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Cresce riso Made in Sud, Carnaroli sa anche di Calabria

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Dalle Alpi al Pollino, cambia la geografia della produzione di riso italiano, e in Calabria, nella piana di Sibari, sono sempre piu’ gli imprenditori agricoli a scommettere nel “mare a quadretti”. Cosi’ definisce le proprie risaie a Cassano allo Jonio (Cosenza), Matteo Perciaccante, giovane volto insieme ai fratelli della Masseria Fornara, e uno degli “agronauti”, produttori eroici associati nella compagine ideata dallo chef Claudio Villella per valorizzare la Calabria come meta qualificata nel turismo Wine&Food. Con 100 ettari di proprieta’ e altri 500 ettari in gestione di risicoltori sibariti, questa azienda fondata nel 1870 ha saputo evolversi e nel 1982 ha smesso il ruolo di conferitore di riso da pileria all’industria alimentare del Nord per cominciare a fare riso da semi.

“In Calabria non c’era una cultura del riso – racconta Perciaccante – e gli chef ci stanno dando una mano per introdurre questo ingrediente nella cucina locale. Noi facciamo per il 60% della produzione Carnaroli, che si e’ adattato in modo straordinario – il chicco e’ integro, senza microfessure, e quindi non scuoce – a questo habitat con acque salmastre dove, tra gli indicatori di qualita’ ecologica, nidificano 14 famiglie di cicogne. Si tratta di un’area bonificata in epoca fascista che con il riso, gli agrumi e la liquirizia, ha trovato una sua identita’, molto green perche’ non si fanno trattamenti e quindi prevalgono le aziende bio. Un po’ come avvenuto nella zona di Arborea in Sardegna, ma qui, tra il Pollino e il mare, c’e’ un vento costante e questo ci favorisce nella lotta alle fitopatie. Non abbiamo problemi di funghi ma piuttosto di quantita’ che non riesce a soddisfare la domanda”. Attualmente in Calabria sono sei le aziende che producono riso, il cui prezzo viene quotato a Vercelli.

“Siamo una nicchia, ma anche il piu’ grande polo produttivo del Centro-Sud e vorremmo – ha concluso – fare un doppio salto di qualita’: il riconoscimento dell’Igp (Indicazione geografica protetta) sarebbe una grande opportunita’ per accedere a nuovi mercati e chiudere qui la filiera, con un autonomo impianto di stoccaggio e senza dover mandare nel ferrarese il riso per il confezionamento. Abbiamo presentato per questo un progetto alla Regione che prevede un milione di euro di investimento e stiamo aspettando i bandi. L’industria riseria in loco e’ il nostro sogno perche’ permetterebbe di risparmiare autotrasporti per 896 km una-due volte al mese nonche’ costi per il packaging e poter proporre riso fresco 100% made in Calabria”. Altro nodo che richiede investimenti e’ il patrimonio idrico: “la Calabria e’ tanto ricca di acqua ma e’ un problema convogliarla. Il riso non e’ una pianta acquatica ma ha bisogno dell’oro blu come regolatore termico e per avere radici bagnate.

Fondamentale e’ la supervisione dell’acquaiolo che controlla che il livello di copertura idrica sia di 4-5 centimetri. E’ una coltivazione a circuito chiuso, quindi a basso consumo idrico ma sono diversi i progetti per risparmiare H2O, in Calabria si stanno sperimentando le colture idroponiche mentre Israele studia l’irrigazione a goccia su ogni pianta per coltivare riso nel deserto”. L’Italia, sottolinea la Coldiretti, si conferma primo produttore europeo di riso, con 228 mila ettari coltivati quest’anno e 4 mila aziende agricole che raccolgono 1,50 milioni di tonnellate di risone all’anno, pari a circa il 50% dell’intera produzione Ue e con una gamma varietale unica e fra le migliori del mondo. Si prevede quest’anno una buona produzione di alta qualita’, nonostante i danni causati dal maltempo in alcune regioni del Nord, con un aumento secondo la Coldiretti del 4% degli ettari coltivati che salgono a 228mila, di cui quasi l’80% concentrati in tre province del Piemonte e della Lombardia (Vercelli, Pavia e Novara).

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Copernicus, marzo 2024 il mese più caldo mai registrato

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Il marzo del 2024 è stato il mese di marzo più caldo mai registrato. Lo rende noto il servizio meteo della Ue Copernicus. La temperatura media globale il mese scorso è stata di 14,4°C, superiore di 0,73°C rispetto alla media del trentennio 1991 – 2020 e di 0,10°C rispetto al precedente record di marzo, quello del 2016. Il mese inoltre è stato di 1,68°C più caldo della media di marzo del cinquantennio 1850 – 1900, periodo di riferimento dell’era pre-industriale. Secondo Copernicus, il marzo 2024 è il decimo mese di fila che si classifica come il più caldo mai registrato.

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Ecdc-Efsa, rischio diffusione dell’aviaria su larga scala

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Si alza il livello di attenzione sull’influenza aviaria da virus A/H5N1. Dopo tre anni che l’agente patogeno circola in maniera particolarmente sostenuta tra uccelli selvatici e di allevamento, infettando anche mammiferi ed espandendo la sua area di diffusione, da poco più di una settimana gli occhi sono puntati sugli Stati Uniti, dove si segnalano infezioni in allevamenti di mucche da latte. Al momento sono interessati una dozzina di allevamenti dislocati in cinque stati (Texas, Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho). Il primo aprile, poi, i Centers for Disease Control and Prevention hanno diffuso la notizia che anche un uomo ha contratto l’infezione; le sue condizioni sono buone.

Ad oggi si ritiene che sia gli animali sia l’uomo abbiano contratto l’infezione attraverso il contatto con uccelli infetti. Secondo le autorità americane questi casi non cambiano il livello di rischio, che resta basso per la popolazione generale. Tuttavia, i segnali di allarme si moltiplicano. In un rapporto pubblicato mercoledì, l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) e la European Food Safety Authority (Efsa), avvertono: “se i virus dell’influenza aviaria A/H5N1 acquisissero la capacità di diffondersi tra gli esseri umani, potrebbe verificarsi una trasmissione su larga scala”.

Fino a oggi, le infezioni nell’uomo sono poche (circa 900 dal 2003) e del tutto occasionali. Non ci sono prove di trasmissione tra mammiferi, né da uomo a uomo. Tuttavia, la congiuntura invita alla massima attenzione. In piena pandemia, nel 2020, è comparsa una nuova variante di virus A/H5N1 (denominata 2.3.4.4b) che in breve è diventata dominante. Da allora, sono aumentati il “numero di infezioni ed eventi di trasmissione tra diverse specie animali”, si legge nel rapporto. Questi continui passaggi tra animali e specie diverse aumentano le occasioni in cui il virus può mutare o acquisire porzioni di altri virus che lo rendano più adatto a infettare i mammiferi. In realtà A/H5N1 ha già compiuto dei passi in questa direzione.

Ha imparato a moltiplicarsi in maniera più efficace nelle cellule di mammifero e a sviare alcune componenti della risposta immunitaria. Ciò gli ha già consentito negli ultimi anni di colpire un’ampia gamma di mammiferi selvatici e anche animali da compagnia, come i gatti. Anche i fattori ambientali giocano a suo favore: i cambiamenti climatici e la distruzione degli habitat, influenzando le abitudini degli animali e intensificando gli incontri tra specie diversa, fanno crescere ulteriormente le probabilità che il virus vada incontro a modifiche.

Nonostante ciò, al momento non ci sono dati che indichino che A/H5N1 abbia acquisito una maggiore capacità di infettare l’uomo. Tuttavia, se questa trasformazione avvenisse saremmo particolarmente vulnerabili. “Gli anticorpi neutralizzanti contro i virus A/H5 sono rari nella popolazione umana, poiché l’H5 non è mai circolato negli esseri umani”, precisano le agenzie. Per ridurre i rischi Ecdc ed Efsa invitano ad alzare la guardia, rafforzando le misure di biosicurezza negli allevamenti, limitando l’esposizione al virus dei mammiferi, compreso l’uomo, e intensificando la sorveglianza e la condivisione dei da

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Da 20 anni aria più pulita in Europa, ma non basta

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Da 20 anni a questa parte si respira un’aria più pulita in Europa, ma nonostante ciò la maggior parte della popolazione vive in zone in cui le polveri sottili (PM2.5 e PM10) e il biossido di azoto (NO2) superano ancora i livelli di guardia indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: il Nord Italia, in particolare, è tra le regioni con le concentrazioni più alte. Lo dimostra uno studio pubblicato su Nature Communications dall’Istituto di Barcellona per la salute globale (ISGlobal) e dal Centro nazionale di supercalcolo di Barcellona (Bsc-Cns). I ricercatori hanno sviluppato dei modelli di apprendimento automatico per stimare le concentrazioni giornaliere dei principali inquinanti atmosferici tra il 2003 e il 2019 in oltre 1.400 regioni di 35 Paesi europei, abitate complessivamente da 543 milioni di persone. Per lo studio sono stati raccolti dati satellitari, dati atmosferici e climatici e le informazioni riguardanti l’utilizzo del suolo, per ottenere una fotografia più definita rispetto a quella offerta dalle sole stazioni di monitoraggio. I risultati rivelano che in 20 anni i livelli di inquinanti sono calati in gran parte d’Europa, soprattutto per quanto riguarda il PM10 (con un calo annuale del 2,72%), seguito da NO2 (-2,45%) e dal PM2.5 (-1,72%).

Le riduzioni più importanti di PM2.5 e PM10 sono state osservate nell’Europa centrale, mentre per NO2 sono state riscontrate nelle aree prevalentemente urbane dell’Europa occidentale. Nel periodo di studio, il PM2.5 e il PM10 sono risultati più alti nel Nord Italia e nell’Europa orientale. Livelli elevati di NO2 sono stati osservati nel Nord Italia e in alcune aree dell’Europa occidentale, come nel sud del Regno Unito, in Belgio e nei Paesi Bassi. L’ozono è aumentato annualmente dello 0,58% nell’Europa meridionale, mentre è diminuito o ha avuto un andamento non significativo nel resto del continente. Il complessivo miglioramento della qualità dell’aria non ha però risolto i problemi dei cittadini, che continuano a vivere per la maggior parte in zone dove si superano i limiti indicati dall’Oms per quanto riguarda il PM2.5 (98%), il PM10 (80%) e il biossido di azoto (86%). Questi risultati sono in linea con le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente per 27 Paesi dell’Ue, basate sui dati provenienti dalle stazioni urbane. Inoltre, nessun Paese ha rispettato il limite annuale di ozono durante la stagione di picco tra il 2003 e il 2019.

Lo studio ha infine esaminato il numero di giorni in cui i limiti per due o più inquinanti sono stati superati simultaneamente. E’ così emerso che nonostante i miglioramenti complessivi, l’86% della popolazione europea ha sperimentato almeno un giorno all’anno con sforamenti per due o più inquinanti: le accoppiate più frequenti sono PM2.5 con biossido di azoto e PM2.5 con ozono. Secondo il primo autore dello studio, Zhao-Yue Chen, “sono necessari sforzi mirati per affrontare i livelli di PM2.5 e ozono e i giorni di inquinamento associati, soprattutto alla luce delle crescenti minacce derivanti dai cambiamenti climatici in Europa”.

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