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Economia

Coldiretti, la pasta nel carrello degli italiani vale 4 miliardi

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Le famiglie italiane spendono all’anno quasi 4 miliardi di euro per mettere nel carrello la pasta, in tutte le sue varianti. E’ quanto emerge da un’analisi di Coldiretti su dati Istat, diffusa in occasione del World Pasta Day. L’Italia, secondo gli ultimi dati, mangia 23,1 chilogrammi di pasta a testa, ma penne e spaghetti spopolano anche all’estero con i 17 chili della Tunisia, seguita da Venezuela (12 kg), Grecia (11,4 kg), Cile (9,5 kg), Stati Uniti (8,8 kg), Argentina (8,6 kg) e Iran (8,5 kg). Nonostante la difficile situazione internazionale, le esportazioni di pasta italiana sono aumentate del 6% nei primi 7 mesi del 2024, secondo la Coldiretti su dati Istat, con Germania, Stati Uniti e Francia che sono nell’ordine i principali mercati. Ma c’è anche chi non si accontenta della pasta comprata al supermercato e si mette all’opera con farina e mattarello per prepararla a casa.

Secondo un’indagine Coldiretti/Ixe’, il 27% degli italiani dichiara che in famiglia si preparano tagliatelle, tortellini, agnolotti e altri tipi di specialità. Una passione che coinvolge soprattutto i giovani tra i 18-34 anni, mentre a livello territoriale è più radicata al Sud e al Centro. Tra le novità degli ultimi anni è poi la diffusione sul mercato di pasta 100% italiana con grano di origine nazionale, che vede il coinvolgimento dei principali brand del settore. Il consumo di penne e spaghetti tricolori, secondo la Coldiretti su dati Ismea, rappresenta il 40% in volume e valore del totale acquistato nella Grande distribuzione.

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Economia

Rating: la Francia “graziata” e l’Italia penalizzata, un confronto tra economia e giudizi delle agenzie

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La recente decisione di Standard & Poor’s di confermare il rating AA- con outlook stabile alla Francia, nonostante le crescenti criticità della sua finanza pubblica, ha sorpreso molti osservatori. Questo giudizio, equivalente a un “otto e mezzo in pagella”, arriva mentre la situazione economica italiana continua a essere sottovalutata dalle stesse agenzie di rating.

La Francia evita il declassamento

Nonostante il rischio di un possibile downgrading, che avrebbe potuto scatenare turbolenze sui mercati, la Francia ha mantenuto il suo status con Standard & Poor’s. Tuttavia, la sua situazione economica presenta segni evidenti di difficoltà, tra cui uno spread paragonabile a quello della Grecia e un deficit primario crescente.

L’Italia supera l’esame ma meriterebbe di più

Nel frattempo, l’Italia ha superato l’analisi autunnale delle agenzie di rating, mantenendo la sua posizione grazie alle conferme da parte di Standard & Poor’s e Moody’s, e con miglioramenti dell’outlook da Fitch e DBRS. Tuttavia, i rating rimangono appena sopra la sufficienza.

In un contesto di miglioramenti economici, competitività internazionale e stabilità politica, l’Italia potrebbe legittimamente aspirare a valutazioni più alte, come una A- da S&P e Fitch o una A3 da Moody’s.

Le disparità nei giudizi

Moody’s continua a valutare l’Italia con un Baa3, solo un gradino sopra la Grecia e ben sette sotto la Francia (Aa2). Questo nonostante i numeri mostrino che l’Italia, in termini di finanza pubblica, è in una posizione migliore rispetto a molti altri Paesi europei.

Ad esempio, tra il 1995 e il 2029, l’Italia sarà uno dei pochi Paesi del G7 e dell’UE a registrare un bilancio primario in surplus per 30 anni, rispetto ai soli 4 anni della Francia. Nel biennio 2025-2026, l’Italia è destinata a presentare un surplus primario di 37,4 miliardi di euro, mentre Francia e Germania prevedono deficit rispettivamente di 160,2 miliardi e 69,5 miliardi.

La lezione italiana sul debito

Nonostante l’austerità imposta in passato abbia frenato la crescita, dal 2014 al 2019 l’Italia ha ridotto il rapporto debito/PIL, mantenendolo sostanzialmente stabile fino alla pandemia. Sul difficile periodo 2020-2026, l’Italia ha registrato l’incremento più contenuto del debito netto tra i Paesi del G7: solo +1,8 punti di PIL, rispetto a +12,9 della Francia e oltre +10 punti per Regno Unito, Stati Uniti e Giappone.

Una valutazione che ignora i dati

Le agenzie di rating continuano a penalizzare l’Italia nonostante i mercati abbiano ridotto lo spread di 120 punti dai massimi del 2022. È chiaro che i modelli utilizzati per i rating sovrani spesso sottovalutano la realtà economica, mantenendo pregiudizi e soggettività che non rispecchiano i numeri concreti.

Mentre la Francia continua a essere “graziata” dalle agenzie di rating, l’Italia, pur mostrando segnali di affidabilità e miglioramento, rimane penalizzata da valutazioni che non riflettono la sua reale situazione economica. È tempo che i criteri di giudizio siano aggiornati per premiare i progressi e la stabilità dimostrati da Paesi come l’Italia.

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Economia

Boom cripto, mercato da 2,2 miliardi in crescita del 64%

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Decisamente più remunerativo del deposito su un conto corrente ma molto più rischioso della Borsa. Investire in criptovalute sembra piacere agli italiani, guardando agli 1,35 milioni che hanno acquistato moneta virtuale, con una media di 1.600 euro a testa, per un mercato che in totale nel Bel Paese vale 2,22 miliardi di euro. Lo dice il sindacato dei bancari Fabi, avvertendo però sui rischi e sulla mancanza di tutele.

I criptoasset sono tornati alla ribalta di recente non solo per l’impennata del valore del Bitcoin dopo la vittoria di Donald Trump, ma anche per la volontà del governo di alzare in manovra l’aliquota sulle plusvalenze. Nel mondo a metà novembre le criptovalute valevano tremila miliardi di dollari, +79,2% rispetto a gennaio 2024, quando il giro d’affari complessivo di Bitcoin (che ha il record di diffusione con il 60% del mercato), Ethereum (13%) e altre “cripto” era circa 1.680 miliardi di dollari. Il dato sul mercato italiano fornito è riferito a giugno scorso ed è in crescita di 870 milioni (+64%), rispetto agli 1,35 miliardi di giugno 2023. Ma l’andamento nei 12 mesi è stato da montagne russe.

Da 1,35 miliardi di fine giugno 2023 si è passati a 917 milioni a settembre dello stesso anno, per risalire a quasi 1,5 miliardi a dicembre, per poi schizzare nel primo trimestre 2024 sfiorando i 2,9 miliardi (+92%) e ripiegare a 2,2 miliardi a giugno scorso, il 22% in meno in soli tre mesi. Oltre il 99% dei detentori sono persone fisiche e i millennial sono i più numerosi (37%), ma detengono importi pari al 39% circa del controvalore complessivo, mentre i possessori tra 40 e 60 anni, pur rappresentando il 28% del totale, hanno il 49% dell’investito.

I dati, spiega ancora la Fabi, non sono comunque esaustivi del mercato italiano perché solo una parte dei portafogli e delle transazioni avviene attraverso prestatori di servizi regolarmente registrati in Italia; il resto non è monitorato. In termini percentuali, la quota maggiore di mercato a fine settembre era degli Stati Uniti (16,58%), seguito dall’India (9,44%) e dal Brasile (8,10%). Quanto al valore complessivo, la Fabi sottolinea che, rispetto ai mercati finanziari “tradizionali” e regolamentati, si tratta di volumi marginali: la capitalizzazione dei titoli quotati nelle piazze finanziare, a livello globale, si è attestata, a novembre, a 112mila miliardi di dollari.

Il sindacato mette in guardia sui rischi: “Chi decide di acquistare criptovalute deve sapere che non si tratta di valute come l’euro o il dollaro”, spiega il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni. Non hanno alcun collegamento con istituzioni e governi centrali, precisa la Fabi, pertanto possono essere create da chiunque, in qualsiasi momento, in ogni parte del mondo e le operazioni avvengono su una rete informatica decentralizzata. “Sono strumenti di investimento altamente speculativi e, soprattutto, non regolamentati – aggiunge Sileoni – Quindi in caso di perdite o truffe, non esistono strumenti di tutela legale e contrattuale”. Nella “Guida alle criptovalute” realizzata nell’ambito del Mese dell’educazione finanziaria, in cui sono state raccolte anche le indicazioni della Banca d’Italia e della Consob, la Fabi avverte anche sui rischi di natura operativa, che riguardano strettamente la protezione e la sicurezza informatica, dopo che si sono verificati numerosi cyber attacchi.

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Economia

L’Ape dice ‘addio Italia’, fabbricata solo in India

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Un’epoca che si chiude. Dopo 76 anni l’Ape Piaggio (nella foto uno dei pochi Ape ancora in circolazione come taxi sull’isola di ischia) non sarà più prodotta negli stabilimenti di Pontedera (Pisa). Un pezzo di storia che se ne va dall’Italia, ma non un addio in senso assoluto. La celebre tre ruote vivrà una seconda vita in India, dove è già prodotta da anni. Il primo modello dell’Ape fu progettato nell’immediato secondo dopoguerra dall’ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio che aveva inventato anche la Vespa, seguendo un’intuizione di Enrico Piaggio. A distanza di 76 anni la decisione dell’attuale proprietà di abbandonare la produzione, dovuta essenzialmente alle nuove norme dell’Unione europea sui veicoli, come fanno trapelare fonti vicine al gruppo industriale confermando quanto rivelato dai sindacati.

L’Ape verrà fabbricata esclusivamente in India, per il mercato locale e per quello africano, dove i vincoli in materia di emissioni inquinanti non sono stringenti. Non si tratterebbe di una delocalizzazione all’estero, bensì di riconversione industriale. Piaggio si sta attrezzando per produrre a Pontedera il Porter elettrico, furgone che dovrebbe sostituire lo storico motocarro a tre ruote. La decisione è stata comunicata nei giorni scorsi ai sindacati che però non sono stati colti di sorpresa dall’annuncio. “Al di là dell’aspetto romantico del legame col territorio è una scelta in qualche modo obbligata. L’Ape è un Euro 4 a due tempi, immaginare un due tempi Euro 5 è una cosa complicata dal punto di vista della meccanica.

Sarebbe necessario cambiare la motorizzazione ma a quel punto non sarebbe più un’Ape”, le parole di Angelo Capone, segretario Fiom Pisa. Anche per Samuele Nacci, segretario provinciale Uilm, “con le attuali normative non ci sono più margini per produrre in Italia. Il nostro dispiacere è per un pezzo di storia di Pontedera che se ne va, con l’Ape che sarà ancora realizzata in altri stabilimenti di altri Paesi. Forse certe leggi sono state introdotte un po’ frettolosamente, sembra che solo l’Europa si preoccupi dell’inquinamento, mentre al resto del mondo non frega nulla”. Al momento non sembrano esserci particolari preoccupazioni per quanto riguarda le ricadute occupazionali, nonostante l’annuncio della cassa integrazione per tre settimane dal 2 dicembre per quasi 1.100 lavoratori dello stabilimento. Il dispiacere espresso dalle organizzazioni sindacali è anche per il lato ‘romantico’, per la perdita di un simbolo italiano noto in tutto il mondo. Era già accaduto in occasione della dismissione del ‘Calessino’, altro modello di Ape.

“Quando ci hanno comunicato la notizia – sottolinea Flavia Capilli segretaria regionale Fim Cisl – c’è stata preoccupazione sul momento, però abbiamo avuto rassicurazioni sul fatto che ci sono altri modelli da sviluppare su cui investire, le linee saranno riorganizzate, anche se spiace per questo ‘pensionamento'”. Tuttavia rimane “una cauta preoccupazione, che c’è sempre quando ci sono di mezzo gli ammortizzatori sociali. Tre settimane di cassa integrazione per 1.100 operai hanno comunque un impatto forte. Però il vero tema è sapere quanto prima su quali prodotti saranno fatti gli investimenti, come avverrà la riorganizzazione. Ancora non lo sappiamo”.

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