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Decreto salva-casa in vigore, ecco come richiedere ai Comuni la sanatoria

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Il decreto Salva-casa entra in vigore e partono così anche le richieste ai Comuni per ottenere la sanatoria. Per le tolleranze non sarà necessario ma per le procedure di accertamento di conformità, necessarie per regolarizzare le difformità, sì. I cittadini potranno quindi avviare le istanze, nella consapevolezza che nell’iter parlamentare del dl potrebbe esserci qualche ulteriore allargamento delle maglie. Il provvedimento pubblicato in Gazzetta Ufficiale passa infatti ora all’esame delle commissioni parlamentari, dove Matteo Salvini ha già annunciato modifiche. Nell’inoltrare la richiesta ai Comuni va inoltre tenuto conto dell’introduzione del meccanismo del ‘silenzio assenso’: se l’amministrazione – plausibilmente sovraccarica di domande – non risponde entro le scadenze previste l’istanza si considera accettata. I termini sono di 45 giorni se il permesso è in sanatoria; di 30 giorni in caso di Segnalazione certificata di inizio attività (Scia); infine di 180 giorni se ad essere coinvolti sono immobili soggetti a vincolo paesaggistico. Ecco di seguito una scheda con le novità introdotte dal dl:

* VERANDE ED EDILIZIA LIBERA. Le vetrate panoramiche amovibili (le cosiddette Vepa) potranno essere costruite senza autorizzazione comunale o senza comunicazione di inizio attività, anche per i porticati rientranti all’interno dell’edificio. ‘Libere’ anche le opere di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici la cui struttura principale sia costituita da tende, anche a pergola, addossate o annesse agli immobili, purché non determino spazi stabilmente chiusi.

* PARETI E TOLLERANZE COSTRUTTIVE. Per gli interventi realizzati entro il 24 maggio scorso sono previste a nuovi limiti di tolleranza, che restano del 2% per una superficie superiore a 500 metri quadri, ma passano al 3% per una superficie tra i 300 e 500 metri quadri, al 4% tra i 100 e 300 metri quadri e al 5% sotto i 100 metri quadri.

* MURI INTERNI E TOLLERANZE ESECUTIVE. Per tolleranza esecutiva si intendono le irregolarità geometriche, le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, la diversa collocazione di impianti e opere interne. Sempre per gli interventi realizzati entro il 24 maggio vi rientrano ora il minor dimensionamento dell’edificio; la mancata realizzazione di elementi architettonici non strutturali; le irregolarità esecutive di muri esterni ed interni; la difforme ubicazione delle aperture interne, la difforme esecuzione di opere rientranti nella nozione di manutenzione ordinaria.

* ACCERTAMENTO DI CONFORMITÀ. Finora l’accertamento di conformità poteva essere chiesto solo quando veniva dimostrata la “doppia conformità”. L’opera doveva cioè essere conforme alla normativa edilizia e urbanistica vigente sia al momento della realizzazione, sia al momento della presentazione dell’istanza. Il decreto salva-casa semplifica la normativa, richiedendo la doppia conformità solo nei casi più gravi.

* STATO LEGITTIMO DELL’IMMOBILE. Il salva-casa riduce gli oneri amministrativi per i cittadini: per dimostrare lo stato legittimo sarà sufficiente presentare il titolo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio, anche in sanatoria. Le parziali difformità che saranno sanate contribuiranno quindi a dimostrare lo stato legittimo di un immobile.

* PIÙ FACILE IL CAMBIO DI DESTINAZIONE D’USO. All’interno della stessa categoria funzionale, il mutamento della destinazione d’uso sarà sempre ammesso. Tra diverse categorie sarà d’ora in poi ammesso tra le categorie residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale, e in ogni caso, all’interno delle zone centro storico, residenziali consolidate, residenziali in espansione. Sono escluse le unità immobiliari al primo piano fuori terra.

* LE MODIFICHE IN ARRIVO. Uno degli obiettivi già indicati da Salvini è quello di modificare i requisiti di abitabilità, dall’altezza dei soffitti alla superficie minima. Attesa in Parlamento anche una norma per risolvere il caso dei grattacieli di Milano, bloccati dalla magistratura perché ritenuti abusivi. Sul tema c’è già la convergenza di Azione.

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Politica

Antimafia, otto candidati “impresentabili” tra Campania e Puglia: un elenco che solleva dubbi sui diritti politici

La Commissione Antimafia indica otto candidati “impresentabili” tra Campania e Puglia. Ma la definizione solleva perplessità: o si ha diritto a candidarsi o no, senza ambiguità sulle garanzie dei diritti.

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Sono otto i candidati definiti “impresentabili” dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo (foto Imagoeconimica) in vista delle prossime elezioni regionali in Campania e Puglia. Nessun nome, invece, risulta per le consultazioni in Veneto. Le verifiche dell’Antimafia riguardano le violazioni del codice di autoregolamentazione, documento interno che la Commissione utilizza per valutare la compatibilità morale e giudiziaria dei candidati.

Le liste coinvolte in Campania e Puglia

In Campania, tre candidati provengono da liste che sostengono la corsa del centrodestra con Edmondo Cirielli candidato governatore, mentre un altro figura tra i sostenitori di Roberto Fico, candidato del campo largo.
In Puglia, invece, tre candidati si trovano nelle liste di Forza Italia, a sostegno di Luigi Lobuono, e uno nella lista “Alleanza Civica per la Puglia”.
La Commissione ha inoltre segnalato altri candidati “impresentabili” nelle amministrative dei Comuni sciolti per mafia, tra cui Caivano, Monteforte Irpino, Acquaro e Capistrano.

Una definizione che apre un problema di principio

Il termine “impresentabile”, usato dall’Antimafia, pone una questione delicata sotto il profilo delle garanzie dei diritti politici.
O un cittadino ha diritto a candidarsi — secondo quanto previsto dalla legge e nel rispetto della presunzione di innocenza — oppure non lo ha.
In un ordinamento democratico fondato sul diritto, non dovrebbe esistere una zona grigia in cui un candidato, pur avendo pieno diritto legale a partecipare alle elezioni, venga pubblicamente indicato come “impresentabile” da un’istituzione parlamentare.
Per questo, in questa sede, il termine viene utilizzato esclusivamente per richiamare la definizione ufficiale adottata dalla Commissione Antimafia, senza condividerne l’impianto concettuale, che rischia di trasformarsi in un giudizio politico o morale non previsto dalle leggi.

L’altra inchiesta: il clan D’Alessandro e il “business del caffè”

Nel frattempo, un’altra vicenda giudiziaria ha riacceso l’attenzione sulla criminalità organizzata in Campania. Le indagini dei carabinieri di Torre Annunziata e della Direzione distrettuale antimafia di Napoli hanno documentato due episodi di estorsione legati al clan D’Alessandro, che avrebbe imposto la vendita di un determinato tipo di caffè ai bar di Castellammare di Stabia.
Secondo le intercettazioni, la gestione del “business del caffè” avrebbe persino causato una frattura interna al clan, con una fazione che imponeva il prodotto a bar, uffici e negozi, e un’altra che si limitava a venderlo.
Nell’agosto del 2021 l’attività estorsiva di questa fazione cessò quando il responsabile fu trasferito nel Lazio per ordine dei vertici, al fine di salvaguardare gli equilibri interni.

Un contesto complesso, quello descritto dalle indagini e dalle segnalazioni parlamentari, che impone una riflessione non solo sul contrasto alla criminalità, ma anche sulla tutela piena e imparziale dei diritti civili e politici di ogni cittadino.

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Santanchè, gli affitti brevi e la difesa della lobby degli albergatori a danno delle famiglie

La ministra Santanchè difende gli interessi degli albergatori e colpisce chi affitta la propria casa per campare, mentre il governo Meloni aumenta tasse e burocrazia sui piccoli proprietari.

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Le parole di Daniela Santanchè sugli affitti brevi pronunciate a Napoli sono l’ennesimo esempio di una politica schierata con le lobby degli albergatori, pronte a difendere i propri privilegi anche a costo di penalizzare migliaia di famiglie italiane che affittano una stanza o un appartamento per sopravvivere.

La ministra, invischiata in processi giudiziari ancora fermi al palo e con un nutrito carnet di amicizie nel settore, parla di “lotta al sommerso” e di “tutela della proprietà privata”. Ma la realtà è che il suo governo, più che tutelare la proprietà, la sta lentamente svuotando di senso per chi vive di piccoli affitti. Il Codice identificativo nazionale (CIN), la trovata burocratica inventata dalla Santanchè, è solo il primo passo per schedare e complicare la vita a chi ospita turisti.

Secondo le nuove regole, un alloggio deve avere almeno 28 metri quadrati per due persone e 20 per una. Negli alberghi, invece, bastano 9 metri quadrati per una persona e 14 per due. In alcune regioni si dorme anche in camere da 7 metri quadrati, e in certi casi in veri e propri loculi da 3 metri, ma solo se l’attività è “autorizzata”.

La Santanchè, che parla di “agevolare le famiglie”, finge di ignorare che chi affitta una casa con Booking o Airbnb è già tartassato. Su 100 euro di incasso lordo, un piccolo proprietario paga:

  • 21 euro di cedolare secca (che saliranno a 26 se l’immobile non è prima casa);

  • 21 euro di commissioni a Booking, tra percentuali, IVA e costi di transazione;

  • Spese per acqua, luce, gas, internet, climatizzazione e tasse di soggiorno;

  • Costi per pulizie, lavanderia, prodotti, manutenzione e comunicazioni obbligatorie a polizia e comune.

Alla fine, restano 15-18 euro di guadagno reale su 100 incassati. Questa è la realtà di chi affitta legalmente, paga tutto, e mantiene viva una microeconomia familiare che il governo invece sta affossando.

Aumentare la tassazione al 26 per cento non farà emergere il sommerso, ma spingerà molti ad affittare in nero o a chiudere del tutto. E allora, prima di dire “scemenze” in pubblico, la ministra Santanchè farebbe bene a ricordare che non tutti possono contare su patrimoni milionari o sulla rete di amicizie che lei vanta nel settore del lusso.

Chi oggi affitta una casa lo fa per campare, non per arricchirsi. E meriterebbe rispetto, non sospetto.

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Bufera sul Garante per la Privacy, Stanzione respinge le accuse: “Non ci dimetteremo, attacco politico”

Il presidente del Garante per la Privacy Pasquale Stanzione respinge le accuse di contiguità politica e nega le dimissioni. Pd e M5S chiedono l’azzeramento dell’Autorità dopo il caso Report.

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Il presidente del Garante per la Privacy, Pasquale Stanzione (foto Imagoeconomica), ha respinto con fermezza le richieste di dimissioni arrivate dalle opposizioni dopo il caso Report, assicurando che il collegio non si dimetterà.

“Le accuse sono totalmente infondate”, ha dichiarato Stanzione, aggiungendo che “quando la politica grida allo scioglimento o alle dimissioni dell’Autorità, non è più credibile”.


La polemica e il caso Report

La bufera è nata dopo un servizio della trasmissione Report, condotta da Sigfrido Ranucci, che ha ipotizzato contiguità politiche e conflitti d’interesse all’interno dell’Autorità. Nel mirino è finito in particolare Agostino Ghiglia, membro del collegio, accusato di vicinanza a Fratelli d’Italia e collegato da Report alla multa inflitta alla stessa trasmissione dopo la messa in onda di un audio privato tra l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e la moglie.

“La narrazione di un Garante subalterno alla maggioranza di governo è una mistificazione che mira a delegittimarne l’azione – ha replicato Stanzione –. Il Garante assume decisioni talvolta contrarie, talvolta favorevoli al governo. Questa è la vera autonomia”.


Le reazioni delle opposizioni

Le opposizioni – Pd, M5S e Avs – hanno chiesto l’azzeramento del collegio e le dimissioni immediate del presidente, definendo “indegna” l’intervista di Stanzione al Tg1.
I parlamentari del Movimento 5 Stelle in Commissione di Vigilanza Rai hanno annunciato un’interrogazione sull’episodio, accusando la testata di essersi “prestata a un comizio difensivo”.

“Non ha più credibilità per andare avanti”, ha detto Stefano Patuanelli, capogruppo M5S al Senato, mentre Giuseppe Conte, a DiMartedì, ha parlato apertamente di “azzeramento necessario”.


Le proposte di riforma

Nel dibattito è intervenuto anche il senatore Dario Parrini (Pd), vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali, proponendo di introdurre un quorum qualificato dei tre quinti del Parlamento per eleggere i membri delle autorità indipendenti, come avviene per la Corte Costituzionale o il Csm.

“Oggi l’attuale Garante è stato eletto nel 2020 con meno del 40% dei voti degli aventi diritto”, ha ricordato Parrini.

Anche l’eurodeputato Sandro Ruotolo ha definito la situazione “paradossale”:

“Abbiamo la possibilità di far dimettere il Capo dello Stato, ma non il collegio del Garante della Privacy. Serve un passo indietro e una riforma per garantire indipendenza e qualità”.


Il limite istituzionale

Come ha ricordato il giurista ed ex presidente Rai Roberto Zaccaria, né il governo né il Parlamento possono imporre lo scioglimento del Garante.

“L’unica ipotesi è che la maggioranza dei componenti, quindi tre su quattro, si dimetta. Altre non ne vedo in questo momento”.

Per ora, Stanzione non arretra: il Garante resta al suo posto, mentre lo scontro politico intorno all’Autorità continua ad alimentarsi.

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