Se continuano i litigi da campagna elettorale, si rischia di “mettere in discussione il percorso di cinque anni di governo del cambiamento”. Arriva dall’estremo Oriente l’avvertimento di Giuseppe Conte ai suoi vicepremier. L’eco dello scontro tra M5s e Lega sui piu’ svariati temi, dalle province all’autonomia, giunge lontano, a raccontare un governo instabile. Conte da Pechino assicura che con i vicepremier lavora “per la stabilita’ di governo”: ne va, sottolinea, del “bene dell’Italia” e della sua immagine all’estero. Ma Matteo Salvini si sfoga apertamente per le “troppe seccature” causate dal M5s. Mentre Luigi Di Maio arriva a unirsi all’opposizione nel chiedere alla Lega di “chiarire” i presunti legami con il clan Di Silvio a Latina. Armando Siri. Porta il nome del sottosegretario leghista il dossier piu’ spinoso di politica interna che attende Conte al suo rientro in Italia, in nottata. Lo deve vedere, ascoltare, deve decidere se chiedergli il passo indietro per l’inchiesta per corruzione che lo vede indagato.
Armando Siri. Il sottosegretario ai Trasporti che avrebbe dovuto far inserire nel Def del 2018 norme per far retroagire incentivi per aziende che si occupano di energie alternative
E all’uscita dalla sua visita alla Citta’ proibita di Pechino, quando in Italia sta appena albeggiando, il premier fa mostra di voler risolvere la questione in fretta: “Confido di vederlo domani”. Quattro ore dopo, pero’, Palazzo Chigi fa sapere che e’ “molto probabile” che il colloquio slitti “ai giorni successivi”, anche perche’ martedi’ Conte – con Di Maio e Salvini – sara’ a Tunisi. Con il leader della Lega i nervi sono assai tesi. “Conte non fa il giudice: se mi presenta un atto concreto contro Siri sono pronto a discuterne, ad ora non ce ne sono”, dichiara il leader leghista in una dura intervista alla Stampa. Il premier ribatte puntuto che la decisione e’ tutta politica: “L’ho detto anche io che non sono un giudice. Non e’ certo con l’approccio del giudice che affrontero’ il problema Siri”. In gioco, Conte e’ convinto, c’e’ la credibilita’ del governo di fronte ai cittadini: e’ pesante l’ombra di un’accusa di corruzione. Percio’ nel M5s sono convinti che il presidente del Consiglio chiedera’ un passo indietro al sottosegretario, se non lo fara’ da solo per togliere le castagne dal fuoco a tutti. Ma dalla Lega smentiscono voci di dimissioni spontanee di Siri. Circola – anche questa smentita – l’ipotesi di un’autosospensione cautelativa del sottosegretario. Ma Di Maio, che sul punto non puo’ permettersi di cedere, incalza: “Ho fiducia nel premier. Non possiamo pensare che Siri resti”. Stretto nella tenaglia dello scontro preelettorale dei suoi due vice, Conte alla fine decide di prendere tempo. Magari attendere, prima di vederlo, che Siri venga ascoltato – forse a inizio settimana – in procura e abbia accesso agli atti dell’inchiesta. Nel frattempo il premier da’ mandato di smentire di aver gia’ deciso e chiesto a Siri di lasciare per non far saltare il governo. Ma il caso e’ una mina, per due alleati dai rapporti gia’ logorati. Salvini nega che sia minacciata la tenuta del governo. L’irritazione leghista trapela pero’ dalle parole di Giancarlo Giorgetti: “Le priorita’ sono altre”, dice il sottosegretario. Ma anche sulle priorita’ sono botte da orbi, nel governo. Salvini, parlando agli elettori del Nord, auspica “a brevissimo” in Consiglio dei ministri le intese per le autonomie regionali e poi un veloce passaggio in Parlamento. Di Maio subito frena, parlando all’elettorato del Sud: “Il Movimento 5 Stelle sara’ garante della coesione nazionale, perche’ non ci siano scuole di serie A e di serie B”. Prosegue anche lo scontro sulle province, sul quale Conte sara’ chiamato a una nuova mediazione al ritorno in Italia. “Quelle 2500 poltrone in piu’ con il MoVimento 5 Stelle non passano. No ad altri serbatoi clientelari, no ad altra burocrazia. Bisogna semplificare le cose, non complicarle!”, scrive sui social Di Maio, contestando la bozza per l’elezione diretta degli organi provinciali. Ma a quel tavolo, ricorda Salvini, c’era anche il M5s: “Il percorso era stato deciso insieme. Non possono sempre oscillare tra Si’, No e Forse. Si mettano d’accordo con se stessi. Se Di Maio mi dice chi sistema scuole e strade andiamo d’amore e d’accordo. Ma le seccature – si sfoga il leader leghista – cominciano a essere troppe”.
Il caso Bari è approdato oggi nella commissione parlamentare Antimafia ma sarà solo dopo Pasqua che l’ufficio di presidenza deciderà se e quando calendarizzare le audizioni del sindaco di Bari, Antonio Decaro, e del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Entrambi sono da giorni al centro di polemiche tra maggioranza e opposizione per l’aneddoto raccontato dal governatore pugliese che aveva detto di avere portato l’allora assessore Antonio Decaro a casa della sorella di un boss di Bari vecchia. Aneddoto che risalirebbe a 18 anni fa, raccontato durante la manifestazione di solidarietà al sindaco organizzata a Bari sabato scorso, e prima smentito da Decaro (che sarà candidato alle Europee) e poi rettificato dallo stesso Emiliano. A chiedere le audizioni del sindaco, che si è detto “a disposizione della commissione”, e del governatore sono stati alcuni componenti della commissione. Primo tra tutti il vicepresidente Mauro D’Attis che già domenica scorsa aveva giudicato le parole di Emiliano “degne di un approfondimento”. D’Attis aveva anche ipotizzato l’audizione di un ex presidente dell’Amtab, Antonio Di Matteo, che in un’intervista aveva parlato di “concorsi truccati, denunce e, soprattutto omertà”.
Mentre la parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra, Elisabetta Piccolotti, ha fatto sapere che su proposta della presidente Colosimo, si è deciso “di aspettare l’arrivo complessivo degli atti riguardanti l’inchiesta di Bari prima di avviare le audizioni”. “È bene che il lavoro della commissione non sia sporcato dalle strumentalità politiche che, numerose, ci sono state in questi giorni contro un sindaco e una giunta che non risultato in alcun modo coinvolti in attività criminali”, ha detto. Si valuterà anche la convocazione del procuratore antimafia di Bari che peraltro, proprio in occasione degli arresti aveva escluso qualsiasi coinvolgimento del sindaco riconoscendo che “l’amministrazione comunale è stata costante nell’aiutare gli inquirenti a liberare questa città”.
La commissione potrebbe anche valutare di ascoltare il ministro Piantedosi per “la procedura irrituale con cui ha deciso per l’invio della commissione”, ha detto Piccolotti. Il fulcro attorno a cui ruota tutto è proprio la municipalizzata del trasporto cittadino finita al centro dell’inchiesta ‘Codice interno’ che nelle scorse settimane ha portato a 130 arresti e che ha disvelato oltre a scambi politico – mafiosi, anche la capacità dei clan di pilotare le assunzioni. Ma la vera miccia che ha fatto esplodere lo scontro politico è stata la decisione del ministro Piantedosi di inviare a Bari una commissione per valutare eventuali infiltrazioni nell’amministrazione, su sollecitazione di parlamentari pugliesi del centrodestra. Il sindaco Decaro ha reagito convocando una conferenza stampa mostrando i faldoni della sua attività antimafia cui è seguita la manifestazione di piazza ‘giù le mani da Bari’. Nel frattempo la commissione è arrivata in città e da ieri è in Prefettura per esaminare le migliaia di carte dell’inchiesta.
Per la prima volta dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas dopo gli attacchi del 7 ottobre, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che chiede una tregua a Gaza. Il testo del documento, che ha ottenuto 14 voti a favore e un’unica astensione, gli Usa, “chiede un cessate il fuoco immediato per il Ramadan rispettato da tutte le parti che conduca ad un cessate il fuoco durevole e sostenibile, il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi, nonché la garanzia dell’accesso umanitario per far fronte alle loro esigenze mediche e umanitarie”.
Inoltre “si richiede che le parti rispettino i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale in relazione a tutte le persone detenute”, e si sottolinea “l’urgente necessità di espandere il flusso di assistenza umanitaria e rafforzare la protezione dei civili nell’intera Striscia, ribadendo la richiesta di eliminare tutte le barriere alla fornitura di assistenza umanitaria su larga scala, in linea con le norme del diritto internazionale umanitario”. La risoluzione “deplora” infine tutti gli attacchi contro i civili e gli atti di terrorismo, e ricorda che la presa di ostaggi è vietata dal diritto internazionale, ma non contiene alcun riferimento esplicito ad Hamas. Fattore quest’ultimo che ha scatenato l’ira di Israele e provocato l’astensione di Washington, come ha spiegato l’ambasciatrice Usa Linda Thomas-Greenfield.
In ogni caso dopo tre veti degli Usa e uno di Russia e Cina, finalmente il Consiglio di Sicurezza ha interrotto lo stallo sulla tregua a Gaza. Il documento, come tutti quelli approvati dal Cds, ha carattere vincolante e dunque obbligatorio per gli Stati membri, mentre le risoluzioni dell’Assemblea Generale hanno un valore politico e simbolico ma non sono vincolanti. Questo non vuol dire che lo Stato ebraico sia disposto a rispettare quanto richiesto, visto che già molte volte in passato ha ignorato il contenuto di risoluzioni Onu, da quelle sullo stop agli insediamenti nei territori palestinesi occupati a quelle che riguardavano la soluzione dei due stati.
In generale, una delle risoluzioni più famose riguardo il conflitto israelo-palestinese è la181 del 1947, con cui l’Assemblea Generale propose di dividere la Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico, con capitale Gerusalemme, messa sotto un regime internazionale speciale. Nel 1950, invece, l’Onu decise di fondare un’agenzia per dare aiuti e servizi essenziali ai Palestinesi che a causa del conflitto erano diventati rifugiati, l’Unrwa, finita oggi nel mirino di Israele. Dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, l’Onu con la risoluzione 242 invitò Israele a ritirarsi dai territori occupati, e a oggi questa risoluzione non è stata mai rispettata.
Un’imboscata jihadista contro l’esercito del Niger ha provocato la morte di 23 soldati in una regione vicina al Burkina Faso e al Mali, contraddistinta dalla presenza di gruppi jihadisti che stanno intensificando gli attacchi. Lo ha annunciato il governo. Dalla fine di luglio del 2023, il Niger è governato dai militari, che hanno preso il potere con la forza per arginare la violenza jihadista, secondo il governo, ma gli attacchi proseguono.
Il nuovo attacco è avvenuto mentre l’esercito stava conducendo una “operazione di rastrellamento” nella regione di Tillaberi, martedì e mercoledì. “Durante il disimpegno, un’unità è stata sorpresa in ‘un’imboscata complessa’ in cui sono stati uccisi 23 soldati e ‘neutralizzati una trentina di terroristi'”, ha annunciato il Ministero della Difesa.
L’obiettivo dell’operazione era “rassicurare la popolazione vittima delle atrocità commesse dai gruppi terroristici armati, tra cui omicidi, estorsioni e furto di bestiame”, ha aggiunto. “Oltre un centinaio di terroristi a bordo di veicoli e motociclette” hanno attaccato un’unità dell’esercito tra le città di Teguey e Bankilaré utilizzando “bombe artigianali e veicoli kamikaze”, si legge nel comunicato. “Malgrado la risposta energica, piangiamo la perdita di 23 soldati coraggiosi e 17 feriti”. Un periodo di lutto nazionale di tre giorni è iniziato oggi, secondo una dichiarazione trasmessa dalla televisione di Stato. La regione di Tillaberi è un rifugio per i jihadisti del Sahel, compresi quelli dello Stato Islamico nel Grande Sahara e di al Qaida.