoni, libri, reportage, film – sono impiegate sia per addestrare i cosiddetti modelli linguistici di grandi dimensioni, su cui si basano sistemi come ChatGPT, sia per creare opere derivate. Si può ritenere questo processo come una violazione del diritto d’autore? Secondo il New York Times la risposta è affermativa.
In un caso destinato a fare scuola, la Vecchia Signora in Grigio ha portato in tribunale Microsoft e OpenAI, la società nota per aver creato ChatGPT, accusandole di aver copiato e utilizzato illegalmente i suoi articoli per addestrare i modelli di IA. I due colossi tech non hanno rivelato pubblicamente la composizione dei dataset su cui viene istruita la nuova tecnologia. Ed è su questo che interviene l’AI Act. I sistemi come ChatGPT e i modelli su cui si basano dovranno, infatti, soddisfare determinati requisiti di trasparenza e rispettare le norme europee sul diritto d’autore durante le fasi di addestramento dei vari modelli.
“Un passaggio importante” per Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie) e di Confindustria Cultura Italia (Cci), secondo cui le richieste del mondo delle industrie culturali e creative “hanno trovato orecchie attente nel governo italiano e in modo trasversale tra gli europarlamentari che hanno votato a favore dell’AI Act”. “La trasparenza – ha evidenziato – è il requisito per poter analizzare criticamente gli output dell’IA e, per chi detiene i diritti, sapere quali opere sono utilizzate nello sviluppo di questi strumenti, se provengono da fonti legali e se l’uso è stato autorizzato”.
Ma la strada è ancora lunga. La legge europea è solo “un primo passo per far valere i propri diritti”, ha commentato un’ampia coalizione di organizzazioni dei settori creativi e culturali europei, esortando a mettere in pratica “queste importanti norme in modo significativo ed efficace”. A fare la differenza sarà l’attuazione della normativa, la definizione degli standard, ma anche la previsione di una policy a tutela del diritto d’autore che affronti ad esempio la questione della remunerazione dei detentori dei diritti per l’uso di opere coperte da copyright.
Dopo Pesaro per il 2024 e Agrigento per il 2025 è l’Aquila la città scelta come capitale italiana della cultura 2026. A proclamarla è stato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano nel corso della cerimonia che si è svolta a Roma, nella Sala Spadolini del ministero, alla presenza della giuria presieduta da Davide Maria Desario e composta da Virginia Lozito, Luisa Piacentini, Andrea Prencipe, Andrea Rebaglio, Daniela Tisi, Isabella Valente, e dei rappresentanti di tutte e dieci le città finaliste: oltre all’Aquila, Agnone (Isernia), Alba (Cuneo), Gaeta (Latina), Latina, Lucera (Foggia), Maratea (Potenza), Rimini, Treviso, Unione dei Comuni Valdichiana Senese (Siena). “L’Aquila è una città ricca di storia e di identità e merita certamente di essere capitale della cultura” dice parlando con i giornalisti Sangiuliano, che ricorda anche come la commissione sia “assolutamente autonoma e indipendente dalla mia persona”. Il ministro avrebbe voluto dare “questo riconoscimento a tutte le città che erano candidate, questo purtroppo non era possibile. Adesso studieremo un modo per coinvolgerle in questo momento”.
L’Aquila “si avvia a celebrare i 15 anni del terremoto – commenta il sindaco della città Pierluigi Biondi -. Essere capitale italiana della cultura non è un risarcimento, ma rappresenta un elemento attorno a cui ricostruire il tessuto sociale della nostra comunità”. La cultura “è un elemento fondante, è recupero dell’identità e proiezione nel futuro – aggiunge – . Le altre città finaliste saranno parte di questo percorso. Vi garantiamo che saremo all’altezza del compito che ci assegnate… viva l’Italia”. Il progetto presentato dal capoluogo abruzzese è intitolato ‘L’Aquila Città multiverso’ ed è “un ambizioso programma di sperimentazione artistica per la creazione di un modello di rilancio socio-economico territoriale a base culturale, capace di proiettarla verso il futuro seguendo i quattro assi della Nuova Agenda Europea della Cultura: coesione sociale, salute pubblica benessere. creatività e innovazione, sostenibilità socio-ambientale”, si legge nelle linee guida. “Siamo molto felici, è un altro segno di rinascita dell’Abruzzo – commenta Marco Marsilio, appena confermato alla presidenza della Regione -. Sapevamo di essere molto competitivi e che il dossier presentato era eccellente. La giuria lo ha riconosciuto”. Il progetto dell’Aquila “ci ha convinto per la sua qualità, ma anche per aspetti come il budget, la capacità di includere per tutto l’anno i territori e per il coinvolgimento dei giovani” spiega Davide Maria Desario, presidente della giuria. Ognuno dei progetti delle città finaliste “rappresenta l’emblema dell’Italia come vorremmo che fosse, l’Italia del fare”. Per questo Desario torna a lanciare la proposta (poi accolta dal ministro, ndr) “che oltre oltre al premio alla città vincitrice si integri il bando con un riconoscimento anche alle altre finaliste”. Fra le reazioni alla vittoria, prevalgono le congratulazioni da parte delle altre città finaliste ma si solleva anche qualche polemica.
“A pensar male si fa peccato ma, come dice l’adagio, spesso si indovina. O forse è solo un caso che, a pochi giorni, dalle elezioni regionali in Abruzzo il titolo sia stato conferito proprio a La città de L’Aquila?” si chiede in una nota il deputato del Pd Andrea Gnassi, ex sindaco di Rimini. Critico anche l’attuale sindaco della città romagnola Jamil Sadegholvaad che fa i complimenti a L’Aquila ma parla di “invasioni di campo preventive scomposte anche da parte di chi dovrebbe essere super partes” nella competizione. Il nostro auspicio “è che Rimini e la Romagna alluvionata possano essere Capitale italiana della cultura l’anno successivo – commenta il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini -, a partire proprio dall’alluvione senza precedenti del maggio 2023 da cui hanno saputo subito risollevarsi e ripartire”. Invece il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle del Molise Andrea Greco oltre a esprimere il rammarico per la sconfitta di Agnone (Isernia) che era tra le dieci finaliste, critica Bruno Vespa, che avrebbe dimostrato “una meno che sufficiente caratura giornalistica” per l’endorsement a L’Aquila che avrebbe fatto sulla tv pubblica alla vigilia della designazione: “E’ stato per lo meno spiacevole per non utilizzare altri termini”.