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Così i boss della camorra si fingevano pazzi per farsi scarcerare: il racconto di un pentito

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Ci sono molti modi per lasciare il carcere dopo una condanna che ti obbliga a stare dietro le sbarre. Scontare la pena è il modo più lineare. Poi ci sono gli sconti di pena. Ma non è peregrina l’idea di lavorare  ad una liberazione anticipata soprattutto se nel foglio matricolare dell’ingresso in cella c’è scritto “fine pena? Mai”  il resto della propria vita in prigione. I camorristi della cosca Amato-Pagano di Melito/Mugnano/Scampia, spesso feroci killer dell’ala scissionista che furono protagonisti della  sanguinosa faida con i Di Lauro, in molti casi si trovano nella condizione di ergastolani o comunque hanno da scontare oltre 20 anni in cella. E allora questi picciotti di camorra, alcuni boss anche se giovanissimi, sono diventati esperti in elusione di condanne. Che vuol dire? Significa che provano ad uscire prima. Non con l’evasione. Manco con la legge ma eludendo le leggi. Paolo Caiazza, ad esempio, un boss degli Amato Pagano diventato collaboratore di giustizia sta spiegando ai magistrati della procura distrettuale antimafia come fanno i suoi ex sodali a sottrarsi al regime carcerario duro e a uscire dal carcere. È quello raccontato da Caiazza ai magistrati è un lungo elenco di buone pratiche mafiosamente per vivere meglio in carcere ed uscirne nonostante condanne pesanti.

Sono racconti di un pentito, non di verità rivelate, ma i magistrati stanno accertando se questo collaboratore affidabile dice sempre la verità o meno.  Ciro Mauriello, kill e scissionista, nonostante una condanna all’ergastolo per il suo coinvolgimento negli omicidi di Fulvio Montanino e Claudio Salierno, lasció il carcere per presunti problemi cardiaci e di pressione. Patologie che se accertate seriamente sono incompatibili con il regime di detenzione. Ebbene il signor Mauriello, secondo quanto riferisc Caiazza ai magistrati, era in grado di simulare, durante le visite mediche, una grave forma di ipertensione con alcuni semplici stratagemmi. Che cosa faceva questo signore per fare credere di essere in pericolo di vita per infarto? “Non respirava e stringeva il sedere e quando, poi, si misurava la pressione, questa era sballata”. Così si faceva certificare la incompatibilità con il regime carcerario e detenzione domiciliare in Puglia da dove il boss, come dimostrato da successive indagini, ha continuato a occupare un ruolo di primo piano all’interno del clan fino al momento del suo recente arresto. Geniali le simulazioni di tale Emanuele Baiano, parente degli Amato e boss di prima grandezza. Il boss si feve spiegare, si documentó bene su come fingersi pazzo. E grazie alla ‘pazzaria’ pianificata, studiata a tavolino e messa in piedi anche fon uso di medicinali da richiedere al presidio medico del carcere, manifestava a comando i suoi sintomi da pazzo. I farmaci assunti lo mettevano al riparo da controlli con analisi a sorpresa. Il trucco, però, comportava un uso di farmaci che sembra abbiano causato al detenuto alcuni seri scompensi. Pazzo da manicomio, almeno come recitazione, era Francesco Ferro. La sua era pazzia preventiva.  Temeva di essere arrestato, e così prese a frequentare un sert della periferia nord simulando di essere un tossicodipendente. Il suo piano, ricorda Caiazza, era che, in caso di arresto, grazie alla documentazione rilasciata dal centro, avrebbe potuto scontare una eventuale condanna all’interno di una comunità e non in galera. Era un camorrista (forse, se condannato) ma pur sempre un drogato. Uno stratagemma, questo, che sarebbe stato utilizzato anche da altri esponenti dell’organizzazione come Renato Napoleone e i fratelli Cancello.

C’era qualcuno che aiutava i boss a simulare, recitare patologie che poi venivano certificate? Il pentito Caiazza ha spiegato ai pm della Dda che lo interrogano che il clan Amato Pagano si avvaleva della collaborazione retribuita (i pm la definiscono tecnicamente complicità) di esperti professionisti in servizio in alcuni Sert della periferia nord e finanche del personale di una comunità di recupero della zona di Castelvolturno. I contatti con questi presunti complici – racconta sempre il pentito Caiazza – erano tenuti da Rosario Tripicchio, ucciso in un agguato mafioso. Grazie a questo Tripicchio, che però è morto e dunque non potrà raccontare la sua versione dei fatti, ha spiegato il collaboratore, numerosi affiliati all’organizzazione erano riusciti a ottenere delle certificazioni  fasulle che attestavano lo stato di tossicodipendenza di alcuni affiliati al clan. Queste certificazioni erano la base della procedura che portava alla scarcerazione. Nessuno di questi soggetti – spiega Caiazza – era un drogato. Un altro stratagemma, di cui si sarebbe avvalso Antonio Angelo Gambino, altro boss, era il grave stato di deperimento fisico. Bastava fare digiuno, non mangiare e rifiutarsi di incontrare altri detenuti. Così si arrivava il aula magrissimo e bastava una sceneggiata in pubblico davanti ai giudici per avviare procedure di scarcerazione per le gravi condizioni fisiche e psichiche del detenuto.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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