Confermata ad Ancona dalla Corte d’assise d’appello la condanna all’ergastolo con isolamento diurno di 18 mesi per Innocent Oseghale, 32enne pusher nigeriano, per l’omicidio della 18enne romana Pamela Mastropietro uccisa e fatta a pezzi il 30 gennaio 2018 a Macerata. Le accuse sono omicidio volontario aggravato della violenza sessuale, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere.
“Bravi, grandi”. L’applauso di Alessandra Verni, madre della 18enne Pamela Mastropietro, uccisa e fatta a pezzi il 30 gennaio 2018 a Macerata ha salutato il verdetto della Corte d’assise d’appello di Ancona emesso in serata dopo cinque ore e mezza di camera di consiglio: confermata la condanna all’ergastolo, con isolamento diurno di 18 mesi, per Innocent Oseghale, 32enne pusher nigeriano accusato di omicidio volontario, aggravato dalla violenza sessuale, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere. Dopo la lettura del dispositivo, da parte del presidente della Corte Giovanni Trere’, la madre di Pamela ha esultato, frenata dal proprio legale. Mentre Oseghale stava uscendo dall’aula, scortato dalla polizia penitenziaria, ha detto ad alta voce: “non l’ho uccisa, va bene, capite tutti italiani”. “Ci aspettavamo questa sentenza, vista l’aria che tirava stamattina…”, il commento a caldo di uno dei due difensori, l’avv Umberto Gramenzi. La difesa ha annunciato il ricorso in Cassazione perche “si sono verificate delle violazioni di legge”. La sentenza e’ arrivata dopo una lunga udienza dedicata in particolare alle arringhe difensive e alle dichiarazioni spontanee dell’imputato. “Non ho ucciso Pamela”, ha ribadito Oseghale ammettendo pero’ quasi impassibile di averne sezionato il corpo per disfarsene perche’ non entrava in una valigia. “Ero sotto choc, confuso, agitato – ha riferito a proposito del sezionamento del corpo, leggendo un foglio manoscritto tradotto da un interprete dall’inglese – ho fatto una cosa terribile…mi dispiace”. Scuse rispedite al mittente prima dal legale della famiglia, avv. Marco Valerio Verni, zio di Pamela, e poi dalla madre della 18enne romana, sempre presente alle udienze. “Le scuse se le puo’ tenere – ha replicato a margine del processo – Ha avuto l’ultima possibilita’ di raccontare la verita’ e non l’ha fatto. Non gli credo. Ando’ a comprare la candeggina con un altro, ci spieghi perche’…”. Il corpo della giovane venne ritrovato il giorno seguente all’interno di due trolley sul ciglio di una strada a Pollenza, vicino Macerata, dove Oseghale l’aveva lasciato. Accolta dunque dai giudici la ricostruzione della procura generale, rappresentata dal pg Sergio Sottani e dal sostituto Ernesto Napolillo: Oseghale uccise Pamela con due coltellate al fegato dopo aver consumato con lei un rapporto sessuale, approfittando dello stato di fragilita’ della ragazza – con doppia diagnosi borderline e di tossicodipendenza – scappata il giorno prima da una comunita’ terapeutica e che aveva assunto eroina procurata proprio per il tramite di Oseghale. L’omicidio, secondo l’accusa, sarebbe stato il modo per evitare che lei lo denunciasse. In udienza la difesa – anche con l’altro avvocato Simone Matraxia – ha dato battaglia per respingere le accuse di omicidio e violenza sessuale. I difensori hanno contestato le risultanze medico legali e in particolare il fatto che le due ferite da coltello fossero state inferte quando Pamela era in vita. Il 32enne ha sempre sostenuto che Pamela accuso’ un malore in casa dopo essersi iniettata eroina e che poi mori’: lui, preso dal panico, secondo la sua versione dei fatti, smembro’ il corpo solo per disfarsene. Opposta la ricostruzione accusatoria che ha delineato il profilo di Oseghale come di una persona incline a mentire, un “acrobata della menzogna” e con particolari abilita’ medico legali, tanto da fare a pezzi il corpo con modalita’ uniche al mondo tra i casi di criminologia. Nessun dubbio, secondo la Procura generale, circa la vitalita’ delle due ferite da coltello che causarono l’emorragia fatale a Pamela nella mansarda di via Spalato 124.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.