Catello Maresca. Dopo 12 anni alla Direzione distrettuale antimafia è oggi Sostituto Procuratore Generale
Passa la seconda ondata del Covid e puntuali sono ricominciate le proteste dei detenuti e dei loro familiari. Il Governo ed il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (il DAP) si muovono per scongiurare un’altra Caporetto.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di assistere dignitosamente i detenuti con patologie all’interno delle carceri. Il rischio è che vengano mandati a casa pericolosi delinquenti. È già accaduto nel corso della prima emergenza epidemiologica.
A tal proposito, se l’esperienza conta, anche e soprattutto per evitare di commettere gli stessi errori, val la pena di ricordare quello che è successo a marzo.
Rivolte simultanee dei detenuti in molti istituti di detenzione. Sistema penitenziario colto di sorpresa, o comunque non adeguatamente predisposto per fronteggiare l’emergenza. E poi le scarcerazioni indistinte con molti pericolosi delinquenti, anche mafiosi, mandati per mesi in vacanza domiciliare con il differimento della pena.
Non è mia intenzione tornare sulla questione delle colpe o delle responsabilità, dopo che i dirigenti di quel DAP sono stati quasi tutti rimossi o “dimissionati”, ma mi preoccupo affinché tali situazioni incresciose non abbiano mai più a ripetersi. Perché sbagliare è umano, anche se molto grave per chi riveste ruoli istituzionali di rilievo, ma perseverare è diabolico.
Il Governo è intervenuto inserendo l’art. 30 nel decreto ristori ed ha pensato di replicare la medesima misura del cosiddetto “indultino”, che prevede la detenzione domiciliare per i detenuti che non debbano scontare più di 18 mesi di reclusione, anche come residuo di altra pena. Dovrebbero essere stati esclusi dal beneficio i mafiosi e gli autori di delitti più gravi.
Nel frattempo anche il DAP sta correndo ai ripari per evitare le conseguenze della diffusione del virus nelle carceri.
Mi preoccupano, da tecnico studioso del fenomeno mafioso, almeno due aspetti di una strategia che sembra improntata al solito opinabile principio di svuotare le carceri il più possibile senza fare, fino in fondo con chiarezza, distinzione tra tipologie di delinquenti. E soprattutto con pochi insufficienti interventi strutturali.
La prima criticità è legata al nuovo “indultino”, riproduzione di quello previsto a marzo dall’art. 123 del decreto cura Italia.
Con una modifica introdotta, cogliendo in parte una mia indicazione, già pubblicata a maggio su questo giornale. Viene, infatti, previsto il divieto di scioglimento del cumulo delle pene per i reati di mafia e di terrorismo.
La questione è molto tecnica, ma sostanzialmente può essere spiegata dicendo che con il precedente art. 123 del decreto cura Italia sono usciti dal carcere mafiosi come Antonio Noviello, del clan dei Casalesi, condannato ad oltre 16 anni per reati di stampo mafioso e reati comuni. L’indultino di marzo consentiva, infatti, la scarcerazione anticipata – in periodo di covid – di questi soggetti, anche se dovevano finire di scontare una pena inferiore a 18 mesi per reati comuni.
Con le nuove norme questo non sarà più possibile. Ma non sempre. Perché è stata inserita una eccezione dell’eccezione. E cioè questo avverrà solo se i reati sono connessi. E vi risparmio ulteriori tecnicismi.
La conclusione è che si tratta di una norma che scontenta tutti, che verosimilmente avrà una applicazione modesta e non risolverà il problema del sovraffollamento delle carceri.
Peraltro, non essendo stata pubblicata la relazione di accompagnamento non è dato sapere se, in questi 6 mesi dopo il primo lockdown, sia stata fatta una previsione sull’impatto della norma.
Quindi, a mio modesto parere, il sovraffollamento resterà e i giudici di sorveglianza saranno chiamati ad esprimersi sulle situazioni critiche senza sostanziali novità, né migliorie rispetto a marzo.
E qui entra in gioco la seconda criticità che è legata alla circolare del DAP del 22 ottobre con cui si danno disposizioni ai Provveditorati ( organi periferici che coordinano gli istituti carcerari) per la gestione del rischio covid all’interno del carcere. Ci si preoccupa- giustamente – della gestione dei detenuti covid, ma mancano totalmente indicazioni sulla “gestione straordinaria” dei detenuti con patologie diverse anche gravi, in un momento nel quale il servizio sanitario nazionale è in emergenza assoluta.
Mi chiedo se lasciare la delega alle Asl (ancora competenti per legge per i profili sanitari di tutta la platea carceraria) senza l’indicazione di tempi, modalità di effettuazione di cure ed esami clinici, ed eventuali “corsie prioritarie” per i detenuti più pericolosi, non sia scelta operativa rischiosissima.
Pasquale Zagaria. Detenuto al 41 bis scarcerato ad aprile per evitare che si contagiasse
Si veda cosa è accaduto per il boss Pasquale Zagaria, mandato a casa ad aprile, per l’impossibilità di effettuare controlli medici per la riconversione a centro covid dell’ospedale dove veniva curato.
Allo stato delle disposizioni un detenuto, anche al 41 bis, a cui non sarà assicurata la richiesta necessaria terapia sanitaria, a causa, ad esempio, della temporanea chiusura/sospensione del servizio medico per emergenza covid, temo che rischi di andare a casa sulla base dell’art. 147 c.p.
Non mi risulta siano stati fatti screening precisi delle patologie più diffuse ed analisi del rischio-scarcerazioni per i mafiosi con patologie. Con conseguente logico potenziamento delle strutture/reparti sanitari interessati.
Dall’altro lato, almeno questo, la famigerata circolare del 21 marzo ( definita da molti la vera svuotacarceri) resta ancora sospesa.
Auspico che non si ripeta una storia già vista. E rispetto a queste critiche costruttive mi aspetto non infastidite repliche piccate, ma chiare risposte rassicuranti, cui seguano fatti concreti. Non siamo più disponibili ad accettare scuse postume con non chiare assunzioni di responsabilità, né tantomeno goffi tentativi di buttare la croce sui giudici, che in genere non dispongono di corrispondenti strumenti mediatici per difendersi efficacemente.
Non so più in che lingua bisogna dirlo. Così non va bene. Così non si affronta l’emergenza. È sbagliato. È pericoloso.
Ad inizio marzo, molto prima del pur meritorio dottor Giletti che colse il nostro grido di dolore su La 7 e che ne ha fatto poi quasi una battaglia personale, ebbi a denunciare la questione pubblicamente dalle pagine di Juorno.it.
Lanciai l’allarme e suggerì una possibile soluzione.
Con atteggiamento da soloni presuntuosi all’epoca si sottovalutò la questione. Ed abbiamo visto tutti come è andata a finire. Cerchiamo di non replicare una delle pagine più buie nella lotta alle mafie nel nostro Paese.
Serve un intervento immediato, coraggioso ed efficace. I mafiosi vanno curati, ma va fatto esclusivamente all’interno del circuito carcerario. E l’opinione pubblica ha diritto, dopo tutto quello che è accaduto in primavera, di sapere quali siano gli strumenti e le strategie che si sono adottate per evitare il peggio.
(Le foto e i video in questo editoriale del dottor Catello Maresca sono materiale di archivio di Juorno.it e sono immagini e filmati relativi alle rivolte in carcere del 7,8, 9 marzo che causarono 14 morti, decine di feriti e danni per milioni di euro alle strutture penitenziarie italiane)
Una centrale di riciclaggio di denaro nel cuore di Rona. Nel quartiere Esquilino, a due passi dalla stazione Termini, soggetti di nazionalità cinese hanno messo in atto “sistematiche” operazioni di ripulitura del contante, un fiume di denaro proveniente dalla attività di spaccio, che veniva poi spedito in Cina. E’ quanto emerge da una indagine della Guardia di Finanza coordinata dai pm della Dda di piazzale Clodio. Complessivamente 33 le misure cautelari emesse dal gip. Ad applicarle uomini del Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata (Gico) del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Roma e dal Gruppo di Fiumicino, coadiuvati dallo Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata (Scico) della Guardia di Finanza e dalla Direzione Centrale Servizi Antidroga (Dcsa).
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti gli esercizi commerciali in zona Esquilino, esistenti solo formalmente, fungevano in realtà da “centri di raccolta” del denaro di provenienza illecita destinato a essere trasferito all’estero (prevalentemente in Cina) in maniera anonima e non tracciabile. Questa intermediazione finanziaria illegale, si fondava sul metodo “Fei Ch’ien” (letteralmente “denaro volante”), che consiste nel virtuale trasferimento del denaro all’estero. Nei fatti, il denaro depositato presso il broker cinese non lasciava fisicamente il Paese di partenza, venendone invece trasferito il solo “valore nominale” alla controparte/broker presente nel Paese estero.
La successiva compensazione poteva avvenire con modalità diverse quali, tra le altre, il ricorso a corrieri di valuta, bonifici “diretti” di importo frazionato (al fine di aggirare i vincoli antiriciclaggio) ovvero a mezzo di trasferimento. A capo dell’organizzazione c’era Zheng Wen Kui, classe 1968. Era lui, secondo quanto accertato dagli inquirenti, che si occupava anche del reclutamento dei nuovi associati e di prendere accordi con i “clienti”, tra cui anche i ‘narcos’ attivi nella zona di Tor Bella Monaca e San Basilio.
Zheng, inoltre, offriva supporto “logistico” ai corrieri di valuta, per conto dei quali pianificava e organizzava dettagliatamente i viaggi aerei con cui trasportare il denaro all’estero con l’obiettivo di eludere i controlli alle frontiere. Gli inquirenti hanno proceduto, infine, al sequestro di circa 10 milioni euro nei confronti dei “money mule” incaricati di trasferire fisicamente la valuta fuori dal territorio ed hanno accertato conferimenti di denaro di provenienza illecita in favore della compagine cinese a Roma per oltre 4 milioni di euro.
“Purtroppo non era un guard rail ma una ringhiera”. Le immagini delle telecamere sul luogo dell’incidente di Mestre appaiono unanimi: si vede il pullman guidato da Alberto Rizzotto salire lentamente lungo la parte destra della rampa del cavalcavia, nonostante il semaforo forse verde, e poi piegarsi, sfondare con estrema facilità il guard rail e precipitare di sotto. La domanda che tutti oggi si fanno è come sia stato possibile che un pullman, per quanto del peso ragguardevole di 13 tonnellate perchè elettrico, possa aver spazzato via la barriera di protezione tagliandola come fosse un coltello nel burro. In quel punto dalla notte scorsa sono state poste deli limitatori di jersey in cemento.
E il primo ad aver più di un dubbio sul fatto che la protezione a destra non abbia fatto il suo dovere è lo stesso amministratore delegato di ‘La Linea’, la compagnia di trasporto coinvolta nell’incidente, Massimo Fiorese. “C’è una telecamera fissa sopra il cavalcavia di cui ha visto solo frammenti di immagine: si vede l’autobus che a una velocità minima si appoggia su un guard rail – accusa – che purtroppo non è un guard rail ma una ringhiera”. E aggiunge: “in questi casi è colpa di tutto e di niente perchè non è stato il guard rail che è andato addosso all’autobus. Però sicuramente quel guard rail…. “.
Tanto è vero che, dice ancora l’amministratore delegato, “mi sembra che lo stiano sostituendo e ci sono dei lavori in corso, giusto poco prima” del punto dell’incidente. E in effetti da diverse settimane il Comune di Venezia ha avviato i lavori di rifacimento del cavalcavia, attualmente in pessimo stato e corroso dalla ruggine. Un progetto, spiega l’assessore comunale ai trasporti Renato Boraso, del costo di oltre 6 milioni di euro. Nel piano, assicura, era compresa anche una nuova barra di protezione a difesa dalle uscite di strada. Sulla tempistica della realizzazione, però, non vi è alcuna data certa.
“Quel guard rail è vetusto. Sapevamo di dover mettere in sicurezza il cavalcavia – rassicura – il cantiere è già avviato”. Che quel guard rail possa aver avuto un ruolo nell’incidente ne è convinto anche il presidente dell’Asaps, l’associazione di amici e sostenitori della Polizia Stradale, Giordano Biserni. “Parliamo di ipotesi – dice – ma da quello che abbiamo potuto accertare attraverso i nostri referenti, quello era un guard rail a unica onda alto un metro e mezzo e non il triplo, come sarebbe stato necessario per il contenimento di un veicolo che può raggiungere le 18 tonnellate. Un guard rail così può contenere un’auto ma un bus del genere è difficile”. Il prefetto di Venezia, Michele Di Bari, preferisce essere più cauto. Alla domanda dei giornalisti se erano in corso lavori di ammodernamento e rifacimento sul cavalcavia che riguardassero espressamente anche il guard rail risponde: “questo non lo so, so che ci sono dei lavori in corso per consolidare dei piloni. Questo da quanto emerge anche visivamente”.
Sono due le ipotesi al vaglio della magistratura veneziana, che sta indagando sulla caduta del bus dal cavalcavia di Mestre; una manovra azzardata, con l’affiancamento a un altro bus e un guardrail vecchio; oppure, sommato a questo, un malore dell’autista che non è riuscito a controllare il mezzo, poi precipitato.
APERTA UN’INDAGINE CONTRO IGNOTI
La Procura della repubblica di Venezia ha aperto un fascicolo per ora contro ignoti, con l’ipotesi di reato di omicidio stradale plurimo. Il Procuratore capo Bruno Cherchi ha precisato che sono stati posti sotto sequestro il guardrail, la zona di caduta del bus e la carcassa del mezzo, con la ‘scatola nera’ “che sarà esaminata – ha rilevato – solo quando si saprà che non è un’operazione irripetibile”.
IL VIDEO CON LA CADUTA DELL’AUTOBUS
Sembra comunque da escludere un urto o una manovra per evitare un mezzo che tagliava la strada. Nel pomeriggio è stato diffuso un video tratto dalle telecamere di sicurezza della “Smart control room” del Comune di Venezia. Si vede l’autobus scendere la rampa del cavalcavia, quindi affiancare un altro bus che indica con la freccia di svoltare a sinistra, ‘sparire’ alla vista ma poi si nota che piega verso destra e cade dal bordo della carreggiata. L’altro bus accende le luci dei freni e le quattro frecce di emergenza.
LA ‘STRISCIATA’ DI 50 METRI CONTRO IL GUARDRAIL
Il Procuratore di Venezia ha escluso il ‘contatto’ con altri mezzi: “La dinamica – ha riferito – ha visto il bus toccare e scivolare lungo il guardrail per un cinquantina di metri, e infine, con un’ulteriore spinta a destra, precipitare al suolo. Non ci sono segni di frenata, né contatti con altri mezzi. Non si è verificato alcun incendio, né c’è stata una fuga di gas delle batterie a litio, che hanno provocato fuoco e fumo”. Anzi, proprio l’altro bus ha chiamato i soccorsi, e l’autista ha anche lanciato un suo estintore verso il mezzo precipitato.
SALVINI PUNTA IL DITO SULLE BATTERIE
Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini esclude un “problema di guardrail”, e ha puntato il dito sulle batterie elettriche del bus, che “prendono fuoco più velocemente di altre forme di alimentazione e in un momento in cui si dice che tutto deve essere elettrico uno spunto di riflessione è il caso di farlo”.
L’AUTOPSIA SULL’AUTISTA
L’attenzione degli investigatori si accentrerà dunque su un eventuale malore dell’autista del bus, Alberto Rizzotto, per cui verrà disposta l’autopsia, assieme all’esame del suo cellulare “e di quanto possa permettere di dare certezze su quanto è accaduto”, ha aggiunto Cherchi. Quanto alle condizioni dell’autista il direttore operativo della compagnia La Linea assicura che “stava guidando da tre ore e mezzo, peraltro non continuative” e che “non era certo stanco: Non lavorava dal giorno prima, quindi aveva goduto abbondantemente delle ore di riposo previste”.